C’è un criterio per valutare la vitalità di un poeta all’interno della letteratura: è la sua influenza sugli altri scrittori. Ci sono infatti autori con cui i contemporanei non possono evitare il confronto, per motivi stilistici oppure di pensiero, per la memorabilità delle immagini o per la visione del mondo che hanno elaborato. La voce di questi scrittori sopravvive nel coro della tradizione, che venga contraffatta contraddetta imitata plagiata assorbita neutralizzata amplificata o altro ancora, in modo consapevole o ancor più significativamente in modo inconsapevole.
Da questo punto di vista, Giuseppe Ungaretti ha inesorabilmente fatto il suo tempo.
Eppure, se c’è un poeta che era parso subito dirompente ed emblematico era proprio lui, Ungà. Con la sua formazione europea e la potenza della sua lirica, aveva trovato immediatamente una cifra esplosiva e persino semplice. La Storia ha fatto il resto, baciando il suo esordio con la drammatica esperienza della Grande Guerra.
Nessuno più di lui venne in seguito additato come maestro, nessuno più di lui ebbe tale seguito di imitatori.
Ecco, ma già questa situazione nasconde un paradosso. Essere preso come modello è un indice di grandezza e di vitalità, dicevamo, ma se questo processo è troppo acclarato, se l’inesauribile segreto del verso non oppone anche qualche resistenza, c’è il rischio di aver innescato una moda che scadrà presto nel manierismo.
E oggi Ungaretti risulta ancora un maestro solo per chi equivoca la poesia con la lirica più spontanea ed effusiva, al netto di qualche minima acrobazia linguistica, di qualche audace iunctura, che in epoca di alfabetizzazione di massa rappresenta il minimo sindacale.
Nonostante ciò, oggi, a. D. 2019, queste considerazioni sono destinate a rimanere impopolari, perché Ungaretti all’interno del nostro canone resiste ancora piuttosto bene ed è prematuro declassarlo di rango – non solo per motivi storici. Perché? Perché questo poeta ha dalla sua la nicchia aurea che gli ha costruito la scuola. Gira che ti rigira, sui banchi la poesia di Ungaretti “arriva”. Anche i ragazzi meno sensibili rimangono toccati. Sentono tutta la ventata di una lingua finalmente semplice, disincagliata da strutture retoriche e blateramenti sofisticati. E i temi sono forti, drammatici. Insomma, con Ungà a scuola si vince facile – perché in effetti è piuttosto semplice da spiegare e da capire. Oscuro rimarrà semmai l’Ermetismo – non il suo patriarca. A fronte di un simile successo, sarebbe un vero peccato deturpare l’icona del Poeta Popolare andando a rovistare nei suoi rapporti con il Fascismo, perché la poesia, giustamente, va preservata dalle beghe della politica, una volta tanto. Una volta tanto che piace. Restiamo semmai ancorati alla capacità di raccontare in versi limpidi il dolore, per la perdita dei cari, per il ritorno delle ombre della Guerra sul mondo, gettando un rapido sguardo anche sul resto della sua produzione.
A riprova di tutto ciò, persino il nuovo esame di maturità è ricominciato dal vecchio buon Ungà, e ovviamente dalle sue prime poesie (quelle che si leggono a manciate in tutte le antologie, per raccontare la trincea; il resto della produzione ridotto a un corollario, se proprio occorre indagare oltre).
Lunga vita, allora, all’inossidabile, decrepito maestro che ci introduce, meglio di chiunque, nel Novecento.
L’unico peccato è che ci si ferma sempre sulla soglia, e si finisce per credere che Ungaretti sia ancora nostro contemporaneo.
Andrea Temporelli
*L’articolo, con il titolo “Considerazione impopolare su Ungaretti”, è stato pubblicato originariamente qui.