09 Febbraio 2024

“Meditiamo sullo splendore dell’Essere”. Il pellegrinaggio di Yeats in Oriente

Uomo avvezzo alle iniziazioni – testa fra nubi d’Oriente e piedi ben piantati sul patrio suolo d’Occidente – nel 1934 William B. Yeats s’avventura, pellegrino ideale, fra i gironi spirituali del Monte Kailash, sull’altopiano tibetano.

Introduce per la Faber “The Holy Mountain” di Bhagwān Shri Hamsa – storia del pellegrinaggio al lago Manas e dell’iniziazione del monaco sulla vetta della montagna sacra. L’aveva tradotto dal marathi l’amico guru Shri Purhoit Swāmi, che a sua volta, in uno scambio fra emisferi, aveva iniziato W. B. Y. ai misteri upanishadici – opportunità esotica ed erotica.  

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“Non conosco altro che i romanzi di Balzac e gli aforismi di Patanjali. Un tempo, conoscevo altre cose, ma sono solo un vecchio uomo dalla memoria impoverita”. Ci dev’essere una ragione se ho scritto questa frase, per altro falsa, che mi gira in testa da settimane. Forse perché, ogni volta che sono stato tentato di andare in Giappone, in Cina, in India per perfezionare la mia ricerca filosofica, Balzac mi ha afferrato, mi ha riportato indietro, agli affanni nazionali, sociali, personali, convincendomi che non si può fuggire la nostra commedia umana?

Filosofeggiamo per ridurre le nostre menti a un’unica energia, e così salvare le nostre anime e nutrire i nostri corpi. Dimostriamo ciò che dobbiamo e presumiamo il resto per sentito dire. Non esistono due civiltà che provano o presumono le stesse cose, ma dietro a entrambe si nasconde l’esperienza immutabile di uomini e donne comuni. Quando leggo dei pellegrinaggi di Purohit Swāmi o del suo Maestro, Bhagwān Shri Hamsa, mi ritrovo tra elementi familiari. Seraphita mi ha preparato a quelle avventure, a quelle apparizioni, e ricordo che i cavalieri e gli eremiti che hanno preparato il terreno per la nostra commedia umana preferivano, forse, tali avventure alla filosofia, tali apparizioni al dogma:

“Un amico saggio e uno solo
Meglio sia giusto che saggio”.

*

II

Shri Purohit Swāmi all’inizio del secolo era solo il signor Purohit, studente dell’Università di Bombay. Aveva ereditato dai suoi padri Maratha il culto di Dattātreya, il primo Yogi, padre spirituale di tutti gli Yogi, o, come diremmo noi, il loro santo patrono. Lo aveva visto in sogno, conoscenza alquanto insufficiente; le parole, nei sogni, sono poche e di ardua comprensione; aveva bisogno di una guida che gli indicasse, per esperienza personale, le meditazioni che arricchiscono la mente da sveglia. Per un certo periodo smise di leggere. Quando ebbe fissato la propria concentrazione sul Sommo Dattātreya, persino la Bhagavad-Gita finì per distrarlo.

Gli studenti erano arrivati ad associare l’erudizione a corpi gracili ed abiti trasandati, e si era manifestata una reazione verso l’atletica; lui si era vantato di essere uno studioso, un atleta, un dandy, ma poiché le donne, notoriamente d’intralcio alla meditazione, lo attraevano, e ne erano attratte, mangiava poco, si era fatto crescere la barba e vestiva fuori moda. Scoprendo che tra gente devota la sua mente si acquietava, prese a frequentare templi e luoghi di pellegrinaggio; poiché il contatto con un essere soprannaturale non si raggiunge mai attraverso la mente sveglia, ma tramite l’atto di quello che viene chiamato ‘inconscio’, egli ripeteva migliaia di volte ogni giorno: “Meditiamo sullo splendore dell’Essere. Possa illuminare le nostre menti”, fino a pronunciare queste parole nel sonno o silenziosamente nel corso di una conversazione. In un tempio di Narsobā Wādi incontrò una splendida cortigiana che era venuta a cercare una cura per qualche malanno, l’aveva trovata, ma ogni volta che tentava di tornare dal suo amante, cadeva malata al confine del territorio, e ora sedeva lì, e ci sarebbe rimasta a vita, cinta da una veste bianca, invocando il Divino Maestro sulle note del suo liuto. Aveva pregato, senza prevederne le conseguenze, non solo per la salute fisica, ma anche per quella spirituale, e la “mente inconscia” aveva ascoltato la sua preghiera.

*

III

Ma poiché non riusciva a convincere i Maestri che accettarlo fosse cosa accettabile, sprofondò nella disperazione. Sedeva piangendo nella sua stanza; un amico bussò alla porta e gli chiese di incontrare un certo Shri Nātekar Swāmi, ora noto come Bhagwān Shri Hamsa, che era appena arrivato. “Salimmo le scale del palazzo Keertikar – scrive – e fummo introdotti in una piccola stanza all’ultimo piano. Quando entrai, lo Swāmi, che era seduto su una pelle di tigre, si alzò. I nostri occhi si incontrarono”. E Shri Nātekār Swāmi – anche se, per quanto ne sapeva Purohit, non si erano mai visti – disse: “Ci rivediamo dopo molto tempo”. Era più anziano di quattro anni. Veniva da una famiglia benestante e suo padre, temendo che il figlio divenisse un monaco errante, come avevano fatto gli zii e gli antenati, lo aveva fatto sposare all’età di sedici anni; ma un giorno, mentre era seduto a leggere sulla riva di un fiume, la sua anima si risvegliò e, gettando in acqua il libro e gli abiti europei, iniziò una vita di austerità. La gente di campagna spiega la sua santità con una storia che ha dell’incredibile per delle orecchie moderne quanto quella dell’infanzia di qualche santo europeo, ma che simboleggia un’alleanza tra corpo e anima che la nostra teologia rifiuta. Una certa bella donna sposata, all’età di vent’anni, con il consenso del marito, si era fatta pellegrina. Dopo aver vagato per molti anni da un santuario dell’Himalaya all’altro, aveva trovato casa in un tempio in rovina a Brahmāvartra. Alcuni la chiamavano ‘la pazza’ e altri, a causa della stuoia di cotone che le copriva i lombi, “la signora della stuoia”. Possedeva solo due beni, quella stuoia di cotone e il suo liuto.

Il padre di Shri Nātekār Swāmi si recò in pellegrinaggio a Brahmāvanta con il figlio, allora ancora bambino. Padre e figlio visitarono la Signora della Stuoia. Il bambino si arrampicò sulle sue ginocchia. Lei disse: “Lascialo con me, mi prenderò cura di lui”. Il padre non osò disobbedire, ma si allarmò perché lei non aveva altro cibo che un pezzo di pane quotidiano recato da un portatore d’acqua. Quando il giorno dopo tornò con il cibo, il bambino non lo toccò, perché la Santa lo aveva nutrito dal suo seno. Lo allattò per quindici giorni, quindi lo restituì al padre, dicendogli: “Quando sarà adulto saprà cosa ho fatto per lui”. Un giorno la Santa chiamò il portatore d’acqua e gli disse che stava per lasciare il mondo. Poiché l’uomo era in lacrime, gli donò la sua stuoia come reliquia, ordinandogli di portare il suo liuto al ragazzo che aveva nutrito. Mentre lei suonava e cantava, le acque del Gange presero ad agitarsi: prima piccole onde, poi sempre più alte; più lei cantava, più le onde s’innalzavano. Quando le lambirono i piedi, passò il liuto al portatore d’acqua. Un attimo dopo l’avevano spazzata via; poi, d’improvviso, tutto si fermò.

Il signor Purohit riprese la vita di studente. Quando ebbe superato, per compiacere il padre, l’ultimo esame di legge, fu chiamato in sogno da Dattātreya. Partì insieme al suo Maestro per il monte Girnār, dove le impronte di Dattātreya sono raffigurate su una roccia. Ripeteva tutto il giorno: “Meditiamo su quello splendore supremo”.  Ai piedi della montagna, fece voto di gettarsi dalla rupe se il suo Divino Maestro fosse rimasto celato. Mentre scalavano i settemila gradini, non mangiò né bevve, benché avesse digiunato per settimane, e dovette continuamente sdraiarsi per riposare. Con la luna piena del 25 dicembre 1907, giorno della nascita di Dattātreya, raggiunsero la vetta. Quindi si addormentò sui sacri passi al tramonto e non si destò finché la luna non ascese al cielo. Al risveglio scoprì che Dattātreya lo aveva accolto nel sonno e, quando si tastò la fronte, scoprì al centro la prima traccia di quel piccolo tumulo che è l’equivalente indiano delle stimmate cristiane.

Aveva raggiunto il Sushupti, o l’inconscio Samādhi, un sonno senza sogni che si differenzia in certe fasi della notte da quello di ogni dormiente, di ogni insetto nella crisalide, di ogni animale in letargo, di ogni anima tra la morte e la nascita, perché raggiunto attraverso il sacrificio dei sensi fisici, tramite la meditazione su una personalità divina, allo stesso tempo una personalità storica e il proprio sé spirituale. D’ora in poi quella personalità, quel sé, sarebbe stata in grado, anche se sempre a sua insaputa, di utilizzare i propri sensi, e così in Oriente i movimenti corporei sono classificati come sensi, per dirigere la propria vita o quella altrui. Tuttavia, non viveva isolato come uomo di genio o di intelletto, poiché da allora in poi tutti coloro in cui quel Sé si era risvegliato sembravano suoi prossimi.

Già quando il suo traguardo era incompleto e non aveva ancora raggiunto la cima dei gradini, aveva scorto una bella donna slanciata, con occhi scuri e luminosi e labbra rosse, appoggiata a un albero, e mentre lei scompariva ne aveva ricevuto la benedizione; e ora, mentre scendeva, appariva un altro dei Maestri di Saggezza, un uomo dagli occhi chiari.

Benché accettato, benché d’ora in avanti non sarebbe più stato il signor Purohit ma Shri Purohit Swāmi, rifiutò di accompagnare il suo amico che, in una meditazione nota come Savikalpa-Samādhi, aveva ricevuto l’ordine di cercare Turiya, il Samādhi più potente o cosciente, sul monte Kailash, il leggendario Meru; si riteneva indegno, perché non s’era liberato dal mondo e non avrebbe potuto che portarlo con sé durante il viaggio.

*

IV

A volte entravano in contatto con quell’India europeizzata che l’Inghilterra ha plasmato con un’istruzione superiore, sempre in lingua inglese. Shri Purohit Swāmi si occupò delle comodità del suo Maestro, lo lasciò disteso a dormire in una carrozza di prima classe, andò a cercarne una di terza classe per sé, ma non erano rimasti nemmeno posti in piedi. Decise di tornare dal Maestro, ma trovò la carrozza vuota. Il suo Maestro aveva lasciato il treno ed era seduto su una panchina, nudo tranne che per un lembo di stoffa. Un indiano europeizzato lo aveva contestato perché indossava seta e viaggiava in prima classe, e tutti i monaci e i pellegrini perché gettavano discredito sull’India con le loro superstizioni e la loro indolenza. Così si era spogliato dei suoi abiti di seta, asserendo che, sebbene sembrassero legati al suo destino, non avevano alcuna importanza. Quindi, poiché lo straniero non sembrava ancora soddisfatto, gli aveva consegnato il proprio bagaglio e il suo stesso biglietto. Ciò nonostante, riuscirono a continuare il viaggio, perché proprio mentre il treno stava per partire, l’indiano europeizzato tornò e gettò nella carrozza vestiti, bagagli e biglietto. Era stato assalito dal rimorso. Quando giunsero a destinazione, Shri Nātekār Swāmi si sedette nell’atteggiamento prescritto, entrò in Samādhi e Shri Purohit Swāmi, gioendo apertamente, cantò le sue lodi – Maestro Divino e Umano, unico in questa meditazione buia o luminosa:

Conducimi nel Tuo Regno
dove non esiste il piacere dell’unione
né il dolore della separazione
dove l’io vive eterna gioia
Tu solo puoi condurvi l’anima malata

– verso dopo verso, finché il Maestro non rinvenne dalla meditazione con un pianto: “Vittoria, vittoria al Sommo Dattātreya”.

La maggior parte della pittura cinese e giapponese è una celebrazione delle montagne, e queste erano talmente sacre che gli artisti giapponesi, fino all’invenzione della stampa a colori, hanno costantemente riprodotto le caratteristiche delle montagne e dei paesaggi cinesi, come fossero le lettere di un alfabeto, in grandi capolavori, tradizionali e spontanei. Penso al volto della Vergine nella pittura senese, che conserva, dopo che i santi lo hanno perduto, un carattere bizantino.

Per gli indiani, i cinesi e i mongoli, le montagne sono state fin dai tempi più remoti la dimora degli dèi. I loro re, prima di ogni grande decisione, hanno scalato qualche montagna, e di tutte queste il Kailash, o Monte Meru, come viene chiamato nel Mahābhārata, era la più famosa. Sven Hedin lo definisce il più famoso di tutti i monti, sottolineando che il Monte Bianco è sconosciuto alle popolose nazioni d’Oriente. Migliaia di pellegrini indù, tibetani e cinesi, vedantini, buddisti o di altre fedi più antiche, l’hanno circondato, chi inchinandosi a ogni passo, chi cadendo prostrato, misurando il terreno con il proprio corpo; un anello esterno per tutti, uno interno e più ardimentoso per coloro che sono chiamati dai sacerdoti alla sua maggiore penitenza. Su un altro anello, ancora più alto, inaccessibile ai piedi umani, si muovono in adorazione gli dèi. Un numero ancora maggiore di persone lo ha conosciuto dal Mahābhārata o dalla poesia di Kalidās, scoprendo che dal lago alle sue pendici – in cui cantano i cigni sacri – sorge un albero coperto di frutti miracolosi, che i quattro grandi fiumi dell’India nascono lì, con sabbie d’oro, d’argento, di smeraldo e di rubino, che in certe stagioni dal lago – e qui è Dattatreya stesso a parlare – si erge un Fallo d’oro. Mānas Sarowar, il nome completo del lago, significa “Il grande lago intellettuale”, ed è in questa montagna, in questo lago, che una dozzina di etnie riconoscono il luogo di nascita dei loro dèi e di loro stesse. Anche noi abbiamo imparato da Dante a immaginare il nostro Eden, o Paradiso terrestre, sulla cima di una montagna, con anelli penitenziali sulle pendici.

William B. Yeats

*Il testo – “Initiation on a mountain” di William Butler Yeats –, qui parzialmente tradotto, comparve per la prima volta su ‘The Criterion’, vol. XIII, n. LIII, del luglio 1934. Nel settembre del medesimo anno funse – in versione lievemente rivisitata – da introduzione a “The Holy Mountain” di Bhagwān Shri Hamsa (Faber and Faber).

Il servizio e la traduzione sono a cura di Fabrizia Sabbatini

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