30 Gennaio 2024

“Sono maledetto dal possente dono della lungimiranza”. Morrissey: intervista con il mito

Qualche giorno fa è uscita la notizia del suo ricovero a Zurigo, per physical exhaustion. Per chi ha esaurito pressoché tutte le forme verbali concesse a un cantautore, uscire di scena per “esaurimento”, per “sfinimento” è un premio. Dopo i concerti previsti a Los Angeles sono stati cancellati quelli a Città del Messico e in Sudamerica: da tempo, tra l’altro, Morrissey accusa la ‘cultura col cancellino’ di volerlo cancellare dalla storia della musica britannica. Il vittimismo è il lato oscuro della possanza lirica, ultraviolenta, di Morrissey.

Morrissey, nato a Trafford nel maggio del 1959 da genitori irlandesi, cattolici, è forse il più estroso dei cantautori britannici: si è ritagliato uno spazio maldestro, proprio, tra David Bowie, che fa religione a parte, e Freddie Mercury, voce dal successo iliadico. Per tutti, Morrissey resta un uomo a parte, in dispetto al mondo, a disagio nel proprio tempo. Con gli Smiths ha rivoluzionato la musica degli Ottanta: dolce e letale il suo tratto – ascoltatevi The Queen Is Dead, l’album del 1986 dalla sfrontata voracità, sembra un disco che viene dal futuro. In Italia gli hanno dedicato diversi saggi, ma restano impubblicati i suoi libri, Autobiography e List of the Lost, entrambi editi da Penguin. Nel 1983 per Babylon Books, Morrissey ha celebrato uno dei suoi idoli in James Dean Is Not Dead.

Il giovane Morrissey con gatto

Più che altro, Morrissey si pensava poeta. Le sue canzoni – tra le più poetiche mai scritte, giurano gli esperti – brulicano di ‘fonti’ letterarie. Un tizio le ha rintracciate tutte e ne è venuto fuori un papiro che alterna autori notissimi – i lari di Morrissey: William Blake, Oscar Wilde, Elizabeth Smart – ad altri, laterali alla fama – il bravissimo Hubert Selby Jr., la ‘femminista’ Molly Haskell, la lesbica Radclyffe Hall, la drammaturga Shelagh Delaney. Tra i libri preferiti, il cantautore cita Il libro dell’inquietudine di Pessoa, tra i poeti opta per Alfred Edward Housman. Ovunque, in rete, trovate cenni alle polemiche – più o meno trite, più o meno volitive e stralunate – che lo hanno squassato.

Ora. Nel 2010 Morrissey rilascia l’intervista più interessante – per come è scritta, non per ciò che dice – della sua carriera. Dall’altro lato del microfono, inviato dal “Guardian”, c’è un poeta. All’epoca, Simon Armitage – classe 1963, attuale Poet Laureate del regno britannico, professore di poesia alla University of Leeds – era già il più talentuoso poeta britannico della sua generazione. Aveva pubblicato alcuni dei libri più noti – Book of Matches esce da Faber nel 1993 –, curato un’antologia di testi del suo maestro, Ted Hughes (nel 2000), tradotto frammenti dall’omerica Odissea (nel 2006). In Italia era noto da tempo: un’antologia delle sue Poesie esce nel 2001 per Mondadori – è scomparsa da tempo. Poeta-rocker, cofondatore degli Scaremongers, Armitage è un fan degli Smiths e Morrissey è il suo idolo. All’epoca, Morrissey era all’apice della carriera da solista: aveva da poco pubblicato Years of Refusal.

L’intervista, pubblicata come “Morrissey interview: Big mouth strikes again”, fu un mezzo disastro, denunciato fin nel sottotitolo: “Da trent’anni, l’ammirazione del poeta Simon Armitage per Morrissey rasenta l’ossessione. Sarà sopravvivere tale passione dopo l’incontro con il celebre cantautore e la sua lingua crudele?”. Mai incontrare le proprie divinità, direbbe il saggio: il gioco delle dita nello squarcio è riuscito soltanto a San Tommaso. A Morrissey quel poeta – dotato di pervicace cinismo – non piacque; alla fine, impedì che fossero pubblicate le fotografie realizzate per l’intervista: molte lo mostravano insieme a Armitage. Armitage capì che Morrissey non era il suo tipo: ne descrisse le inquietanti contraddizioni, il debole che si fa forza provocando, denigrando. Ancora l’anno scorso, interpellato sulle ragioni della sua poetica, Armitage è tornato sull’antica intervista, con una battuta molto english: “In privato, mi aveva parlato del padre, del suo senso dell’umorismo, della sua generosità. Credo che mi sarebbe piaciuto molto, suo padre”.

Tra le altre cose, l’intervista – qui tradotta – sistema l’antica questione – annosa, noiosa – dei rapporti tra poesia e cantautorato. Scrivere canzoni geniali non fa di Morrissey un Auden, chiude Armitage. Una domanda ha valore profetico: si parla dello sfinimento di un cantautore, dell’attimo in cui scegliere la fine, farsi definire dalla fine.

Non so se abbia valore. Per la prima volta ascoltai davvero There Is a Light That Never Goes Out all’ombra del Convento della Santa Croce a Villa Verucchio, nei recessi di Rimini. Pare che vi sia passato San Francesco: dal suo bastone sarebbe miracolosamente sorto l’olmo secolare che è ancora lì, pachidermico. Quella musica, in quel luogo, recava germogli sacri, da angelico coro.

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Simon Armitage intervista Morrissey

È un po’ come andare al primo appuntamento. Non è esattamente un appuntamento al buio; un poeta incontra il cantautore – questa è l’idea generale. Non ho idea se lui sappia chi sono – e benché abbia inseguito quest’uomo e la sua musica per anni, non posso dire con certezza chi sia Morrissey. Chi può dirlo? Quindi, quando la porta si apre e lui entra nella stanza, nessuno dei due sa bene cosa comporti il protocollo. Lo incontro, è ovvio, ma lui incontrerà mai me?

Intanto, gli stringo la mano. Quadrata, solida, più in linea con l’immagine da capomafia e da pugile senza guantoni che ha coltivato negli ultimi tempi che dell’antico maestro (tramortiscimi, ti prego, con una qualsiasi piuma del tuo passato). Fa un piccolo inchino. Una versione un po’ modificata rispetto a quella che gli ho visto fare migliaia di volte sul palco: un piede avanti, l’altro dietro, testa bassa, occhi al pavimento.

È un po’ come essere accolti da un matador: il gesto di rispetto è sincero, ma sappiamo tutti cosa succede al toro. Anch’io abbasso gli occhi: indossa graziose scarpe da ginnastica dorate, come le scarpe da calcio riservate ai più grandi giocatori del pianeta. Pare che ai lati abbiano le ali.

Siamo nella sala da ballo di un hotel elegante, in una strada elegante prossima al più elegante grande magazzino di Londra e mentre lui viene accompagnato verso una sedia riccamente imbottita per un ritratto fotografico, io vado verso il carrello per gli ospiti. Di solito, i fanatici del rock sono notoriamente istrionici e stravaganti nella proposta, ma io sono in compagnia di un notissimo astemio. Quindi, dove dovevano esserci litri di Jack Daniel’s e chili di prodotti farmaceutici ben tritati offerti sul seno nudo di giovani schiave filippine, ci sono soltanto bustine da tè e lattine di Fanta, la bevanda preferita da Morrissey.

Mi avvicino al set. Morrissey gira la testa come gli indicano, fa una posa, poi l’altra. La luce crolla sul mento che pare una palla da rugby, mette in risalto il ciuffo, un po’ più sottile di allora, ma ancora in grado di ondeggiare un paio di centimetri sopra il cranio, soprattutto dopo un tocco di dita. Indossa una polo rossa, anelli da tirapugni, il generico splendore della celebrità. Quando la fotocamera lampeggia, intuisco il ragazzo scolpito nel volto di questo cinquantenne – poi svanisce. Vedo una bicicletta sul muro, improbabile in questo albergo: suggerisco di fare un remake di This Charming Man.

“Già fatto”, dice, come in una sorta di teatrale congedo.

Stavo scherzando.

“Ora insieme, tutti e due”, fa il fotografo.

Il fotografo ci piazza davanti a uno specchio, a figura intera, a non più di un metro di distanza. È una specie di idea tipo “lui mi guarda io lo guardo e guardo me”.

“Un po’ più vicini”, dice.

Morrissey: “Mi devo guardare allo specchio?”.

Fotografo: “Sì, grazie”. 

Morrissey: “Come ho sempre fatto”.

Fotografo (a me): “Un po’ più vicino”.

Faccio quello che mi dice, finché il mio naso è a non più di quindici centimetri dalla sua guancia. Non ricordo l’ultima volta che mi sono trovato così a portata di volto di un altro uomo – e quest’uomo è Morrissey, e ci siamo appena incontrati. Noto i peli grigi sulle basette, la carnagione cupa, il quarzo negli occhi. Inalo sbuffi di costosa colonia.

Questo incontro ravvicinato è il punto di arrivo di un viaggio iniziato oltre un quarto di secolo fa. Non entro nelle esatte circostanze del fatto, ma me ne stavo sdraiato nella vasca da bagno di una casa sulla costa meridionale dell’Inghilterra, condivisa con cinque studenti di geografia e diversi membri della marina nigeriana. Sul davanzale della finestra una radio a transistor mandava in orbita la voce di John Peel che parlava di una band chiamata The Smiths. Peel non era uno capace di elogi, ma da qualche parte in quel discorso impassibile e piuttosto lugubre intuii una piccola nota di eccitazione e forse qualche aggettivo di lode. Mi sono immerso sotto la linea di galleggiamento della vasca per levarmi gli ultimi residui di shampoo e ho preso ad ascoltare Hand In Glove. Per un nordico nostalgico appassionato di musica alternativa, è stato amore a prima vista: gli Smith, una band il cui nome echeggiava la natura dell’uomo comune e una produzione artigianale. Morrissey sfoggiava occhiali da vista stile Jack Duckworth, riparati con Hansaplast: andai a cercarne un paio al mercato. Quando indossava camicie inghirlandate di perline, aspettavo che mi madre andasse a una riunione parrocchiale per cercare qualcosa di simile tra il guardaroba e il portagioielli.

Gli Smiths si sono sciolti nel 1987 ma Morrissey si è lanciato in una carriera da solista producendo – giudizio mio – un corpus di lavori senza eguali che lo conferma il cantautore più eminente della sua generazione. Ascolto i suoi album incessantemente. Nonostante ciò, non ho mai desiderato incontrare Morrissey. Un giudice dell’alta corte lo ha bollato come “subdolo, truculento, inaffidabile”; nelle interviste appare sempre diffidente, a volte arrogante, sempre a disagio. In effetti, mi sono sempre chiesto perché un tipo che pare così dolorosamente goffo in mezzo agli altri voglia punirsi con l’agonia di una performance pubblica.

“Perché da bambino pensavo che il cantante solitario sotto i riflettori fosse così drammatico, così coraggioso… camminare sulle assi… voluttuosamente… affondare o imparare a nuotare. L’idea di stare lì, sul palco, da solo, mi pareva bellissima. Sei estremamente vulnerabile, eppure, tutto quello che accade in scena dipende da te. Questo è un potere incredibile, soprattutto per chi si è sempre sentito insignificante e trascurato. Senza contare che qualcuno potrebbe ucciderti…”.

Ora siamo seduti – tra noi c’è un tavolo. Morrissey ha la sua scorta di Fanta, io la mia lista di domande.

“Dov’è la cosa che chiami casa?”

“Mi sento a casa in almeno tre o quattro posti. Quando il mondo era piccolo, Manchester era il suo confine. Ma è un sollievo stare bene in altri posti. Conosco Los Angeles, ma è uno stato di polizia. Frequento Roma e alcune parti della Svizzera. Conosco bene Londra”.

“Probabilmente, sarebbe un problema passeggiare per Deansgate, vista la fama, intendo”.

“Sì, ma non faccio le cose che fanno le persone famose”.

“Non ci pucci il pane, intendi?”

“Esatto. Ora capisco perché la Faber ti è zompata addosso”.

È tutto evidente. Arguzia, complessità, intelligenza segnano Morrissey come una stravaganza nel mondo della musica. È evidente, anche, che la ferocia della sua lingua lo renderà per i più un nemico – vasta è la lista delle sue antipatie. Morrissey sugli altri cantanti: “Trovano due o tre melodie e le ripetono fino alla nausea per ventotto album”. Morrissey sulla gente: “Un problema. Le masse sono un problema”. Sulle classifiche dei dischi: “Nulla a che vedere con il talento, il dono, l’intelligenza, l’originalità. Ogni nuovo artista arriva in cima alle classifiche, ma come musicista dal vivo non riempirebbe nemmeno una cabina telefonica”. Con violenza, sui cinesi: “Ho visto al telegiornale come trattano gli animali. Orribile. Non puoi non pensare ai cinesi come a una sottospecie”. Alex Turner degli Arctic Monkeys non lo impressiona (“è creato a tavolino”) e le sue opinioni sulla famiglia reale inglese, in passato, gli avrebbero garantito la forca. Ha una bassa opinione perfino dell’attuale Poeta Laureato inglese, Carol Ann Duffy: quando mi rifiuto di lasciarmi coinvolgere in questo gioco da cecchini e gli confido che è una mia amica, comincia a denigrarla con più forza.

Come quelli che mi hanno preceduto, man mano che la conversazione va avanti scopro che le sue contraddizioni mi irretiscono. È affascinante e insopportabile. I gesti effemminati si alternano a un machismo scorbutico. Il desiderio di essere al centro della scena alla scarsa disinvoltura nelle relazioni sociali. I simboli del successo, evidenti, al vittimismo e alla sindrome dell’abbandono. Nessuno è più consapevole di Morrissey di essere in compagnia di un tipo che si chiama Morrissey. Chiamatela autocoscienza, autodifesa o egotismo: ogni gesto pare progettato con cura, ogni sillaba pesata e raffinata, a misura delle increspature che produrrà una volta gettata nello stagno. A volte opta per un aforisma à la Wilde, altre volte per un commento autoironico dall’intensità suicidale; a tratti le sue affermazioni spudorate posseggono la natura indiscutibile del genio, altre volte gioca a fare il mistificatore e sembra prenderti per il culo.

“Sono maledetto dal possente dono della lungimiranza”, dice. Pochi minuti dopo, lo dice di nuovo.

“Hai forse una palla di cristallo?”

“Certo. Incrocia il mio palmo con l’argento”.

Sorrido pensando a un promotore del realsocialismo che divina le foglie da tè. Gli chiedo di dimostrare la sua affermazione dicendomi chi vincerà le corse che partiranno alle 15.30.

“Credi di avere abbastanza denaro?”, mi chiede, dal nulla.

“Me la cavo”.

“È un modo per dirmi che hai un sacco di soldi ma che ti imbarazza ammetterlo?”

“Ti farebbe piacere se ti domandassi quanto hai guadagnato?”

“Non è una risposta”.

“Guadagno più di quanto pensassi quando ho deciso di fare il poeta”.

“Quando hai capito di essere un poeta?”

“Quando me l’hanno detto gli altri”.

Riferendosi alla sua esperienza mi dice: “Soltanto quando lo senti tu e lo avvertono gli altri, chi ti sta attorno, sei autorizzato a dirti poeta. Io ero il ragazzo meno propenso a esserlo, in molti sensi. Ero atrocemente antisociale. Essere poeta a scapito di ogni altra cosa, questa era la questione: e questo include anche i rapporti fisici, i legami forti con le persone. Lo scopri tu, alla fine, se sei un poeta, nessuno ti viene incontro, ti dà una pacca sulla spalla e ti dice, ‘Scusami, sei un poeta’”.

In effetti, Morrissey non è un poeta. Scrive delle mail brillanti (“Portami diversi metri di corda e un piccolo sgabello”, mi ha scritto quando gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto che gli portassi qualcosa dal Nord); è un editorialista convincente, soprattutto sul tema dei cappelli in pelle d’orso, come ha testimoniato di recente sul “Times” (“Non ha senso rendere la vita difficile all’orso bruno canadese: i cappelli delle guardie forestali sono del tutto assurdi”). Ha scritto un’autobiografia che è “quasi conclusa”, mi avverte. Ma i poeti scrivono poesie senza bisogno di melodie, controtempi, performance. Essere l’autore di There Is A Light That Never Goes Out e di altre canzoni geniali non fa di lui un W.H. Auden, come cantare in una band chiamata The Scaremongers non fa di me un Elvis Presley.

“Sei un tipo violento?”, gli chiedo. “Nei video flirti con cose violente, pistole, coltelli…”.

“Tutta roba utile. Come sai, vivo dove vivi anche tu. Esci spesso nelle strade periferiche di Leeds?”.

“No”.

“Ti stai perdendo tutto”.

Gli dico: “Al momento non hai obblighi contrattuali, vero?”

“Giusto”.

“Pensavo che le etichette avrebbero fatto la fila per averti”.

“Credimi, non c’è alcuna coda”. Sorprendentemente, un rantolo contro l’industria musicale si stempera in una dichiarazione toccante sulla sua band, ne parla in modo paternalistico, marcando le sue responsabilità. Anche dei suoi fan parla con toni commossi, come se fossero parenti di sangue, o qualcosa di ancora più intimo. Prendo lo spunto per chiedergli della sua vita sentimentale e del suo presunto celibato. Non mi importa sapere se è gay, bisessuale o etero, ma non riesco a capire come possa scrivere con tale passione un uomo che all’apparenza rifugge da ogni coinvolgimento emotivo con il prossimo.

“Non credo che sia necessario restare intrappolati in un rapporto in carne-e-ossa per capire i sentimenti umani. Non è necessario sprofondare in un legame per capirlo. Se intraprendi una relazione, poi devi sorbirti la famiglia dell’altra persona, i suoi amici… è davvero troppo. Preferisco di no. Ti ritrovi a fare gli straordinari in fabbrica per comperare il regalo a una nipote che non sopporti. Ecco cosa succede quando ti invischi in altre persone”.

“Dunque, sei solo”.

“Siamo tutti soli: io preferisco stare solo e senza una lista di doveri o di obblighi. Penso che questo sia uno dei motivi per cui la gente si ammazza”.

“Credi che la tua scrittura sia un’attività fredda, clinica?”.

“No, non è mai clinica. Sento di non avere scelta. È un’attività costante, opprimente. Accade. A discapito di ogni altra cosa. È implacabile. È… insana. È una malattia che non riesco a scrollarmi di dosso”.

“Continuerai a praticarla finché non ti sfiancherà o deciderai, prima o poi, di fare le valige, dipingere quadri o piantare un frutteto?”.

“Invecchiare non è piacevole. Non puoi andare avanti per sempre – chi lo fa, sbaglia”.

“Chi?”

“Niente nomi, perché sfottere i vecchi?”

Guardo l’elenco di domande che mi restano.

“Hai la patente?”

“Che razza di domanda inutile e insipida è questa?”

“Qualcuno te l’ha mai fatta?”

“No. E non mi sembra strano”.

“Ho pensato fosse bella”.

“Perché? Non mi credi capace di gestire opere di ingegneria così complesse?”

“Va bene. Cosa ne dici di: ‘Hai degli animali’?”

“Ho dei gatti. Ne ho sempre avuti tanti. E ho avuto anche tanti lutti”.

Osservazione preveggente, che avrei dovuto prendere sul serio visti i poteri paranormali di Morrissy. Una settimana dopo l’intervista, ricevo un messaggio in cui mi avvisa che le fotografie che abbiamo realizzato non gli piacciono. Ha insistito che non vengano pubblicate. Il lutto, a quanto pare, è mio: non apparirò nel servizio. Al mio posto, ci sarà un gatto. Trent’anni di ammirazione al limite della mania, poi l’appuntamento, poi mi scarica. Abbandonato per un dannato gatto.

Finita la conversazione, non sembra avere fretta. Per concludere, mi imbarco in una frase inconclusa che parte come un complimento sincero e bordeggia una specie di brindisi di gratitudine a nome della nazione intera. Poi vado al sodo e gli dico semplicemente grazie.

“Ho un piccolo regalo per te”, gli dico. Tiro fuori dalla borsa il mio ultimo volumetto.

“Mi scrivi qualcosa?”

“Già fatto”.

“Due R e due S”, dice. Penso, non preoccuparti Morrissey: se c’è qualcuno che sa scrivere il tuo nome, quello sono io.

Si volta, va verso le scale. A metà corridoio apre il libro di poesia e cade un CD degli Scaremongers – non lo avreste fatto anche voi?

“Hai lasciato anche questo?”

“Più o meno…”, ammetto.

Le sue sopracciglia si alzano e si abbassano. Non capisce. Poi le piccole ali delle sue scarpette dorate svolazzano dalle caviglie e lui ascende al cielo.

Simon Armitage

Gruppo MAGOG