14 Settembre 2024

“Fino alla fine dell’illusione umana”

L’ultima volta che ho visto Luca Orlandini sarà stato un anno fa – anche di più. Guidava una moto che chiamerei Bucefalo – non so nulla di moto. La sua casa, a Milano, aveva un tot di libri: essenziali – gradiva, di volta in volta, liberarsene; li regalava agli ospiti come fossero trappole. Più tardi mi mostrò la panchina su cui sedeva Luciano Bianciardi, in una nota fotografia – cucinò qualcosa di buono. I quadri alle pareti, di valore – non so nulla di quadri né di mercato dell’arte –, sono stati venduti. Non so che fine abbia fatto Luca Orlandini – ne ricordo la finezza, felina, la fierezza, i modi di chi ama qualcosa consapevole di potersene liberare ora. Per questo, in lui, l’eccesso ha un che di antartico, la sovrabbondanza è un elemento dell’autarchia ascetica. In lui, crotalo e feretro sono la stessa cosa, rosa e posa l’analogo: uno stemma, prima o poi, va ulcerato nel suo contrario, nella belva che lo contiene.

L’ultima volta, accennava alla Puglia, cacciava il polpo, s’insinuava tra le personalità. Credo che Luca Orlandini possa assumere tutte le forme – perfino quella della falena e quella del fanone. Sa essere umile e faraonico allo stesso tempo: pare lavori in Francia, l’editrice De Piante ha appena stampato La filosofia della tragedia, magnetico saggio di Lev Šestov su Dostoevskij e Nietzsche, curato da Orlandini, ne parleremo; da poco la casa editrice Le Lettere ha pubblicato la sua traduzione dello stupefacente libro di Benjamin Fondane, Baudelaire e l’esperienza dell’abisso. Tuttavia, l’ultima volta, Orlandini mi ha parlato di ulivi – poi ha accennato a qualcos’altro, a un’avventura nei meandri meridiani. In tutto ciò che dice, nonostante la furibonda austerità, giace il sole.

Un dettaglio non irrilevante riguardo alla sua vita si trova a pagina 62 del suo ultimo libro – ne dirò tra un attimo. Orlandini accenna al Diamantino, nel Mato Grosso, Amazzonia.

“Lì abbiamo posseduto terre immense, vaste come tutta la regione Lazio… Sono territori che abbiamo perduto, come d’altronde tutto il resto. Oggi posso solo ricordare il tempo in cui sono stati nostri, ma solo formalmente, per la legge degli uomini, perché la natura non si lascia possedere ma solo sfruttare o distruggere dalla nostra follia, quando non è lei infine ad annientarci, sempre”.

In quel brano, Orlandini parla della “fascinazione ipnotica” dell’animale, “verità inaccessibile alle parole, mondo anteriore al verbo, carisma primordiale che abbiamo perduto”. Devo credere a questa amazzonica infanzia di Orlandini, alla rapacità con cui desidera, viene da dire, perdere tutto, per una astrale propensione al futuro.

Quanto al libro, la faccio breve. Forse due anni fa, forse di più, Orlandini mi invia un file. Il titolo è – a proposito di fascinazioni – ipnotico: Onça, come la Panthera onca, il giaguaro delle Americhe. Segue un sottotitolo, che non funge da didascalia: “L’albero della scienza non è l’albero della vita”. Si tratta della sbobinatura di un lungo dialogo intrattenuto da Orlandini, in aeroporto, con un giornalista. La scrittura, in effetti, mantiene i ritmi assertivi, all’assalto, del dialogo improvvisato, inatteso, nell’attesa del volo. Orlandini i temi dominanti: l’epopea del progresso, la protervia degli Elon Musk, la muscolare idiozia degli ecologisti e degli umanisti, l’ideologia della scienza, la coercizione sanitaria; disintegra, con singolare ingegno – anzi: con persuasiva violenza –, le nostre convenzioni sociali, le nostre convinzioni, fossero pure – pietisti di illusioni – anarcoidi, imperative, ‘controcorrente’. Fa a brandelli – come logica conclusione del suo dire – la ‘cultura’, la poesia ancillare alla metafisica, gli scrittorucoli in carriera come quelli che si immergono nell’‘opera’, quintessenziale, in fondo, alla loro viltà, alla cronica paura di immergersi nel puro elemento – di essere. Alcuni passaggi sono meravigliosi; ne ricalco uno:

“E forse lei lo sa, che la vera poesia più spesso si trova fuori dalla poesia, dai poeti di professione, perché, come si dice, lei è impossibile, esiste solo quando viene immaginata e una volta finita sulla pagina, scompare. Per quello a un amico ho citato quegli Yali che… abitando le regioni remote del Wanyak, mai usciti dai loro confini, dalle loro montagne o visto altre culture, portati a visitare per la prima volta l’Europa, un giorno d’inverno si trovarono sulla costa francese, su una spiaggia con il mare in tempesta, stupiti e rapiti, e uno di loro esclamò all’altro, serio: “guarda! il mare vuole mangiarmi, le onde mi leccano i piedi”. Sono parole che non ho affatto preso dai libri. Era poesia, o quella che noi chiamiamo poesia, senza che ne avessero coscienza. Non sono neanche degli “straordinari creatori di immagini”, perché sarebbero già rubricati nel dominio della nostra arte. In realtà l’immagine, l’analogia e le corrispondenze loro le respiravano. Diventano la nostra poesia, il concetto della nostra arte, qualcosa di decaduto, solo dopo una catastrofe epocale, quella che uccise il mito antico. Quando si è estranei al pregiudizio della finezza, dello spirito e dell’intelligenza, lo sfruttamento erudito delle sensazioni e dei fenomeni del mondo, il territorio privilegiato del letterato, dove ci si sente a casa tra le parole, appare per quello che è, mera agricoltura spirituale. Se proprio devo commettere il reato di scrivere, penso a un universo extra letterario, di cui in fondo non sono neanche più degno. A un bosco come una cattedrale, al pregiudizio della strada, alle vie non battute che lambiscono la calligrafia di un dio inghiottito dal caso, refrattario alla liturgia. All’istante che tocca e svanisce, nella polvere. A una messe di creature sfuggenti che formulano una natura, screditando il prestigio dell’Uomo. Solo qui tocchi le immagini, il “tutto è simbolo”, come si tocca la terra con le mani, non disdegnandone il fetore”.

Il testo – ripeto – ha il pregio di mostrare un cosmo con la screanzata schiettezza di un dialogo. Dovrebbero imbracciarlo orde di ragazzi, più che altro rimbambiti dai rumori di fondo, dai divulgatori, da questa volgarità in cravatta. Saprebbero, forse, intuire la marcia, la corsa e il rischio che prevedono le parole di Orlandini – parere mio: non mi stupirei si fosse mutato in gazza, in iceberg o in funambolo del fuoco.

Ad ogni modo, mi lasciai coinvolgere, applicando, in appendice al dialogo, una specie di Bestiario – di cui, in fondo, allego un brano. Nel frattempo, Orlandini ha rastremato, rarefatto, irriso nell’oro il suo testo; il libro ha trovato un editore coraggioso, Luigi Pellegrini, esce in questi giorni. Non ne sentirete parlare nei giornali di vaglia: è un libro che divora, che ai lacchè predilige le bande nottambule, ai discepoli fangose falangi di mercenari del sé, pronte, in occorrenza di preda, a dimenticarsi.

Ieri sera ho visto una volpe. Saranno state le undici. Trottava, la bestia, con adamantina eleganza, sui margini di un campo, incolto. In bocca, un bolide bianco – un colombo. Nessuna fosforescenza di sangue, nessun indizio di fame. La volpe pareva azzannare l’idea stessa di bianco: trascinava come un forziere la bianchezza. Non se ne vanteranno principi o re, perché il bene – quel biancore – è svanito da questo pianeta e ha le sempiterne gambe di un ragazzo.

Fosse qui, Orlandini mi direbbe che eccedo nel simbolo, che sono il molle poeta di un tempo estetizzato, sfinito, che sono un coglione, in fondo. Ha ragione.  

***

Ammesso che lei abbia voglia di parlare… in fondo il volo è in grande ritardo, abbiamo tempo. So che, “suo malgrado”, come dice lei, ha a che fare con l’editoria, con la cultura. Sono curioso, amo ascoltare più che parlare… se le va, possiamo parlare di un tema che a me preme molto: della famosa querelle che attraversa le epoche, tra due culture, quella letteraria, umanista, artistica e quella scientifica.

Con la sua richiesta lei mi trascina nel dibattito delle idee, che detesto. Mi irrita chiunque ostenti con passione una coscienza intellettuale, una competenza letteraria, saggistica, precipitando nella mediocrità dell’ovvio, dandosi all’orrore dell’astrazione, al dibattito, al fruibile, per disfare ciò che più conta. Ma… se è per passare il tempo. La questione a cui lei si riferisce è annosa. Conosco bene il problema. Tra gli altri, posseggo da decenni una vecchia copia consunta del libro di Charles Percy Snow, Le due culture, degli anni Cinquanta. Parla proprio di questo fenomeno e antagonismo. Della frattura tra la cultura umanista e quella scientifica, della diffusa ignoranza scientifica degli umanisti – i letterati, i poeti, gli artisti, i religiosi –, che viene imputata loro. Anche se qualcuno, all’epoca, non del tutto a torto, accusò il libretto di uno sviluppo insoddisfacente del tema, sostenendo che vi fosse più giornalismo che una conoscenza approfondita del fenomeno. Snow, in fondo, evocava una contesa millenaria che lungo i secoli ritroviamo in una legione di pensatori. Il suo non fu il miglior modo di trattarla, soprattutto alla luce di certe sue argomentazioni… il modo indifendibile e miope con cui sostenne alcuni pregiudizi ideologici a favore della scienza e del fenomeno dell’industrializzazione, dando prova di una discreta ignoranza e di scarsa lucidità rispetto al fenomeno di cui parlava. Allora il libretto ebbe un successo notevole e varie ristampe, anche nel corso dei decenni, fin nei giorni nostri. Evoco il suo nome, perché ancora oggi lo citano sui quotidiani, con recensioni scritte dai partigiani della scienza. Forse sarebbe più utile, come lettura, il libro ben più poderoso e rigoroso di Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico, che non condivideva “l’usurata contrapposizione tra sapere umanistico e quello scientifico”, un volume pubblicato più o meno negli stessi anni di quello di Snow.

Ha aneddoti, alcune esperienze personali, dirette, col mondo della scienza?

Nel tempo ho soggiornato più volte, per lunghi periodi, alla Yale University. A New Haven, nel Connecticut. Allora andavo alla Sterling Library e alla Beinecke Library. Molto belle. Lì trovavo tutto, ma proprio tutto, in qualunque lingua. Sono istituzioni che hanno in dote molti mezzi. Una simile impressione l’ho avuta anche alla Public Library di New York, a Bryant Park. Venni colpito dalla potenza del sapere, dalla sontuosa e dedita cura nel coltivarlo. C’è qualcosa di misterioso e maestoso in questi luoghi, di sovrano, ma anche una prestigiosa sclerosi, un velo di polvere che soffoca e atterrisce ogni linfa. Per contraccolpo e passione dell’anomalia, da totale idiota, immagino sempre il torvo bagliore di un passato remoto, un lupo preistorico, aggirarsi tra quei corridoi, a compromettere con un sussulto organico la compostezza inanimata degli scaffali, di una natura morta. All’epoca, a Yale, anche a me è capitato, proprio come accadde a Snow, di incontrare allo stesso tempo scienziati e letterati. Ci andavo a cena, a pranzo, in palestra. Ho avuto esperienze di prima mano, di vita reale, in un contesto di primissimo ordine intellettuale. In particolare, durante una delle mie ripetute e prolungate visite nel tempo, sono stato ospite a cena da un’italiana, un’autorevole neuroscienziata, una Sterling Professor, la massima onorificenza accademica per uno studioso, a capo di un grande laboratorio di ricerca. Un suo zio è stato un famoso filosofo della scienza kantiano. A questa cena accadde che lei, ferrata in filosofia della scienza, iniziò a parlare dei bambini nei termini di Jean Piaget, descrivendo il bambino come nient’altro che un potenziale adulto del “principio di realtà”, una sorta di adulto razionale in nuce. Sfoggiando così, implicitamente, il dogma che l’albero della scienza sia l’albero della vita. Eravamo in otto a tavola. Alle mie obiezioni, lei ribatté provocatoria, di punto in bianco e senza tanti complimenti, “viva Kant!”, mentre un altro ospite, un giovane e simpatico kantiano-marxista-leninista, allievo di un autorevole discepolo di John Rawls, chiaramente indispettito nei miei confronti, per dare manforte alla padrona di casa, esclamò: “Nietzsche era un pazzo”, senza che il nome fosse mai stato chiamato all’appello nella discussione. Obiettai loro che la Storia non è fatta da gente ragionevole ma da squilibrati, talvolta di rango, e aggiunsi… “anche Kant era uno squilibrato”. Ogni Illuminismo, di qualsiasi epoca, è stato e sarà anche infestato dai chiaroscuri, sommerso dalle cupe idiozie, travolto dai vicoli ciechi, le livide illusioni della sua utopia. Ogni epoca è più o meno disfunzionale.

Quale è il problema con Kant?

L’appello a Kant di questa gente non era casuale. Per quello ho reagito. Il filosofo di Königsberg fu sempre irritato dall’esperienza reale e, cosa ancor più grave, non riservò alcun posto alla compassione, o perlomeno alla convivenza, tra l’uomo e gli animali non umani. Niente lo ripugnava di più del ricordo di un’affinità tra l’uomo e l’animalità. Provava solo disprezzo per l’animalità dell’uomo. Anzi, era il suo vero tabù. Così, per ogni potente tradizione, non solo idealista ma anche umanista e dunque anche positivista, perfino materialista, la sovranità e il dominio dell’uomo sulla natura in realtà è rivolta contro gli animali, spesso anche tra quelli che pretendono di onorarla, quando paradossalmente idealizzano lo “Stato di natura” senza capirlo davvero, dato che hanno convertito in superstizione l’intelligenza umana, soprattutto quella intellettuale. Un illustre pensatore francese, che peraltro non ho mai amato, ha giustamente affermato che “per un sistema idealista, gli animali giocherebbero virtualmente lo stesso ruolo degli ebrei in un sistema fascista… gli animali sarebbero gli ebrei degli idealisti, che non sarebbero dunque che dei fascisti virtuali – il fascismo, qui, inizia quando si insulta un animale,o anche l’animale nell’uomo”. E un nostro giornalista culturale di oggi, che guarda caso è anche un accanito bibliomane, afferma candidamente di detestare un pensiero “capace di far assurgere bestie alla dignità di uomini e schiacciare uomini al rango di bestie”. Poco importa che questa nota si riferisca al torbido interesse dei nazisti per gli animali. Si tratta della solita, miope storia da intellettuali e umanisti.

Dedurre implicitamente che l’essere umano, in quanto a dignità, sia superiore all’animale, vuol dire insultare l’animale nell’uomo; così come lamentarsi di essere “schiacciati al rango di bestie”, vuol dire ritenerle inferiori a noi, con un pregiudizio talmente radicato e irriflesso, che questi dotti ormai sono perlopiù ignari di farsi sfuggire simili sciocchezze. Sfoggiano platealmente il sigillo della loro impotenza, l’anemia delle loro perplessità, lo scrupolo dettato dall’accesso di raffinatezza e confondono tutto ciò per superiorità e progresso.

Nutro un profondo orrore per questo tipo antropologico. Per i maniaci dell’intelligenza, gli alfieri dell’intellettualità pura, la civiltà letteraria, il pantheon dei colti… territorio dell’erudizione e teatro della conoscenza, dell’immortalità, l’epopea in preda alla paura della Morte. Ormai, in fondo, ammetto solo i libri che mi fanno percepire l’au de-là du livresque. In realtà sono sfinito, anche di leggere libri. È contro la mia natura. Quando non ami scrivere e non sei un potente creatore, capace, di tuo, di schiavizzare le orde, ma solo un lettore, i libri sono una trappola, una gabbia, una culla, una cuccia. Un vile rifugio.

L’esemplare più detestabile, il capofila di questa genìa, ai giorni nostri, è stato l’intellettuale francese. Perfino un tipo interessante come Witold Gombrowicz si vantava di essere antiletterario ma poi straparlava di Forma con la F maiuscola, di qualcosa di “superiore”, del suo culto per l’inferiorità, l’assurdo e, ahimè, avere il culto dell’elementare, essere uno specialista dell’infimo, ossia dell’esistenza, significa già esserne esclusi, per ciò che più conta; sedotti, non vi appartiene, non lo respirate, lo praticate soltanto, è già cosa, oggetto delle vostre riflessioni – non a caso, egli sosteneva di essere uno strutturalista sui generis, per quanto non scientifico ma “artistico”. Vede, l’unica cosa che lo salva ai miei occhi, in parte, è la vita che ha condotto in Sud America.

“Vedi, quella immagine dice molto, di un mondo che la cosiddetta civiltà ritiene solo l’infanzia dell’intelletto, della civiltà, come uno scarto di cui ci siamo liberati, perché ci siamo evoluti. Per me aver istinto questo mondo non è progresso. Non aver saputo conservare anche questo mondo, rispettarlo, è un nostro limite, non un vanto. La mia non è una posizione animalista… tanto più che, forse, la donna allatta il cinghiale anche per una questione utilitaristica, perché hanno bisogno di tenere in vita il cinghiale, per la comunità, è un risorsa.” L’autore della foto è Pisco del Gaiso, con cui ha vino il premio Re di Spagna per la Fotografia nel 1993.

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E lei come si pone in questo clima culturale?

Mi è estranea la misantropia di quei letterati che, infatuati della scienza, hanno troppo riflettuto sulla vita e, più che viverla, si rinchiudono in casa a scrivere la loro opera, che per essere vissuta impedisce loro di vivere la loro vita, giacché devono solo “vivere mentalmente quello che scrivono”, emulando i loro idoli, al punto che la vera vita, per loro, è solo quella che hanno vissuto scrivendo.

L’esplorazione, in tutti i sensi e fino alla fine dell’illusione umana, la vanità della lucidità, l’ambizione letteraria hanno castrato il loro senso vitale. In genere, guarda caso, sono quelli che provano diffidenza o indifferenza o disprezzo per la natura, per il reale, perché estranei al suo ritmo e tono, che non hanno mai conosciuto davvero. Sono quegli stessi letterati sedotti dalla scienza che ignorano la poesia perché disdegnano chi pensa per immagini, giacché per loro la poesia è solo “la parola fine a se stessa… è per questo che i poeti sono finiti”.

Sono quegli scrittori che si vantano di adorare soprattutto l’artificiale. Voglio dire, l’odore dell’hardware tecnologico, delle pellicole di plastica che ricoprono i prodotti tecnologici nuovi, ecc. Letteralmente. Anzi, più una cosa o un luogo, Las Vegas?, sono artificiali, ossia finti, e più godono. Parole loro, testuali… “bisogna combattere il nemico supremo di ogni essere vivente, la natura… quale progresso della coscienza umana può esserci in un’attività che è quella principale di ogni altro animale?… paradossalmente proprio gli amanti della natura non vedono ciò su cui la natura si basa, ossia lo sterminio; mi fanno lo stesso effetto di un ebreo che si dichiari un amante del nazismo.” Per questa gente in fondo il progresso è solo quello del genere umano che, con un soprassalto di vano orgoglio, si sforza di uscire fuori dallo Stato di natura, dalla libertà Selvaggia!, con la razionalità della sottomissione alla volontà generale della Società civile – che, lo ricordo, era “un’idea della ragione”, diceva Kant, tutta illuministica –, come se questo stato fosse qualcosa di inferiore, da cui affrancarsi in assoluto. Per certi aspetti, il profilo di questo scrittore ricorda molte manie dei transumanisti e i tecno-darwinisti. A me in realtà ha sempre ripugnato questa vita che ha orrore del suo stesso atto. Quel sapere che impone che si debba avere più che altro orrore della vita, degli animali e della natura, della nostra stessa animalità. Qui, orrore ed estasi della vita, ormai, è più che altro solo orrore.

Ecco l’epilogo di una lucidità tutta intellettuale. Di una Testa che cammina. Di colui che pensa, si pensa e pensa di pensarsi. Di un pensiero che si pensa e smette di partecipare alle cose, più affascinato dall’esistenza nella scrittura, che dalla scrittura nell’esistenza.

E le dico anche questa, così dissipiamo ogni ipocrisia. Anche il letterato più materialista, scientista, darwinista, sadiano, antimetafisico, se riconosce un ruolo di primo piano al linguaggio, dedicandogli la maggior parte della propria vita adulta, venti o trent’anni, da scrittore, rinchiudendosi in casa a scrivere la propria opera, in fondo è stato ed è un metafisico all’ennesima potenza, per quanto alla fine, a cose fatte, disdegni il linguaggio e si vanti da sempre di aver disprezzato la metafisica, sostenendo di non avervi mai riposto alcuna speranza; proprio come quando afferma, da scientista, la sua “raggiunta consapevolezza dell’inutilità di ogni battaglia per la razionalità, l’unica che ormai mi interessi un minimo, che però se pure uno dovesse vincerla, neppure quello sarebbe una consolazione.” Bara, come Beckett che, pur sedotto dal silenzio, nelle sue opere ripudiava il verbo ma ha provato ‘gioia’ nello scrivere e, al pari di Paul Valéry e Marcel Proust, trovò il suo unico sostegno nelle parole, nei “simboli della fragilità trasmutati in fondamenta indistruttibili”, al punto da arrivare a sentenziare nel suo Proust, un saggio che mi ha sempre lasciato indifferente: “la saggezza di tutti i saggi… consiste non già nella soddisfazione, bensì nell’ablazione del desiderio”, in nome della quale trasfigurava: “la falsa realtà dell’esperienza”. Non esiste cosa più complice della Conoscenza, come il linguaggio. L’antico verso “in principio era il Verbo” ha fatto della caduta, del pregiudizio verbale, uno sprezzante segno di elezione, rivendicando con orgoglio un potere estatico… “l’animale vive, semplicemente, solo l’uomo esiste”, con un desolante epilogo.

La realtà dell’esperienza… falsa? In molti sensi è vero il contrario. È la coscienza, ossia l’eccesso di riflessione, a rendere falsi, quando diventa l’atrofia e il paradosso di un mondo in cui l’intelligenza si rivela incompatibile con la vita. Nessuno

di questi illustri signori sfugge a questa sterile contraddizione.

Ma chi sono questi letterati amanti della scienza, di cui parla?

Ci sono dei casi limite. A volte sono anche quegli stessi letterati-scientisti infervorati dal loro animo tutto sadiano, ispirati dall’apostolato satanico, dal compiacimento demoniaco, l’estasi del crimine, l’orgia e l’apologia della distruzione universale.

Infatti, malgrado questi ci tengano a ripetere a getto continuo che la bellezza è solo una ridicola illusione, un puerile mascheramento, una farsa che vela l’irrimediabile orrore di esistere, una delle poche cose che loro trovano davvero bella è l’idea che la Terra tra un miliardo di anni sarà inglobata dal Sole. E del cielo stellato, a cui riescono ad associare solo l’immagine di un tumore, pensano solo a “realmente quello che è… spaventoso”. Posso solo immaginare cosa penserebbero di fronte a un’aurora boreale, qualora la vedessero dal vivo. Più che altro, per loro è solo la percezione visiva del vento solare, delle letali particelle del Sole cariche di elettroni e protoni che viaggiano attraverso il sistema solare a velocità supersoniche, impattando la nostra atmosfera, scontrandosi con il nostro campo magnetico, che si estende per migliaia di kilometri nello spazio e protegge la terra. Eccole servita l’univocità della spiegazione scientifica. Ha presente i baci appassionati? È come se le ricordassero di continuo, ossessivamente, dell’abituale presenza, nella cavità orale, di più di 490 batteri patogeni. È vero. Dopodiché, in generale, non le resterebbe che non baciare o leccare mai più le fessure di una donna.

Quello che colpisce, è che questa gente continua a ripetere a getto continuo che la natura fa più che altro orrore, e chiunque non la pensi così è solo un ambientalista, un essenzialista, un ingenuo, un totale idiota.

Per loro esiste solo l’orrore. Orrore per gli animali. Orrore per la Terra, le foreste, il cielo stellato, per il mare, la montagna, i laghi, i fiumi. Per gli elementi. Orrore per la viva energia di un urlo disperato o una vita in preda all’ira, un pianto inconsolabile, il ballo che sregola tutti i sensi, un riso incontenibile. Orrore per tutte le illusioni degli esseri umani, per quella frode che chiamiamo amore, la morte, per la tentazione di vivere malgrado tutto e la volontà di dissipare, vivendolo, il proprio nulla vitale, il capitale di linfa che abbiamo avuto in dote con la nascita. Sono dei perfetti spinozisti.

È come guardare la vita a partire dalla visione che trova nell’ultima, micidiale parte della Recherche – benissimo – e vivere da castrati della fisiologia, per rifugiarsi nel proprio studio, in casa, nelle parole, il linguaggio, la letteratura, i libri, le idee, la scienza e magari nella pornografia, su WhatsApp o, allo stesso tempo, seduto sul divano tutto il giorno, depresso, a giocare alla Playstation, per sottrarsi alla letale volgarità del mondo, al suo reale fetore. A me fa orrore. Tutto questo mondo, i teorici del viaggio intorno alla propria stanza, alla propria biblioteca. La cultura che giustifica questo orrore, questo odio, questa vile ritirata e la spaccia per un atto quasi eroico, sovrano. E lo dico io, un solitario che odia le folle e coltiva una compatta solitudine.

Le rivelo un episodio, in altro ambito. Da grande, in una tenuta vicino a New York, laddove ho anche avuto il privilegio di incrociare da vicino un orso, fui ospite da amici, con una loro amica, una donna che amava le donne. Aveva quarant’anni. Era una giovane donna a suo modo fragile ma dal voluto tenore maschile, che pretendeva di fare la dura e aveva l’incomprensibile ansia – un’eccessiva sensibilità per qualcosa è forse il segno di una segreta debolezza? – di essere più seducente dei maschi, di fottere le donne meglio di loro, e quando sul bordo erboso di un ruscello trovai un serpente di un metro e mezzo che strisciava e lo presi per la coda con la noncuranza di un fanciullo divino – lui, che tenacemente voleva mordere la mia innata capacità di maneggiarlo – e tentai di avvicinarmi a lei, per farle ammirare da vicino quella creatura, questa donna scappò via a gambe levate, lanciando una sequela di striduli urli, femminili, molto femminili, proprio come quel genere di donna che pretendeva di non essere. Quel giorno non mise più piede nei pressi del corso d’acqua. Ma le donne, non sono più radicate nella vita degli uomini, come si dice e pretendono?

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In che modo intende la cultura?

Ho una visione parziale, lo ammetto. I migliori libri, quelli che mi toccano, se proprio devo leggere, sono sempre stati quelli che parlano di ciò che è extra letterario, non libresco.

La cultura, nei termini in cui è stata concepita per secoli, è un fenomeno largamente negativo. Uno straordinario circolo vizioso, e un maestoso vicolo cieco. Talvolta ho nominato la genealogia che per certi aspetti ne fa Marc Fumaroli ne La Repubblica delle Lettere. Il mondo descritto in quelle pagine mi è fisiologicamente estraneo. Parlo della mistica dell’arte, dell’intelletto, della poesia. Quella dove si vaneggia solo di interiorità, spirito, ascesi, anima, o intelletto, intelligenza, pensiero, sempre contro il reale. Vada a leggere, casualmente sono tutti sinonimi dell’antinatura. Quando la realtà è troppo dura, ci si difende con l’immaginazione, che onoriamo per tradire

il reale.

E, peggio ancora, tutto ciò oggi è mutato in una visione culturalista, libresca. Pensi a Marina Cvetaeva, quando un tempo sostenne che il mondo reale la deludeva e rifugiò con voluttà la sua feroce malinconia nei libri, come afferma testualmente. Nel paese dell’anima. Per fare dell’invisibile una mistica, un ditirambo alla solitudine interiore. Perché si illuse di riscattare la povertà umana con una visione fantastica più reale del naturale, immergendosi nel mondo immaginario della letteratura e dell’arte… quando sai che questo culto dell’immaginazione è una forma di religione, una fede che non ammette atei, una illusione che sfocia nella grazia della parola dipinta, nel pallido fetore di chiuso, il sublime.

Non sono un nietzschiano, un impotente infatuato della potenza, né tantomeno uno stolido ossessionato dalla virilità maschile, ma penso alla parola “puma”, che nella lingua dell’antica civiltà che coniò questo nome voleva dire “poderoso”, maschio o femmina che fosse. Ci sono molti modi di essere poderosi, ossia vivi. Cate Blanchett, per dire, lo è, come donna e attrice. In ogni caso, per capirci qualcosa intanto un potrebbe rileggersi la Genealogia della morale, il capitolo “Che significano gli ideali ascetici”, e il capitolo “Dell’ascesi e della santità cristiane” da Umano troppo umano I, dove si parla delle virtù dei preti, dei sacerdoti, dei santi, dei filosofi, degli artisti, del dandy, dei risentiti contro la vita, dei deboli di salute, della volontà di potenza delle nature contemplative. Il dominio dei sofferenti, delle nature delicate, del “più malato tra gli animali malati”. Non ho mai sentito affinità con il loro modo di concepire la sofferenza e di rispondere all’orrore e l’estasi di esistere. Con la loro calunnia della vita in nome della purezza, la povertà, il distacco e l’indifferenza. In Proust, e paradossalmente anche in Leopardi, e nel potente eremitaggio di Emily Dickinson, nella vertiginosa fuga dall’immanente di Marina Cvetaeva e l’algido ascetismo di Cristina Campo, il suggerimento di “una vita di diamante puro votata al monastero dell’arte”, potrà anche essere una condizione spiacevole quanto si vuole, che possiamo non condividere – io non la condivido affatto – ma fertile… molti indubbi capolavori, contraddittori, lucidi e immensi, sono nati dalle penne di certi mistici dell’arte, che furono geniali nel convertire la loro debolezza in superiorità, nessuno lo può negare. Mentre nel 99% dei mortali che affollano il mondo delle Lettere, ossia tutti gli altri, gli epigoni e i sedotti, è solo quello che è, una sterile contraddizione, un ripiegamento su di sé che si vuole antidoto contro la vita reale. Un latte caldo. Estetica da vittimisti?

Il tipo antropologico che ne deriva è l’amateur della cultura. Si dovrà pur ammetterlo una buona volta. Non che io ami particolarmente Giorgio Manganelli, ma lo adoro quando ha il coraggio di puntare il dito sulla sua “fisiologicità intellettuale, una cosa vergognosa”, e si tormenta su come mutare i libri in carne, in una cosa viva. Quando ti dice che bisogna arrivare a parlare della cultura come si parla della figa e farne una voragine viscerale. Geniale.

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Lei è un ecologista?

Non mi considero tale, o forse sì, ma non nel senso in cui spesso lo si definisce oggi. L’avventura umana è tarata all’origine. Qualcuno, non del tutto a torto, forse con una provocazione che paradossalmente contiene una buona dose di verità, ha detto che “l’ecologia non ha senso, è anch’essa un’espressione dell’inquietudine che l’uomo prova di fronte al suo ineluttabile destino… è una reazione ingenua.” Poi, certo, possiamo e dobbiamo parlare della necessità di vivere nel migliore dei mondi possibili, di responsabilità, di sviluppo sostenibile e agire di conseguenza, ecc. Ma anche gli ambientalisti, che ormai non si distinguono in nulla da una setta religiosa, spesso non fanno che voltolarsi nelle peggiori contraddizioni; nella religione dell’anti-sviluppo. Per esempio, tanto per ridere, a un ecologista, un animalista, un vegetariano o un vegano andrebbe chiesto: – Avete mai arato un terreno? Per piantare la Quinoa, o qualunque altra cosa mangiate per onorare la vostra ideologia. Per farlo si uccide tutto quello che si trova sul terreno, e nel terreno, ogni serpente, ogni rana, ogni topo, ogni talpa e ogni verme, ecc. Li uccidete tutti. Allora, la vera domanda è… quanto deve essere bello un animale, prima che decidiate se vi importa che muoia per darvi da mangiare?…

… E c’è anche altro. Appena parli di animali e di natura, finisci rubricato alla stregua di un’anima bella dell’ecologia, quasi a un culto da setta pop, da fanatici. Negli Stati Uniti ho visto negozi per cani che si chiamavano Dogma; evoca indirettamente una certa alchimia delle parole, se lette al contrario, quando la parola “dog” diventa “god”. O, peggio ancora, sei associato all’interesse ambiguo, torbido per gli animali che ebbero anche i fascisti, i nazisti e il Führer… d’altronde l’ecologismo già albergava nell’ideologia nazista, che negli anni Trenta veniva elogiata a livello internazionale, per questo stesso motivo. Bisogna dunque stare attenti a citare con troppa disinvoltura lupi, giaguari e tigri. Potrebbero chiamarti squadrista, nostalgico del Terzo Reich, oscurantista o nostalgico dell’età della pietra. Non se ne esce. Ovunque ti giri, sei fregato. O sei un ingenuo amante degli animali e della natura, che leva grida accorate come “non siamo i padroni della Terra, siamo i suoi figli, giaciamo nel suo grembo”, o un torvo fanatico del Blut und Boden, o forse T.J. Kasinkij, Unabomber, che scrisse un manifesto antitecnologico e aveva un IQ di 167.

Ho grande rispetto per la natura e per gli animali. Onoro quei pionieri di frontiera che hanno un atteggiamento solenne di fronte alla morte di un animale e non provano mai il desiderio di festeggiare, ma solo gratitudine. La natura non è un paradiso. È letale, durissima. Tutto, lì, vuole farti fuori. L’ambiente, i fenomeni, gli animali, le malattie, i parassiti. Eppure capisco meglio gli avventurieri, gli spazi aperti, vergini, l’ultimo posto dove l’uomo non detta le regole, l’ultima frontiera, i territori, gli esseri e le creature non controllati, innominati, mai censiti, le cui identità, profonde e assolute, sono note solo a loro. Chi non sfugge il contagio degli elementi. Il carisma della creatura. La bellezza inquietante e indiscreta dello sguardo animale. Lo charme geologico.

Mentre ho molto meno rispetto per chi è estraneo al ritmo e al tono della natura e, anzi, si fa un vanto di disprezzarla e provare quasi indifferenza e orrore per gli animali, a cui tutta la nostra sedicente nobile ragione non riesce a risparmiare almeno le inutili crudeltà, per votarsi all’imperialismo dell’analisi, alla spiegazione, al venir meno del tono degli esseri e delle cose, al suicidio dell’organico, e ritenerlo in assoluto un progresso, un traguardo illuminato. Mi chiedo sempre perché tanta regalità, potenza, bellezza e biodiversità abbia dovuto essere asservita all’uomo, voglio dire umiliata.

Guardo negli occhi la maggior parte degli odierni esseri umani, moderni, in particolare un dotto o un intellettuale, un letterato o un bibliomane, uno qualsiasi e provo un moto di ribrezzo, soprattutto quando pretende di spiegarmi che cos’è la vita, dopo aver troppo riflettuto su di lei, dal di fuori, da lontano, en philosophe, in modo costruito, uccidendo ogni suo meccanismo ingenuo, l’eco atavica, la fisiologia del mondo, di cui non ha mai conosciuto davvero il linguaggio… solo tecnicamente lo si può ancora considerare un essere vivente.

Il massimo della vita, è quando uno scienziato sostiene di affrontare la vita quotidiana “come farebbe un antropologo che aderisce ai riti della tribù che lo ospita”, e aggiunge senza vergogna “anche noi siamo animali”, quando è platealmente orfano del carisma animale non umano. Sa cosa vuole dire, qui, l’associazione tra la parola “antropologo” e la parola “tribù”? L’antropologo si ritiene implicitamente l’essere superiore, lo scienziato che si autocomprende con il pensiero analitico della scienza, mentre i membri della tribù, tutti gli altri, sono gli stolti primitivi, i comuni cittadini di oggi che vivono, ignari, immersi nella loro fisica ingenua, esistenziale.

L’essere umano, oggi, è una creatura che ha perduto l’animale che ha in sé, e che per giunta si illude di essere l’Uomo. È nel regno animale che una bellezza atroce si accompagna alla crudeltà. Una creatura non suscita mai ribrezzo, neanche nei suoi atti più abominevoli. È sempre attuale, presente a se stessa, mai volgare, con quella sua eletta eleganza o quella presa diretta. È una presenza. Salvo rare eccezioni, l’essere umano al contrario volgare lo è quasi sempre. Nelle crudeltà e indiscrezione umane, nella loro raffinatezza, o sofisticazione tecnica, trova qualcosa di meschino e grigio, di opalino e artificiale. Un lupo è naturalmente elegante, senza specchi, mentre la raffinatezza è figlia di ciò che è coltivato, artefatto, riflesso.

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Continuiamo a essere sopraffatti dalle campagne pubblicitarie, patinate, con confezioni seducenti, colorate, dove ci magnificano la bontà dei prodotti e dimentichiamo l’infinito orrore di questo sistema. Mi viene in mente quella scena in The Misfits, dove Marilyn Monroe urla, in un lungo e struggente monologo, contro quegli uomini che volevano catturare i mustang, i cavalli selvaggi, dall’aura unica, lo spirito potente, al solo scopo di farne carne in scatola per cani. Ecco, l’industria, la civilizzazione, che vuole inscatolare il selvaggio e darlo in pasto ai cani addomesticati, agli animali domestici, ai collaborazionisti della zoologia. È un’immagine devastante, rivoltante. L’umanità ha bisogno delle aree e le creature selvagge.

Luca Orlandini

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LUPO

Nel Natale del 1989 mia madre mi regalò un libro sul lupo artico, “che nel suo cuore conservi sempre il ricordo del suo papà”, ha scritto, nella dedica, su una pagina rossa. Mio padre era morto venti giorni prima, si era ucciso: la dedizione di mia madre verso il traditore sembrava una sottile vendetta.

La sua autarchica pazienza, la quiete, cristallina, parevano, agli estranei, sospette – è possibile che quella donna non odiasse? Agli altri, quella grazia pareva spietata: eleggerà il figlio in un labirinto di ricordi contraffatti, pensavano. Semplicemente, era una donna buona – per questo mio padre, che disprezzava la bontà, non poteva amarla.

Che dono paradossale: il maschio del lupo artico ammazza la femmina di cui si stanca e fa sterminio dei figli avuti da lei, che potrebbero detronizzarlo. La bianchezza del lupo gli conferisce un sovrappiù di violenza – così mi sembrava, ammirando le fotografie del libro, il corpo della bestia limpido di sangue, che insiste tra le viscere della preda.

Perché mio padre non mi ha ammazzato? Ne sarebbe stato in grado. Un giorno ho sognato che mi soffocava con un lenzuolo. Un giorno ho sognato una scia di lupi artici che sfondavano la porta di casa, sciamavano nella sala, in cucina, e poi si dirigevano nella camera da letto di mia madre. A turno, i lupi si univano con mia madre.

Dal giardino, le finestre della villa sembravano ululati di vetro.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG