“Che anime tormentate siamo noi letterati”. Virginia Woolf e Rupert Brooke: un’amicizia straordinaria
Letterature
Pierluigi Piscopo
L’austero airone, divino nell’arte della sprezzatura, si mutò in una specie di corvo, dagli occhi piccoli, non privi di crudeltà, con un eccessivo piumaggio in gioielli. Le immagini di Edith Sitwell – che eccelleva nella posa, quasi che l’istante fosse un’ostia –, in età, rasentano il grottesco, sono straordinarie per insensatezza: in lei riluce un carisma che incenerisce; d’altronde era figlia di un baronetto, eletta col titolo di Dame, e in pubblico esordiva, “ho sempre avuto una grande affinità con la regina Elisabetta, siamo nato lo stesso giorno del mese, all’incirca alla stessa ora; da ragazza le assomigliavo molto”. Si credeva la monarca della poesia del XX secolo – un credo apocrifo, ma non del tutto errato –, dacché l’arte, in fondo, è una forma di tirannia.
Edith Sitwell amava farsi fotografare – il corpo è teatro ed è reato non adornarlo a festa, dando credito a una lamaseria di ombre – ed è stata il soggetto di diversi pittori. Nel quadro che raffigura The Sitwell Family, del 1900, John Singer Sargent la raffigura, tredicenne, di fianco al padre: è vestita di rosso, i capelli scarmigliati, lo sguardo rabbioso; dalla mano appoggiata sul fianco se ne deduce l’impazienza, un genio indocile. Ai piedi della madre, di spasmodica eleganza, i fratelli piccoli di Edith: Sacheverell e Osbert, entrambi scrittori, critici, devoti al bello. Più degli altri, Osbert amava il maniero di famiglia a Montegufoni, presso Firenze: è seppellito nel Cimitero degli Allori. Per sfizio, dal 1916, per un tot di anni, i fratelli Sitwell compilavano un’antologia, “Wheels”, con gli autori, a loro dire, più interessanti dell’epoca: pubblicarono Aldous Huxley, Wilfred Owen, Charles Orange, tra gli altri; e perfino Nancy Cunard, galvanizzata virago, ricchissima, che soffiò alla Sitwell l’amato – per davvero, per gioco? – Álvaro Guevara, artista cileno con un passato da pugile, cocainomane, violento.
Insondabile Edith Sitwell: nei quadri di Roger Fry – membro di spicco del Bloomsbury – appare eterea, con mani flessuose, collo da nobile uccello di lago, il naso che vale una baronia, un blasone; nelle fotografie – sempre articolatissime – è imbronciata o astratta, in fogge eccentriche, al limite del lecito, “è che sono più viva della maggior parte degli altri”, diceva. Una immagine la blocca sul divano, con uno dei suoi copricapi esotici, mentre sorride fissando Marilyn Monroe, entrata nel suo esclusivo entourage: “mi piaceva perché la maltrattavano, perché sembrava un fantasma triste”.
Il suo libro più noto, Façade, uscì un secolo fa, nel 1922: subito musicato da William Walton, fu un successo fin troppo eclatante. Edith Sitwell ha orecchio per il ritmo esasperato, per l’allusione e la metafora che sconcerta: le sue poesie trasfigurano i dati minimi della vita misera in un sovreccitato carnevale: è stata, in effetti, la sacerdotessa del modernismo. William Butler Yeats, nel suo Oxford Book of Modern Verse, la installa tra Ezra Pound e Thomas S. Eliot; Robert K. Martin ha scritto che “insieme al suo contemporaneo, Thomas S. Eliot, è una delle voci più importanti della poesia inglese del XX secolo”. In realtà, a parte la tardiva conversione – la Sitwell professò però fede cattolico-romana, con Evelyn Waugh a farle da ‘padrino’, nell’agosto del 1955 –, poco lega la poesia di “Dame Edith” a quella di Eliot: l’estro sapienziale, in lei, è sostituito dal delirio delle immagini, un tributo di specchi, dal lusso del patchwork e della clownerie, da un’ironia irata, da ritmi più lunatici e frenetici; non per caso, Edith amava l’opera di Dylan Thomas.
Restò, come è ovvio, sola, perduta in amori impossibili – per Siegfried Sassoon, ad esempio, il poeta, omosessuale –; spese tutte le sue risorse – non poche – nella poesia, a finanziare artisti malmessi e imprese artistiche rivoluzionarie e dunque irreplicabili, per il gusto; durante un tour negli States amava mostrarsi come Lady Macbeth. Al netto dell’esibizionismo, leggere la Sitwell, i suoi versi di esibita sagacia, di disinibita scontrosità, è un’esperienza. Introducendo The Canticle of the Rose (1950), Edith riassume la sua missione così:
“Quando ho cominciato a scrivere, era ormai necessario un mutamento di rotta nelle icone, nelle immagini e nei ritmi della poesia, a causa della musica flaccida, dell’inerzia verbale, delle forme vuote, moriture, consuete di troppa lirica che andava per la maggiore”.
In Italia – landa inadatta all’inconsueto – la Sitwell non ha sito: molti anni fa Bompiani ha pubblicato un romanzo, Sotto il sole nero (1954), che narra la vita di Jonathan Swift; Longanesi ha stampato la biografia della Regina Vittoria (1949); Rizzoli l’Autobiografia (1968) riproposta da SE come Una vita protetta (1989) nella traduzione d’autore di Margherita Guidacci; soltanto Guanda, quando era Guanda – cioè, quando era sotto tutela dei poeti e non dei mercanti – ha scommesso sulla sua poesia, con l’edizione del Il Cantico della Rosa, era il 1970. Oggi Edith Sitwell è pressoché scomparsa dal consesso editoriale. Ne sarebbe felice. Una certa schifiltosità è una dote quando l’oggi è questa palude dominata dai famelici, si addice ai saggi. La Sitwell, arcano airone, è trasvolata altrove: certe cose non ti vengono a trovare sul tetto di casa, devi cercarle.
***
Elegia per Dylan Thomas
Venere Nera della Morte, quale Sole di Mezzanotte
giace, raddoppiato, tra le tue braccia, ebbro di gelo?
Oh, cuore, immenso Sole delle Oscurità, tu scintilli
per lei, solitario tra turbe
di uomini avidi di fede, che a lei
tributano inchini dopo lunghi vagabondaggi –
gigantessa nera calma come una palma, vasta
come l’Africa! Alla sua ombra egli giace
eterno, per sempre infedele.
*
Il ventaglio
Amata Semiramide
serra gli occhi obliqui:
è morta da tempo.
Dal suo ventaglio gorgheggiano
piume di pappagallo, di fuoco,
penne iridescenti, stridule come l’erba
appena strappata, mentre passi
tra i verdi declivi dell’Inferno
frutti dall’odore armonico,
uva come pioggia smeraldina
dove la luna è ancora grassa
meloni freddi, di vetro,
accatastati sulle cabine dorate
dalle guance lisce.
Scimmie dai cappelli piumati
dove sibila il calore, luminoso –
volti sornioni di guerrieri di Nubia
bocca annodata, occhio sinistro
ascolti l’Arabo
mentre fluttua il ventaglio.
*
Quando il freddo dicembre…
Quando il freddo dicembre
congela in grigio
le campane tintinnano sui dolci roseti –
Svanisce all’improvviso
ed è pelosa la neve
come il guscio della mandorla –
profuma di muschio.
L’amigdalina della neve
sotto la gelatina dove
brillano stelle irsute
simili a porcospini dorati –
La neve confessa
le piccole principesse
su troni di sughero
balla sotto le gonne.
Registri la casistica
di occhi che svolazzano obliqui –
Esatta come lo zodiaco
(Erodiade che danza)
soltanto la neve striscia
come mirra dorata –
si nasconde tra i rami di rosa
e le radici, intanto, si stirano.
*
Ancora cadono le piogge
Ancora cadono la piogge –
oscure come il mondo dell’uomo, nere come la nostra perdita –
cieche come i millenovecentoquaranta chiodi
sulla Croce.
Ancora cadono le piogge
come pulsa il cuore che si forgia in battito di martello
nel campo del becchino, suono di passi empi
sulla tomba:
ancora cadono le piogge
nel Campo del Sangue dove si generano brevi speranze
e cervello d’uomo ciba la propria avidità – verme con la fronte di Caino.
Ancora cadono le piogge –
e precipita il sangue dalla ferita dell’Affamato
porta nel Suo Cuore ogni dolore – quello della luce che muore
esimia esile scintilla
nel corpo mutilato, la ferita del dolore incomprensibile, crudo,
la ferita dell’orso ingannato
che piange sotto assedio dei custodi
franta carne indifesa… lacrime di lepre in fuga.
Ancora cadono le piogge –
eccole – le balze di Dio: qualcuno scollina su di me –
guarda, guarda il sangue di Cristo che striscia lungo il firmamento
fluttua sul Cranio che abbiamo inchiodato all’albero
sprofonda nel morente, nel cuore che arde di sete
tiene i fuochi del mondo – annerito dall’affanno
come la corona d’allora di un Cesare.
Risuona la voce di Colui che ama l’uomo:
c’era una volta un bimbo che giaceva con le bestie…
“Di continuo, amo, dissemino la luce innocente, il Sangue, per te”.
*
Alla fiera
I. Jack il Molleggiato
Le foglie verdi, di legno, applaudono
dotate di senso pratico, gravi,
riparano i bimbi caramellati,
le candele tremano, si afflosciano…
la faccia dell’imbonitore è vera come un dado
forme riflesse in un bicchiere
d’acqua (glu, glu armeggia verbi il fantasma
evocando uno spiraglio tra uno e l’altro).
L’imbonitore s’impegna, è esigente,
deve incapsulare una perla di polvere
nell’universo, per paura che guadagni
la propria libertà dal mio antro cervellotico.
Ma la polvere spruzza semi che crescono in grazia
dietro il mio volto intagliato nel legno, pieno di schegge
come me, un burattino rosa salta
sulle mie sorgenti, impara a pensare –
come il fragile stelo d’oro di qualche
stella dai lunghi petali, cammino
nei cieli oscuri – rugiada buca
i miei occhi, ne sento i brividi.
II. La Scimmia guarda Zia Sally
Le mele sono carne d’angelo
le foglie nere brillano dolcificando
il succo; frutti sempreverdi
tra i fiori bianchi come il giorno –
(Faccia d’angelo in corpo peloso:
anima arroccata sulla carne, la giovane scimmia filosofeggia!)
Su questo suolo incantevole e volitivo
la Fiera gira, come il mondo,
gli ignobili gettano monete nel capannone
sulla testa striata di zia Sally –
Dovrebbero gettare il sole
la rotondità della luna per rendermi
brillante come una moneta d’oro…
non possono allontanare la loro ombra oscura da qui!
Edith Sitwell