19 Settembre 2024

“La calunnia è la nostra grammatica”. Kemine, il poeta che ha unito Marina Cvetaeva e Arsenij Tarkovskij

In era sovietica, i poeti facevano i traduttori.

Ovvio: era la via più semplice per guadagnarsi da vivere – in alternativa, restavano ruoli subalterni nei gangli dell’apparato burocratico. Tradurre, tuttavia, aveva almeno un paio di ragioni-pilastro. La prima era intima. Tradurre permetteva al poeta di sperimentare il proprio linguaggio, di affinarlo – senza fare la fame perdendo l’istinto ferino per il linguaggio. La seconda era ‘sociale’. L’Unione Sovietica aveva bisogno di incorporare le altre letterature – quelle centrali come quelle periferiche – nella lingua nuova della Rivoluzione.

Tradurre è un modo diverso – più puro, semmai, e più pervasivo – di colonizzare.

Tradurre è un assalto – tradurre è inghiottire. Vocabolario-bocca.

Nello stesso tempo, tradurre ha a che fare con l’amicizia e con il tradire.

Il rapporto tra Marina Cvetaeva e Arsenij Tarkovskij – l’ultimo amore di Marina, uno dei tanti di Arsenij, il padre di Andrej – nasce intorno a una traduzione. Nel 1940, Tarkovskij aveva tradotto il poeta turkmeno Mämmetweli Kemine (1770 ca. – 1840). Tarkovskij aveva 33 anni, conosceva Osip Mandel’štam, apprezzava Anna Achmatova, si era appena sposato con la seconda moglie. È un poeta che conosce i tempi lenti della poesia; la poesia non va stanata ma attesa, in agguato; la poesia ha la forma di una tigre. Pur avendo scritto a lungo, il primo libro di Tarkovskij esce soltanto nel 1962, s’intitola Prima della neve (tutte queste notizie si trovano in: A. Tarkovskij, Stelle tardive, a cura di Gario Zappi, Giometti & Antonello, 2017).

Tarkovskij è un eccellente traduttore: ha reso in russo l’arabo di Al-Maarri, l’armeno Sajat-Nova e il georgiano Simon Čikovani; ha tradotto Louis Aragon, Orazio, Taras Ševčenko; eccelle nello snidare i poeti mediorientali e quelli delle vaste steppe asiatiche. Marina Cvetaeva, tuttavia, resta folgorata dalla traduzione di Kemine. Poeta turkmeno tra i più grandi, di lui resta un canzoniere di una cinquantina di poesie – di cui in calce proponiamo qualche frammento, inedito in Italia – per lo più satiriche. Kemine congiunge la ferocia islamica – nitidezza di immagini, monolitica moralità – alla compostezza ‘latina’; Ovidio dialoga con Ibn Arabi. Forse alla Cvetaeva piaceva la furia assertiva di Kemine, quella lucidità all’arma bianca; più probabilmente, nel cantore dell’“epoca ridicola”, dell’“era disordinata” dominata dal maligno (“il male marcia di fianco all’uomo”) rivedeva se stessa, capitata, dopo anni di vagabondaggio, nella matrigna Unione Sovietica, che le aveva divorato marito e figlia. Come lei, Kemine usava la poesia come un’arma.

Ad ogni modo, nell’ottobre del 1940, da Mosca, la Cvetaeva scrisse a Tarkovskij:

“Caro compagno T.,

il Vostro libro è meraviglioso… La vostra traduzione è meravigliosa. Cosa potete per conto Vostro? Giacché per un altro potete tutto. Trovate (amate) e di parole ne avrete. Presto vi inviterò una sera ad ascoltare delle poesie (mie, di un libro futuro). Datemi perciò il vostro indirizzo, in modo che l’invito non vaghi e non giaccia come questa lettera. Vi pregherei molto di non mostrare questa letterina a nessuno, io sono una persona appartata, e scrivo a Voi: gli altri? (mani ed occhi). E non dire a nessuno che, ecco, a giorni sent.[irete] le mie poesie: presto terrò una serata aperta, allora verranno tutti”.

Pochi mesi dopo, Tarkovskij conosce Marina Cvetaeva, a casa di Nina Gerasimovna Berner-Jakovleva. Si scambieranno alcune poesie, come si faceva all’epoca dell’amor cortese – o ai tempi degli amori tra i paraventi. Il 21 giugno del 1941, in quella stessa casa, leggeranno insieme dei versi.

La lettera di Marina ad Arsenij, termina con quelle frasi, notissime e commosse:

“Ora Vi chiamo da amico. Ogni manoscritto è indifeso. Io sono tutta un manoscritto”.

Forse non è inappropriato che l’ultimo amore di Marina abbia per tramite una traduzione – la traduzione di un poeta d’Oriente, dissepolto dall’oblio, che ha scritto in direzione contraria alla propria era. Dobbiamo decrittare un segno da questo accadere. Ogni legame è sempre una traduzione: per alcuni il nodo è un fiume, la gabbia un’Amazzonia – perfino i volti hanno una dizione, un alfabeto – perfino il sopracciglio, a volte, parla in aramaico, altre volte in urdu o in lingua anglofona. D’altra parte, compito dei poeti è avventurarsi in ere diagonali, in terre ignote.

Marina aveva 49 anni e le stimmate della perduta. Un giorno, al primo scalino dell’estate del ’41, Tarkovskij incrocia la Cvetaeva presso un mercato librario, alla Casa dei Letterati, a Mosca. Finge di non conoscerla perché è in compagnia della moglie. “Tra il 25 luglio ed il 7 agosto viene sorpreso alla Cvetaeva da un bombardamento sulla Arbatskaja ploščad’. Si nasconde insieme alla Cvetaeva in un rifugio antiaereo. È il loro ultimo incontro” (Gario Zappi). Tutti i legami della Cvetaeva – soprattutto quelli evanescenti: quello con Boris Pasternak, ad esempio – recano il crisma dell’impossibile, dell’ora-e-mai-più. Ogni legame è la vita – è la morte.

Reclamato al fronte nel gennaio del 1942, Tarkovskij viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa – perderà la gamba, nel dicembre del ’43, in seguito a un’esplosione. Marina, come si sa, sceglie di uccidersi nell’ultimo giorno di agosto del ’41.

“Io l’amavo, ma stare con lei era difficile: era troppo brusca, troppo nervosa… Marina era una persona complessa”.

È oscuro il ricordo di Tarkovskij, segnato in Asterischi, magnetica prosa autobiografica del 1982. Quanto a prodigio lirico, preferiva l’Achmatova.

“Marina era terribilmente infelice, molti ne avevano paura. Anch’io, un pochino. Infatti era un tantino negromante”.

Kemine vuol dire modesto: una modestia che cela però l’orgoglio del duellante. Favoleggiava di tempi lontani, Marina, quando si andava a cavallo senza sella, ci si vestiva con le piume del falco e il sole era la biada dei poeti. Avrebbe voluto qualcuno che la proteggesse dall’era che urla – si sa, i precursori toccano luoghi impossibili, dove è nullo il divario tra corona e cappio, corda e cielo.

***

Amici! In che epoca ridicola sono capitato:
il male marcia di fianco all’uomo.

Il bey mostra la cervice del toro
il povero è al giogo del bey.

*

Se dai rifugio a un ladro tu stesso
sei un ladro: storto è il giudizio

del mondo, un malfattore il potente.
Il saggio svetti su un re nato storpio.

*

L’era è disordinata
la verità è invisibile:

Satana si traveste da uomo pio
il mufti frequenta i bordelli.

*

In ogni casa alligna un delatore
la calunnia è la nostra grammatica:

soltanto Kemine sa che il male
guida la storia, famelica bestia.

*

Kemine sa uccidere con le lodi:
tu sei la tenia del popolo.

Per i poveri è pronta l’apocalisse
un rogo è apparecchiato per i potenti.

*

Non gioire: primavera, spensierata
fanciulla, passerà, consegnandoti

ai rigori dell’inverno. Morte
veglia su di te: ha preso di mira

la tua anima, succulento nulla –
il tuo corpo vuoto come una brocca.

*

Che tu sia potente come Solimano
che i potenti si inchinino al tuo passaggio

non cambia nulla: morirai
tuo è il destino di tutti –

decrepito cranio sulla rena.

*

Cieco, idiota, stordito dal mondo
la vanità ti conduce al massacro:

l’avaro non condivide il cibo
nemmeno quando è sazio

chi è generoso rinuncia perfino
alle sue scorte: moriranno entrambi

ma di uno resterà memoria immortale.

*

Kemine lo sa bene: quando muore
il ricco di lui non resterà nulla –

la morte polverizza ricchezze e onori
l’anima è preda dei demoni sciacalli.

Kemine

*In copertina: una immagine dal film di Andrej Tarkovskij, “Stalker” (1979)

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