L’ultimo viaggio di Rimbaud, l’avventuriero
Letterature
Il principio è quello della spoliazione. Svelare, rivelare – scuoiare il verbo fino all’osso che, per lucentezza, pare rotula di diamante. Così, in questo racconto, ad esempio, l’amore è rivelato dalla morte – all’inizio refrattaria, ritratta per rifrazioni e fraintesi.
Kawabata Yasunari, il grande scrittore giapponese, ha costellato la sua vita narrativa di racconti. Si tratta di testi particolari, brevissimi, spesso poco più del bagliore su uno specchio, le ditate di una pietra sul lago. Sarebbe errato affratellare la brevità alla superficialità, a un dire sommario: “per breve che sia, il tenohira non è inferiore al romanzo per ricchezza di contenuto, complessità formale, acutezza introspettiva”, scrive Ornella Civardi, che nel 2002, per Marsilio, ha raccolto i Tenohira no shōsetsu di Kawabata, i “Racconti su un palmo di mano”.
I racconti sono spesso memorabili; il libro è una specie di anti-scuola di scrittura: insegna la latitanza dalle grammatiche, la veglia, l’abbandono. L’efficacia non è data dall’effetto, dal ‘colpo di teatro’, ma dalla reticenza. I racconti di Kawabata vanno letti insieme a quelli di Hemingway: ne costituiscono, per così dire, il vuoto, la notte oscura, le camere d’aspetto.
Il processo di spoliazione è testimoniato dai titoli con cui, nei decenni, Kawabata ha radunato i suoi brevi testi. Si passa da Suggestioni e artifici a La mia galleria, dall’Album degli schizzi a Un’erba, un fiore. Il percorso è fatale: artificio e suggestione, galleria e album, schizzo o annotazione, riguardano l’uomo e il miracolo/miraggio dell’arte. L’arte – la scrittura –, in effetti, è prodigio: gioco di suggestioni, alata menzogna. I riferimenti all’arte figurativa sigillano il credo estetico di Kawabata: scrittura ‘impressionista’, ad acquerello, a volte; le parole si devono ‘vedere’, la penna è in realtà un pennello. Arcana arte, monastica – impari come quella dell’icona – della poesia accompagnata al segno pittorico, l’haiku, la nota lirica, in un triduo di canneti, con il felino in mezzo.
Negli ultimi racconti, Kawabata depone ogni artificio, ogni arte: spesso, i testi sono poco più che accenni; a parlare è l’erba, il fiore. La parola è un’infiorescenza, un prato, forse un seme.
Immortalità – che qui si propone in una diversa traduzione, nuova – è uno dei racconti estremi di Kawabata. Con pochissimi tratti siamo costretti in un crocevia di contrasti. Vecchiaia e giovinezza, foresta e città, gloria e fallimento, vita e morte. Il campo da golf, costruito spianando un bosco, è l’emblema di una modernità brutale; gli alberi centenari simboleggiano il genio della tradizione, i residui dèi. L’amore si realizza nella morte: amare vuol dire ricongiungersi, fondare una nuova vita? Nell’amore, forse, è implicito l’addio.
L’albero, crocevia di mondi, lega il racconto alla favolistica giapponese classica – la Storia di un tagliatore di bambù, ad esempio – e all’agiografia – Saigyō, il grande poeta vissuto nel XII secolo, muore sotto un ciliegio.
Ornella Civardi ha scritto che in Kawabata la bellezza “è inseparabile da una sorta di santità… la bellezza è una qualità della purezza e, come tale, diventa una categoria metafisica; non un aspetto isolato dell’esistenza, ma la sua più alta realizzazione. Agli umili, involontari ‘santi’ è concessa quella comunione con l’universo e le cose che sembrava per sempre perduta dagli uomini”. Bellezza è santità – tutt’altro dalla formula di Keats, Beauty is truth, truth beauty. C’è qualcosa di conturbante quando pensiamo che la bellezza è ciò che reca in sé i segni del deperimento, della morte – bello perché irraggiungibile, inattingibile. Al discorso di accettazione del Nobel per la letteratura, era il 1968, Kawabata cita poeti – Dōgen, Saigyō, Ryōkan, Ikkyū – che, in ruoli diversi, sono diventati monaci, hanno imboccato la via del romitaggio. Quasi a dire che l’arte è una pratica, ha regole e abitudini conventuali, richiede un noviziato, la tonsura. Oppure, al contrario, che l’arte, di per sé – cioè, senza una scelta –, è niente, diletto per bimbi, fumo. Arte è stare sul prato, ma compito dell’uomo è entrare nel tempio.
Non lo so. È bello pensare a uno scrittore che scrive per togliersi l’abito, e te lo porge. Che arriva al punto in cui la parola non si spezza più, è diventata pietra – o acqua.
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Immortalità. Un racconto di Kawabata Yasunari
Un vecchio e una ragazza camminano insieme.
Alcune stranezze li legano. Stanno vicini come fossero amanti, come se non si rendessero conto della differenza di sessant’anni di età che li separa. Il vecchio ha problemi di udito. Non capisce la maggior parte delle cose che gli dice la ragazza. La giovane donna indossa dei pantaloni rosso scuro, un kimono bianco e porpora, con uno stampo elegante: delle frecce. Le maniche sono piuttosto lunghe. Il vecchio veste come le anziane che strappano le erbacce dai margini della risaia, senza calze. Le maniche corte e i pantaloni stretti alle caviglie hanno un tono femminile. La veste è larga, ai fianchi.
Camminano sull’erba. Durante la marcia, attraversano un recinto metallico. Gli amanti sembrano non accorgersi che, continuando il cammino, sono destinati a rimanere in trappola. Non si fermano. Attraversano la griglia come se fosse vento di primavera.
Più tardi, è lei a notare il recinto di filo metallico.
Shintaro, sei riuscito a passare attraverso la rete?
Il vecchio non la sente, è intrappolato.
Maledizione, maledizione, dice, agitato. La scuote con troppa forza finché la rete non lo vince e lo trascina con sé. Il vecchio barcolla, cade.
Shintaro, cosa è successo? La giovane donna lo abbraccia, lo sostiene. Allontaniamoci dalla rete… quanto sei dimagrito… dice la ragazza.
Finalmente, il vecchio riesce a rialzarsi. Ansima, la ringrazia. Afferra ancora la rete, ma con delicatezza. Poi, ad alta voce, come fanno i sordi, Raccoglievo le palline che attraversavano le reti metalliche, giorno dopo giorno. Per diciassette lunghi anni.
Credi che diciassette anni siano tanti? Non sono pochi?
Lanciavano le palle contro la rete. Facevano un rumore brutale quando colpivano la recinzione. A causa di quel rumore sono diventato sordo.
La rete metallica proteggeva i ragazzi incaricati di raccogliere le palline di golf. Le ruote permettevano di spostare la rete, avanti e indietro, a destra o a sinistra. Il campo da golf era circondato da alcuni alberi. In origine, in quel luogo sorgeva un bosco: era stato abbattuto e ora non restava che quel filare di alberi, irregolare.
Continuano a camminare, dopo aver superato la rete.
Che piacevoli ricordi porta con sé il suono dell’oceano.
Vuole che il vecchio senta quelle parole, dunque gliele ripete all’orecchio.
Posso sentire il rumore dell’oceano.
Cosa? Il vecchio chiude gli occhi. Ah, Misako. È il tuo dolce respiro. Proprio come tanti anni fa.
Riesci a sentire l’oceano così amato?
L’oceano… hai detto oceano? Amato? E come potrei amare l’oceano dove sei annegata?
Io lo amo tanto. È la prima volta che torno nella mia città dopo cinquantacinque anni. E ci ritorni anche tu. Questo riporta a ricorda piacevoli e lontani.
Il vecchio non la sente, ma lei continua:
Sono contenta di essere annegata. Così posso pensarti per sempre, proprio come quando sono annegata. Del resto, gli unici ricordi che conservo sono quelli di quando avevo diciotto anni. Tu sei eternamente giovane per me. Così accade anche a te. Se non fossi annegata, tu verresti in città a trovarmi e troveresti una vecchia. Che cosa orribile. Non lo sopporterei.
Il vecchio, intanto, parla. Il monologo di un sordo:
Mi sono trasferito a Tokio e ho fallito. Ora, ormai decrepito, torno nel mio paese. C’era una ragazza che si lamentava perché ci saremmo separati. Si è buttata in mare, così ho cercato lavoro in quel campo da golf, che si affaccia sull’oceano. Ho implorato perché mi dessero quel posto… almeno… per compassione.
Era quella la terra che apparteneva alla tua famiglia?
Non ero adatto ad altro che a raccattare palline da golf. La spina dorsale tumefatta per essermi chinato così a lungo… Ma una ragazza si è uccisa per me. La scogliera è da questa parte, basta scendere giù… È quello che ho intenzione di fare.
No, devi vivere! Se morissi, nessuno su questa Terra si ricorderebbe di me. E morirei del tutto.
La ragazza si aggrappa al vecchio. Lui non può sentirla, ma la abbraccia.
Ecco il momento. Moriremo insieme. Sei venuta a cercarmi per questo.
Insieme? Ma tu devi vivere! Vivi per me, Shintaro.
Non ha più fiato, si guarda alle spalle. I tre grandi alberi sono ancora lì. La ragazza li indica e il vecchio si volta, li fissa.
I giocatori di golf volevano tagliarli. Dicevano che le palline erano come risucchiate dalla magia di quegli alberi.
A tempo debito, anche quei giocatori di golf moriranno. Al cospetto degli alberi, centenari, quei giocatori sono nulla. Non sanno quanto dura la vita di un uomo.
Per centinaia di anni i miei antenati hanno custodito quegli alberi: una volta venduto il terreno, hanno ottenuto la promessa dal compratore che non sarebbero stati tagliati.
Andiamo. La giovane donna tira la mano del vecchio. Sta quasi per cadere, ma si inoltra verso gli alberi.
La ragazza scivola senza difficoltà tra i tronchi. Anche il vecchio.
Come?, dice, meravigliata. Ma allora anche tu sei morto, Shintaro? Quando sei morto?
Non risponde.
Sei morto. Non è così? È strano che non ti abbia trovato nel mondo dei morti. Prova ad attraversare questo tronco ancora una volta, per verificare se sei morto o sei vivo. Se sei morto, potremmo entrare in un albero e abitarlo.
Spariscono dentro l’albero. Insieme. Il vecchio e la ragazza non appaiono più.
Il colore della notte comincia a fluttuare sulle cime dei grandi alberi. Il cielo muta, si tinge di un rosso pallido, soltanto lì, però, dove l’oceano ruggisce.
Yasunari Kawabata