Pareva, per così dire, marmorizzata nel pudore – passava inosservata, per sempre apolide, forse, magnetizzava per evasione, evanescenza, evidente desiderio di essere in altri luoghi, in uno sfolgorio di ombre. La fotografia dice tutto: 6 dicembre 1948, i fratelli Sitwell, Edith e Osbert, danno una festa, ovviamente esclusiva, presso il Gotham Book Mart di New York; “Life” spedisce un inviato. Edith, palustre airone della poesia del Novecento, è al centro, dietro di lei, su una scala, a sovrastare la ciurma, W.H. Auden; Delmore Schwartz è accucciato davanti a Edith, con il papillon e lo sguardo da spiritello, alla sua sinistra la statuaria Marianne Moore e una Elizabeth Bishop assai perplessa; davanti a tutti c’è Gore Vidal, in fondo spicca Tennesse Williams. Nascosta da Stephen Spender, arroccata a destra, contro la libreria, nerovestita, eccola, Marya Zaturenska: è l’unica che non fissa l’obbiettivo, con la mano tenta di coprirsi il volto, bello, alieno, dell’Est.
Nata Marija Alexandrovna Zaturenskij il 12 settembre del 1902, a Kiev, da Avraham Alexander, che aveva servito nell’esercito russo durante la disastrosa guerra russo-giapponese e da Johanna Lupovska, polacca, la cui famiglia, per generazioni, era inclusa tra la servitù della schiatta dei principi Radziwiłł, era sbarcata a New York City giovanissima, nel 1910. I genitori cercavano fortuna, la figlia fu mandata a lavorare presso un’industria di abiti. Possedeva una bellezza diafana, uno sguardo penetrante, le labbra dei sognatori. Frequentava le scuole serali con ottimi risultati, che le consentirono una borsa di studio per la Valparaiso University; il talento le permise di continuare gli studi presso la University of Wisconsin. Scriveva fin da bambina, si adattò all’inglese, nel 1920 alcune poesie – A Russian Easter e Russian Peasants – vengono pubblicate su “Poetry”, nello stesso numero in cui compaiono testi di Ezra Pound, James Joyce e Wallace Stevens. È l’infaticabile Marianne Moore ad accorgersi del genio di quella ragazza ucraina, immigrata, tenace. Durante gli studi, conosce il marito, Horace Gregory, poeta dal cauto talento, che diventerà critico rinomato, professore di letteratura presso il Sarah Lawrence College, raffinato traduttore di Catullo e di Ovidio. Insieme, nel 1934, volarono in Irlanda per conoscere William B. Yeats: lei si fece da parte, per lasciare il marito, a cui aveva dato due figli – Patrick e Joanna –, da solo, a parlare con il sommo bardo. Aveva pubblicato proprio quell’anno la prima raccolta, Threshold and Heart.
Silente, mai dimessa, nel 1942 – e in versioni aggiornate fino al 1946 – curò insieme al marito, per Harcourt, Brace and Company, una History of American Poetry (1900-1940): vi spiccavano Robert Frost e Amy Lowell, H.D. e Ezra Pound, Edna St. Vincent Millay, Wallace Stevens, Robinson Jeffers e Allen Tate. Il libro – ancora oggi essenziale per la testimonianza arguta e ‘diretta’ – si chiude con un’esaltazione di Hart Crane. La Zaturenska, tra l’altro, preferì non citarsi; eppure, con Cold Morning Sky, la seconda raccolta, edita da Mcmillan nel 1937, aveva vinto il Pulitzer for Poetry. L’anno prima il premio era andato a Robert Frost, diversi anni dopo, nel 1952, lo avrebbe ricevuto Marianne Moore. L’evento fu un fulmine nell’esistenza della Zaturenska che, tuttavia, non mutò il suo ordine mentale: scrisse sempre, poco, ancorato alla disciplina del nascondimento. Nel 1955, con i Selected Poems, fu selezionata tra i libri più importanti per il National Book Award: il premio andò a Wallace Stevens; gareggiavano i poeti decisivi di quel decennio, e.e. cummings, William Carlos Williams, Robinson Jeffers, Archibald MacLeish. Il premio per il romanzo fu consegnato a William Faulkner.
Tra le consorelle nel gesto poetico, Marya Zaturenska riconobbe l’onnipresente Emily Dickinson, ma anche Christina Rossetti e Sara Teasdele: di queste ultime curò un’antologia di poesie scelte. Traduceva, sporadicamente, dall’italiano: ha reso in inglese Pietro Bembo, Michelangelo e Lorenzo de’ Medici, Torquato Tasso e Gaspara Stampa; pubblicò delle affascinanti Nine Variations on Themes from Petrarch. Probabilmente, sentiva di appartenere a un altro tempo.
Quando morì, il 19 gennaio del 1982, ottantenne, il “New York Times” si appoggiò al giudizio di Erica Jong, “È una gioia per me scoprire i grandi poeti della generazione che mi precede. Marya Zaturenska è uno di questi. L’ispirazione del suo lavoro è senza tempo”. Fece poco per farsi leggere. Per i cent’anni dalla sua nascita, la Syracuse University Press ha pubblicato i Diaries (a cura di Mary Beth Hinton) e una raccolta di New Selected Poems (a cura di Robert S. Phillips). Fu una sorta di scoperta. Un poeta nuovo, giunto da un’era diafana, come da sott’acqua.
***
Cielo mattutino, freddo
Mattina fresca, limpida come luce celestiale,
come l’amore nel cuore riluttante
che non vuole essere posseduto;
ogni volta le alberate laceranti e luminose
turbano il mio riposo.
Né tempesta né tormento, ora,
fluttua nell’aria dimentica, dura,
Aprile lordo di sangue: il mondo s’inchina
nell’appassionato scontento,
rapito, disperato.
Lavorio con flebile filo d’oro,
metallico, sottile come lo spettro di un pensiero,
questo rinnovato Eros china il capo che splende
su un libro prezioso, sfogliato di rado,
fiero di essere preda, protetto e ingenuo.
Nel retro del mattino, questo mattino infinito,
chiaro come una nuova gioia, respiro bloccato in gola,
il mistero prende sangue, il sole giunge giudice,
l’anima riposta nel fodero
spiega, sopporta, interpreta la benedizione
sempre viva, inattesa;
il fiore ha un nome, il bacio un numero
il battito è nel registro, riferito,
e nulla può essere più profanato.
Scintilla, dolceamara, fragile,
la campana, e l’incantesimo è scisso
nelle brevi pause dell’alba che si espande;
la pace gonfia gli occhi, ramifica i piedi
dissolve lo splendore: tutto è appagato, esatto.
*
La Vergine, la Cerva, il Lebbroso
Sono sempre lì:
la vergine spaventata presso la fontana che arde,
il lebbroso che ascende per la scala fatale,
la cerva bianca come il latte perduta tra i monti ferini.
Non li senti piangere?
Disperazione e vergogna, estremo senso
di sventura, che discende dall’innocenza,
reietti allo sguardo gentile della pietà.
Plano sull’ombra del loro dolore;
invoco i frontalieri del destino
angeli del tuono e della pioggia
fate in modo che pietà malata non mi corrompa.
La Terra li rinnega;
io respingo e supplico, la terra spinge, supplica:
“O miserabile, non orlare di macchie la mia veste
cela la silente ferita che sanguina”.
Ma non siamo perduti pure noi?
Naufraghi nel diluvio vivente del tempo?
Spesso, dal blu ingannevole del cielo
non piove altro che sangue.
Quando il rifugio ci è apparso prossimo e l’amore possibile,
quando si sono spalancate le palpebre d’oro dell’estate,
non abbiamo visto il verme assediare la rosa?
Non ci siamo accorti del volo delle lugubri sorelle?
Fatale e pallido, nello scempio delle passeggiate in giardino,
di chi era quell’urlo, improvviso? e quel gelo che brucia?
Cosa inchioda i nostri passi? cosa blocca i consigli?
quale ombra ci rincorre, scalcia, scarta, ovunque?
Marya Zaturenska