“Ti cerco dietro il buio degli occhi”. Il mistero del padre: una lettera a Silvio Perrella
Poesia
Vincenzo Gambardella
Con tutta quella morte in giro
nessuno moriva, era senza
patemi o rischi l’assistenza
al disertore sotto tiro
– eh sì, solo a fine emergenza
si contabilizza l’orrore
se a me è venuto con l’assenza
della tua assenza il maldicuore.
Giovanni Raboni
da Versi guerrieri e amorosi, Einaudi, 1990
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La poesia di Raboni è il contrario di una poesia composta per illuminazioni. E non è un caso che le sue liriche non donino mai, o quasi, versi particolarmente memorabili, nel senso che possano essere ricordati. Piuttosto il suo particolare modo di scrivere versi, anche quando più enigmatica si fa la sintassi, è sempre quello del racconto. Un racconto però che non segue un andamento prosastico, quanto invece si risolve – e in certi casi si attorciglia – per ragionamenti o complicazioni cerebrali. Ragionamenti che però rifuggono l’astrazione, si concentrano invece su oggetti reali. Oggetti reali che possono ovviamente essere non solo cose, ma pure situazioni, episodi, amori, stati emotivi. Si potrebbe dire anche che al fondo Raboni abbia ragionato sempre su alcuni temi che lo ossessionavano, lì dove la mente veniva attratta come da una calamita. Forse, il vero grande tema di Raboni, come credeva Piergiorgio Bellocchio già nel 1975, quando di antologie poetiche Raboni ne aveva pubblicate solamente due, è davvero la morte. Ma non tanto, o non solo, una morte con cui fare i conti, ma quella che nel ragionamento sembra che si abiti. In un sonetto contenuto in una raccolta del 1993, Ogni terzo pensiero, forse la sua più alta prova poetica, si legge: «Preghiere per i morti – tutta qui/ la mia fede? So solo che ogni sera,/ così rispondo, aguzzo la mia povera/ vista nel buio per scoprire chi// più m’aspetta». Sono versi che funzionano come sineddoche. In essi mi sembra contenuto il cuore di tutto il discorso poetico di Raboni. E lo capiamo da quella prima asserzione, «Preghiera per i morti», una proposizione semplice che sembra voglia bastare a se stessa. Perché di fatto quella preghiera non è soltanto una invocazione, ma la possibilità, con quei morti, di abitarci. Infatti continua: «per scoprire chi// più m’aspetta». Quella coabitazione con i morti – una coabitazione che vive in quel futuro anteriore che è lo spazio della memoria, una coabitazione molto simile a quella applicata da Proust nella Ricerca del tempo perduto (che Raboni ha tradotto per intero) –, morti che sono poi i propri cari, capovolge la prospettiva di tutta la poesia di Raboni; una poesia dunque funebre, ma in cui la vita non smette mai d’essere. Anche in Versi guerrieri e amorosi, che precede di qualche anno Ogni terzo pensiero, nonostante sia collocabile in un contesto di ricordo della vita durante la Seconda Guerra Mondiale (che Raboni ha vissuto da ragazzino – lui nato nel ’32), andrebbe visto tutto in quella luce che Raboni vuole fare sulla propria memoria. Una memoria non solo soggettiva ma pure collettiva; collettività che va intesa come coabitazione e comunione di vivi e di morti, che poi vuol dire di vita nella morte e di morte nella vita. Ma Raboni sa che quella coabitazione, quella comunione per mezzo della memoria è possibile non già per illuminazione, come poteva essere il meccanismo della madeleine in Proust, ma attraverso una lingua che segua il dettato di un ragionamento capace di assoggettarsi a quella preghiera in cui non siamo più, perché già dentro a uno spazio d’oblio che non cancella nulla, ma al contrario tutto eternamente conserva.
Andrea Caterini
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La prosa critica di Raboni era di una lucidità micidiale. In ogni sua critica era evidente una straordinaria capacità di cogliere i meccanismi e le sfumature più nascoste delle opere che analizzava. Era lucidissimo, ecco; e lo era anche quando non riusciva a nascondere idiosincrasie o antipatie, perché giocava sempre a carte scoperte. Anche nella sua poesia – soprattutto quella antecedente alle prove metricamente più raffinate e ambiziose – emerge sempre questo dato di lucidità e di chiarezza del dettato: chiari i sentimenti, chiare le immagini, chiara la traiettoria ritmica. La cosiddetta “linea lombarda” si caratterizzò – ma non so se è corretto parlarne al passato, viste le opere ancora in progress di poeti come Cucchi, Neri, Santagostini, ecc. – sicuramente per un dettato piano, cronachistico, colloquiale; tuttavia credo che la sua vera sostanza fosse la razionalità, la lucidità di sguardo, il rifiuto di qualsiasi forma di romanticismo o di irrazionalismo decadente. La “linea lombarda”, insomma, si configurò come un crepuscolarismo illuminista – verrebbe da dire che anche la sua proverbiale malinconia ha sempre qualcosa di ragionevole. La lucidità di Raboni è tutta milanese – alla sua città ha dedicato versi stupendi, di straordinaria intensità sentimentale. È evidente che il nocciolo duro dell’ispirazione di Raboni – anche quella politica e civile – sia tutto nella Milano della guerra e del dopoguerra; nella Milano ferita dalla guerra, nella Milano antifascista, nella Milano delle periferie operaie, nella Milano delle grandi istituzioni culturali come il Teatro alla Scala o il “Corriere della sera”. Una Milano civile, colta, razionale, operosa, ma anche malinconica, nostalgica, popolare – Carlo Porta è stato assimilato dai poeti milanesi più di quanto lo sia stato Giuseppe Gioacchino Belli dai poeti romani. In questa poesia ci sono alcuni versi tra i più belli della poesia italiana del secondo Novecento: «Con tutta quella morte in giro / nessuno moriva»; «se a me è venuto con l’assenza / della tua assenza il maldicuore». Siamo nel pieno della guerra. Un ragazzo vive, nel pieno della presenza della morte, il suo apprendistato alla vita – Raboni avrà avuto dodici, forse tredici anni. Ovunque macerie, povertà, ricoveri, bombe. Eppure, con tutta quella morte nell’aria, nessuno moriva – nessuno moriva, s’intende, per chi era come anestetizzato dall’istinto e dal dovere di sopravvivere, di farcela, di salvare la pelle e la propria città. Non c’era tempo di vedere la morte, perché solo a «fine emergenza / si contabilizza l’orrore». È possibile anche una lettura ulteriore. La poesia è sì una disamina sul dolore a sangue freddo, che viene solo con l’assenza di un assenza, ovvero con una distanza estrema. Ma è anche un autoritratto etico sul dovere e la potenza della resistenza – un autoritratto “senza patemi” della primavera esistenziale di Raboni e di Milano. La conta degli orrori si fa sempre alla fine, certo; ma lì, nell’inferno, conta solo la “luce bianca” – di cui parla proprio nei Versi guerrieri e amorosi. Una luce che nel ricordo emerge con struggente e sospesa nostalgia, ma che nel “presente” è immagine morale di quella che potrei definire la ragione della speranza.
Andrea Di Consoli