
Pier Paolo Pasolini, perdona loro…
Politica culturale
Davide Grittani
Robinson Jeffers resta l’oscuro scorbutico della poesia americana, figura ipnotica e scontrosa, concentrata e anticonformista. Non antologizzabile. Non omologabile – neppure per buona creanza creativa. Nato nel gennaio del 1887 nell’attuale Pittsburgh, figlio di un ministro presbiteriano studioso di ebraico antico, studi in California, profilo da condor, occhi barbarici. La sua poesia s’incarna con una scelta di vita radicale: la decisione di costruire, a Carmel, tra l’oceano e i boschi, una dimora, Tor House, sull’esempio della “Túr Bhaile Uí Laí” abitata da William Butler Yeats. È il 1914 e il poeta, come se le pietre fossero sonetti, innalza la casa per sé e la sua sposa. Aveva conosciuto qualche anno prima Una Call Kuster, studentessa, poco più grande di lui, già sposata. Cominciarono a frequentarsi nel 1910, provocando scandalo; Una divorzia dal marito nel 1913, per sposarsi, poco dopo, con Jeffers. A Tor House nascono i due figli della coppia e si inaugura la portentosa attività poetica di Robinson Jeffers, attorno a libri di stralunata potenza: Tamar and Other Poems (1924); Cawdor and Other Poems (1928; tradotto da Franca Minuzzo Bacchiega nel 1977, per Einaudi); Descent to the Dead (1931).
La famiglia Jeffers viaggia spesso – spesso muovendosi in Irlanda, sorta di patria eletta, o a Taos, nel Nuovo Messico –, restia agli intrighi del mondo intellettuale. Robinson Jeffers malsopporta la ‘letteratura’ intesa come ‘sistema’, come attività ‘di gruppo’: le sue poesie si dilatano, smarginando nel poema, tratteggiando grandi figure e vasti paesaggi. Sogna un verso lineare come il lampo, possente come l’aquila, vero come i prati. Il ‘progresso’ lo incupisce: il turismo di massa, le letture pubbliche, la ricerca della fama gli sembrano orpelli assurdi. La poesia, sempre marziale, richiede una scelta ascetica, la solitudine dei savi. Conosce alcuni poeti – Edgar Lee Masters, D.H. Lawrence, tra gli altri – e la rivista “Time”, il 4 aprile del 1932, dedica la copertina al ‘personaggio’. La faccia del poeta – dal profilo bello e severo – di fianco ai massi di Tor House, il suo capolavoro epico.
I suoi lavori tratti dalle tragedie greche ebbero fortuna: la sua Medea (1946) fu trionfalmente messa in scena con l’hitchcockiana Judith Anderson; Scheiwiller pubblicò, nel 1967, La cretese, traduzione-rifacimento “dall’Ippolito di Euripide”. Ma il poeta, come dire, stracciò tutti gli allori: nel 1948 pubblica The Double Axe and Other Poems – in Italia tradotto da Mary de Rachewiltz come La bipenne e altre poesie, Guanda, 1969 – violentemente critico contro l’azione ‘antiumana’ del governo americano. Fu vicino a Ezra Pound, benché la sua ricerca lirica lo orientasse altrove. Si sentiva in sintonia con il grande accusato, il sommo reprobo. Carattere guerresco ma ostile alla vile guerra combattuta con le armi moderne, Jeffers diventò il mito e il monito di Charles Bukowski:
“Mi ha influenzato moltissimo, adoravo la sua selvatica ruvidezza nel verso… Jeffers è il mio dio… non sopportava gli uomini, pensava che la vita umana fosse terribile, come potrei non adorarlo?”.
La morte di Una, nel 1950, gettò Jeffers in una cupa depressione. Sapeva di non poter arginare i mercenari del mondo, le forze della distruzione: inadempiente al ‘come vanno le cose’, visse la vigoria del rifiuto, preferì una sfiancante indipendenza. Hungerfield (1954), il poema tanto amato da Andrea Pazienza, è un lungo canto dedicato alla moglie. Robinson Jeffers muore il 20 gennaio del 1962, poco dopo aver completato l’ultima raccolta, uscita postuma, The Beginning and the End.
Certo, si tratta di un poeta senza compromessi, complesso, che chiede al lettore di arrischiarsi verso le sue scelte. È poesia verticale, quella di Jeffers, rapace, che non soccorre con ornamenti o effetti da prestigiatore. In qualche modo, il poeta ci istruisce intorno alla costruzione della casa, a sussultare quando il mondo ci parla: a sentire la roccia in un verbo, la corsa di una volpe in una rima.
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Volo di cigni
Chi si accorge del gigante Orione, torce nella mezzanotte invernale,
camminare enorme sopra gli oceani verso l’Ovest paradisiaco;
e fissa le tracce di questa età del tempo all’apice del volo
vacilla come razzo inutile, vaga invaghito verso nuove scoperte,
mortali indagini nell’oscurità, ausculta il profondo;
e osserva la lunga costa rocciosa vibrare dal bronzo al verde,
dal bronzo al bromo, anno dopo anno, e le fiumane
disseccate e fertili, feconde e aride, nelle stagioni in agonismo;
e ricorda, con esattezza, che questo non è un altro mondo ma è questo,
gli ideali sono spettri usati come esca, lo spirito è un acciarino sulla tomba –
che tu possa servire, con un certo distacco, l’umana fuggiasca razza,
o la sua gente, o la sua casa, ma non te stesso;
non si avvoltola, avvoltoio, tra vane speranze, né si ammala, ammaliato
dalla disperazione: ha trovato pace e adorato Dio; in autunno custodisce
i semi del futuro, fittavolo della primavera.
Triste generazione dalla caduta acquazzonica,
non fuggire, devi infliggere e resistere: questo è per te il tempo
di imparare a toccare il cuore del diamante dal diamante
assottiglia la tua umanità tra gli invulnerabili diamanti, certo
che sono vane le tue rabbiose scelte, le proposizioni piene di ambizione, la paura;
ma la vita e la morte non sono invano: il mondo è come un volo di cigni.
*
Questo giorno è un poema (19 settembre 1939)
Questa mattina Hitler ha parlato a Danzica, abbiamo udito la sua voce.
Un uomo di genio: cioè, di stupefacente
abilità, coraggio, devozione, innestati nell’anima malata di un bimbo:
abbiamo udito chiaramente la rabbia del cane, il bimbo malato
che piangeva a Danzica, invocando distruzione e lamentandosi sulla distruzione.
Qui la giornata era piuttosto calda, verso mezzogiorno
il vento del sud, con labbra d’inferno, ha creato una pioggia sottile
per la terra arida e verso le cinque un tenue terremoto
ha fatto ballare la casa: nessun danno. Stasera mi sono meravigliato
guardando una luna rosso sangue cadere distillata
nel mare scuro, tra cocci di lampi nitidi e tuoni lontani.
Bene: questo giorno è un poema: ma io sono soltanto
uno dei Jeffers, incrostato di sangue e di barbarici presagi
eccessivo nel dolore, disumano come l’urlo di un falco.
*
November Surf
Ci sono, poi, i giorni eletti di novembre, quelli delle grandi onde
che sorgono come montagne luminose da Ovest
e ricoprono la rupe con bianca purezza violenta: e subito
il vecchio granito dimentica la lordura di metà anno:
bucce d’arancia, gusci d’uovo, carte, vestiti a pezzi, coaguli di marciume
agli angoli degli scogli, e preservativi usati
che rendono leggero l’amore serale: tutto lo sterco dell’estate
idealisti nullafacenti spazzati via dall’estasi invernale:
penso che il continente invidi questa scogliera, ora… ma in ogni stagione
la terra nel suo profetico sonno infantile
continua a sognare il battesimo di una tempesta lungo la costa
un futuro da perlustrare tra i fronti marini.
Crollano le città, i falchi sono in soprannumero rispetto ai cittadini
e i fiumi sfociano da fonti perfette; quando il bipede
mammifero, essendo in qualche modo uno dei più nobili
animali, riconosce la dignità della sua stanza, il valore di ciò che è raro.
*
Il poeta non scrive principalmente per la propria generazione; deve dunque scrivere di cose permanenti o di cose che sono permanenti perché perpetuamente rinnovate, come i prati, l’umanità. Gli dèi della Grecia sono morti: resiste il pathos, non più la poesia. I costumi della Grecia antica sono morti, resta il pathos, ma la poesia è assente. Omero e la stirpe da lui generata sono ancora vivi, perché luce e oscurità, monti e mari, l’uomo e le sue passioni, ancora persistono.
La poesia è più primitiva della prosa. Esisteva prima della prosa ed esisterà dopo di lei: non è domestica né addomesticabile, è più selvaggia, naturale. Appartiene all’aria aperta, ha le sue maree; mentre la prosa è tutta interiore e colta, pertiene alla casa, dove la luce della lampada ammutolisce la marea del giorno e della notte, e regna il capriccio umano. Il cervello è proprio della prosa; l’uomo intero, fatto di nervi e di mente, di muscoli e di viscere, di organi di senso e di organi procreativi, fa poesia, risponde all’appello della poesia.
1922
*
Molto tempo fa, mi si è fatto chiaro che la poesia, se voleva sopravvivere, avrebbe dovuto reclamare la parte di potere sulla realtà che le era stato frettolosamente sottratto dalla prosa. La moderna poesia francese, la più ‘moderna’ poesia in lingua inglese, mi sembrano disfattiste. Come se la poesia fosse terrorizzata dalla prosa e cercasse disperatamente di salvare la propria anima rifiutando il corpo a corpo. Stava diventando astratta, leggera, fantasmatica, la poesia, semmai eccentrica: e non sapeva salvarsi perché questi non sono attributi dell’anima. La poesia deve recuperare la sostanza e il senso, la sua realtà fisica e psicologica. Questo pensiero mi ha portato a scrivere poesie narrative e a disegnare soggetti della vita contemporanea; a tentare idee filosofiche e scientifiche trasmesse nei versi, a presentare aspetti che la poesia moderna generalmente evita. Non avevo in mente di aprire nuovi spazi per la poesia, ma di rivendicare le antiche libertà.
Un altro principio formativo mi è giunto da una frase di Nietzsche: “I poeti? I poeti mentono troppo”. Avevo diciannove anni e quella frase si impossessò della mia mente. Decisi di non dire bugie in versi. Di non fingere alcuna emozione. Di non fingere di credere nell’ottimismo o nel pessimismo o nel ‘progresso’ irreversibile. Decisi di non credere in nulla di ciò che pareva popolare o genericamente accettato, di sfiduciare ciò che andava di moda nei circoli intellettuali, a meno che non vi appartenessi con tutto me stesso. Questi istinti negativi, è chiaro, limitano il campo: non voglio farne una norma, valgono soltanto per me.
1938
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Un tema di cui si è nutrita la mia poesia è l’espressione di un sentimento religioso che potrei chiamare panteismo, anche se non sopporto questa definizione. È la sensazione, o meglio, la certezza che l’universo è un essere, un singolo organismo, una grande vita che include tutte le vite e tutte le cose, ed è così bello che deve essere amato e riverito; nei momenti di visione mistica è con lui che ci identifichiamo.
Se un uomo spende tutte le proprie emozioni soltanto per il proprio corpo e i propri stati mentali, è malato, e quella malattia si chiama narcisismo. Mi sembra, analogamente, che il genere umano si sia perduto dietro le proprie emozioni. Si sia concentrato soltanto su di sé. L’uomo più felice è lo scienziato che investiga la natura e l’artista, che la ammira; la persona che è interessata a cose non umane. Oppure, se indaga l’uomo, lo considera, obbiettivamente, come una piccola parte nella grande sinfonia. Certamente, l’umanità ha dei diritti: possiamo soddisfarli mantenendo la nostra sanità emotiva, cioè guardando oltre il genere umano, intorno.
La scienza, di solito, smonta le cose per scoprirne il senso: disseziona e analizza. La poesia, invece, mette insieme le cose, producendo scoperte altrettanto valide. Si scopre qualcosa di nuovo, che l’autore non sapeva prima di scriverlo; questo ‘nuovo’ è un fatto.
1941
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La poesia non è un ‘civilizzatore’: al contrario, fa appello agli istinti più primitivi dell’uomo. Non è necessariamente ‘morale’, non migliora il carattere, non insegna le buone maniere. È una mirabile opera della natura, come l’aquila, come un’alba. Non le devi nulla. Se ti piace, ascoltala; altrimenti, passa oltre.
La tragedia greca è stata considerata, da Aristotele in poi, come un agente morale, in grado di purificare la mente e le emozioni. Ma la storia di Medea parla di un avventuriero criminale e della sua ciurma di briganti. I vertici più alti della tragedia, Agamennone, Edipo re, raccontano storie di orrore primordiale: la pietà convenzionale espressa dal coro è costantemente sbilanciata dalla malvagità e dalla follia dei personaggi principali. Ciò che li rende nobili è la poesia, l’estrema violenza nata dalla passione estrema.
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“Cosa mi importa del presente: scrivo per l’antichità!”, gridava Charles Lamb. Noi potremmo invertire l’asserzione: può sembrare improbabile che tra mille anni un poeta abbia dei lettori, ma non è impossibile, se è un grande poeta. Se il tempo presente saprà accoglierlo e ascoltarlo, meglio per lui. Ma non deve essere distratto dal presente: la sua opera è proiettata nel futuro. Non è un consiglio piacevole, questo, ma pratico. Il lavoro del poeta, così, sarà vagliato dal transitorio e dal fatiscente, dalla pula del tempo, dalla materia che non ha note a piè di pagina. Le cose permanenti, o permanentemente rinnovate, l’erba, i desideri umani, sono il cuore della poesia: chi parla lungo il corso di mille anni sa che deve parlare delle cose permanenti, con chiarezza.
“Ma”, replica il ragazzo, “cosa mi importa farmi ricordare dopo la morte? Io voglio fama e pubblico, e li voglio adesso”. Il ragazzo parla per ignoranza. Essere spiati e intervistati, inseguiti da cacciatori di autografi e da ammiratori curiosi, è un triste fastidio. Soprattutto, se prendi questo gioco sul serio, è devastante: dissipa la tua energia nell’autocoscienza, distrugge la spontaneità, inquina le sorgenti del pensiero. La reputazione postuma, invece, non fa alcun male: per questo è l’unica che vale la pena considerare.
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Mi sono svegliato, stamattina, idealizzando alcune parole anglosassoni – ne ho ammirato le vocali, grosse, turgide, come rocce in un sibilante scroscio di consonanti, pensando a quanto ha perduto, in fluidità atomica, la nostra lingua. Mi pare che le persone che usavano quelle parole avrebbero potuto passare un inverno intero a rotolare nella mente un vasto pensiero, una grande passione, al posto di giocare con mille piccole emozioni, come facciamo oggi. Una roccia contro mille sassolini. Suppongo che questo sogno raffiguri nel modo più preciso possibile le ragioni visceralmente logiche per cui disprezzo questa civiltà.
18 settembre 1943, a Frederic I. Carpenter