Una persona a me carissima, così vicina a Pier Paolo Pasolini da condividerne gli anni del grande successo ma purtroppo anche quelli della passione e morte, ogni tanto ripete con infinita saggezza
«possiedono tutti la scienza infusa, sanno tutto loro, sanno cose che io non conosco, ne sanno più loro che hanno cominciato a leggerlo trent’anni dopo la morte e non io che per trent’anni ci ho vissuto insieme».
La necessità commerciale di piazzare sul “mercato dell’assurdo” inchieste, servizi, testimonianze, reportage e scoop senza alcun fondamento, ha indotto – del tutto consapevolmente – la maggior parte delle testate giornalistiche italiane a sporcare anche il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini. Da mesi sono in corso celebrazioni in ogni città, una trasfigurazione ben più che simbolica, come se Pasolini – proprio a causa di queste continue offese, da morto come da vivo – fosse divenuto egli stesso materia ubiqua, figlio di moltissime patrie e non solo delle città e dei luoghi che hanno avuto la fortuna di vederlo nascere (Bologna), accudirlo da bambino e adolescente (Casarsa) e da uomo adulto (nonché di ammazzarlo, cioè Roma). Ma in questa frammentazione tutto sommato inevitabile del suo ricordo, risiedono l’odio e il rancore sociale e letterario che questo Paese non ha mai fatto mancare a uno dei più grandi intellettuali del Novecento.
Sui muri di molte città sono riapparse scritte come «frocio», «pederasta», «pervertito» e «comunista a cazzi tuoi» perché amava le belle macchine e i vestiti firmati. E ancora «vecchio bavoso», «hanno fatto bene ad ammazzarti come un cane». Una “letteratura” così ampia che non rappresenta solo l’identità e la civiltà di chi la scrive, al punto che sarebbe un grave errore sottovalutarla così come fu un drammatico errore sottovalutare l’atmosfera grigia che accompagnò Pasolini al massacro, ma molta parte del pensiero (?) di certo Paese. Giornalisti, intellettuali, scrittori e abituali “gettonisti della televisione” (notoriamente tra le peggiori d’Europa) stanno facendo a “gara d’idiozia” producendo quintali di inchieste inventate di sana pianta, fasulle e posticce, contenenti la solita morbosa necessità di sapere com’è morto (chi l’ha ammazzato, perché), come se contasse davvero qualcosa sapere perché, com’è successo (l’esatta dinamica, i reali responsabili) e non come abbiamo potuto rinunciare alla voce più limpida e incorruttibile del nostro Novecento. Nell’Italia che non ha ancora abbeverato la propria sete giustizialista, il centenario della nascita del poeta, regista e scrittore bolognese – per ampi tratti, non tutti – interpreta l’assenza di un dibattito culturale che vada oltre i preconcetti, la scabrosità, la pesante ignoranza del mondo dell’informazione italiana. Pasolini non avrebbe meritato tutto questo, né di essere ammazzato com’è stato né di essere ricordato così.
Del tutto paradossalmente, Pasolini è diventato un vessillo della cosiddetta destra nazionale. Dai giornali ai movimenti, dagli ideologi agli opinionisti, sono soprattutto organi di informazioni di destra (o comunque di ispirazione liberale) a ospitare il pensiero di Pier Paolo Pasolini, a conferma dell’incapacità della sinistra – e del suo carrozzone clientelare, così vecchio, ammuffito nella sua imperfetta fabbrica dell’odio espresso sempre sotto forma di libera e innocente opinione – di coltivare una propria visione di quel tempo, una saturazione compiuta e quindi definitiva della proprie mancanze, delle proprie diserzioni. Pier Paolo Pasolini è uscito dai radar di certa sinistra per rientrarci solo adesso, solo adesso che il centenario lo impone sia formalmente che idealmente. Al contrario, invece, certa stampa che non gli è mai stata amica quando era in vita ne sta piano piano riconsiderando il pensiero, addirittura rileggendo i testi. Ecco, questa la stortura più clamorosa di tutta la “vicenda umana e letteraria di Pasolini”. Il fatto che quasi tutti quelli che si cimentano in un giudizio, una recensione, un parere, una discussione che abbiano a che fare con l’autore di Ragazzi di vita, siano colpevoli di non averne letto nemmeno una riga, se non distrattamente, se non dal web. Pier Paolo Pasolini è più una icona che un autore, più un manifesto che una presenza intellettuale, più una spina nel fianco che una rosa. Ecco che viene più semplice dimenticarlo, più naturale dileggiarlo, più italiano offenderlo.
Una persona a me carissima, vicinissima a Pier Paolo Pasolini tanto da condividerne attivamente gli anni del grande successo ma purtroppo anche quelli della passione e morte, ogni tanto mi ripete con infinito rammarico e straordinaria civiltà che
«il suo pensiero è tutto lì, bastava aprirli quei libri che tutti fanno finta di conoscere e che nessuno ha mai letto per davvero; eppure lui è tutto lì, nelle confessioni in cui diceva tutto e il contrario di tutto, senza nascondere niente della sua vita diurna e notturna e parlando con lunghi silenzi che dicevano tutto. Se si avesse davvero rispetto di Pier Paolo, così come lo si è avuto per centinaia di politici e imprenditori morti in circostanze ancora più efferate e con una vita ancora più misteriosa della sua, ci si limiterebbe alla lettura dei suoi libri, come farebbe un Paese normale che non si è ammalato, come il nostro, di crudeltà».
Per fortuna ci sono molte città in cui Pasolini è stato e sarà ricordato per quello che era, con murales, poesie gigantesche sulle facciate dei palazzi (quelli a cui aveva quasi interamente dedicato Il pianto della scavatrice), versi impressi sulle scalinate di alcuni centri storici, nei sottopassi della città come avvenuto a Salerno e Bari, nelle cantine dei porti come a Napoli e Genova.
Per fortuna qualcuno ha capito cosa ci siamo persi, senza rincorrere il fantasma di un moralismo che nessuno (nessuno!) in questo Paese può permettersi. Ed è grazie a questa nuova consapevolezza, per fortuna espressa soprattutto dalle nuove generazioni, che là dove è apparsa la scritta «PPP frocio di Stato» (cioè a Roma, Porta Nuova), qualcuno ha pensato bene non di cancellarla e rispondere: «Pensa che a te lo Stato te ‘ncula e manco sai pecché…». Perdona loro, PPP. Non sanno quello che eri, non sanno cosa scrivono.
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*Davide Grittani (Foggia, 1970) è giornalista e scrittore. Il suo ultimo romanzo, La bambina dagli occhi d’oliva (Arkadia Editore, 2021), ha vinto il premio Alda Merini 2022, il premio Città di Siena 2022 ed è stato finalista al premio Città di Grottammare-Franco Loi 2022. È editorialista del Corriere del Mezzogiorno, scrive per Pangea. È consulente di diverse case editrici italiane, dirige la collana di reportage narrativi Dispacci Italiani / Viaggi d’amore in un Paese di pazzi per Les Flaneurs Edizioni (Bari).