25 Giugno 2022

“È tempo di cambiare le parole, di spegnere la lanterna”. Marina Cvetaeva contro il regime sovietico

«Io sono la scrittrice Marina Ivanovna Cvetaeva». Comincia così la lettera che la poetessa russa spedisce al «compagno Berija» il 23 dicembre 1939. Lavrentij Pavlovič Berija, principale collaboratore di Stalin nelle grandi purghe di regime, in quel momento era Commissario del Popolo per gli Affari Interni, capo dell’NKVD, il ministero responsabile della sicurezza dello Stato e delle forze di polizia: onnipotente, in anni in cui l’arbitrio è totale.

Marina firma la lettera dalla Casa per le vacanze degli scrittori di Golicyno, una denominazione che sembra indicare una situazione di privilegio corporativo mentre in realtà è un rifugio della disperazione, perché dopo l’arresto del marito Sergej Efron e della figlia Ariadna lei è rimasta sola col figlio piccolo, Mur, non ha alcun mezzo di sostentamento, vive grazie alle traduzioni che le procura in subappalto qualche amico scrittore.

Questa lettera arriva dunque al potere sovietico direttamente dall’abisso, nel periodo più buio della storia dell’URSS, nel tentativo estremo di salvare due vite da un errore, magari una delazione, forse un equivoco, certamente un sopruso. Sarà tutto inutile: Ariadna, Alja, resterà imprigionata nel gulag per quasi diciotto anni, suo padre Sergej sarà fucilato il 16 ottobre 1941, due anni dopo la lettera a Berija. C’è tempo e spazio, ancora, per scendere l’ultimo gradino che nell’abisso porta al fondo più oscuro: quella domenica di fine agosto 1941 quando Marina si impicca in casa al gancio del soffitto che aveva individuato già da tempo, cercandolo con gli occhi:

«Da un anno misuro la morte. Non voglio morire, voglio non essere».

Solo la fede di una poetessa nella parola poteva rompere il muro di paura di quegli anni, sfidare la logica implacabile del potere, tentare l’impossibile spingendosi fino alle soglie di Stalin, per attirare l’attenzione del Cremlino e implorare la benevolenza dell’uomo del grande terrore. Ma non è la scrittrice e la poetessa che chiede grazia e soprattutto giustizia: è una testimone di vita, una donna, che raccoglie nel suo messaggio l’inermità indifesa dell’epoca, la devastazione delle famiglie russe davanti agli arresti e alle fucilazioni sovietiche, la miseria che si trascina giorno per giorno fino all’appuntamento con la tragedia fatta destino, individuale e collettivo.

Prima, la guerra civile che la separa dal marito, ufficiale dell’esercito “bianco”, la carestia con la figlia Irina che muore in orfanotrofio, denutrita, l’emigrazione a Praga, quindi a Parigi, e dopo diciassette anni il ritorno a Mosca, per il totale isolamento nel mondo russo dei fuorusciti, per il desiderio di dare una patria al figlio, ma soprattutto per il bisogno di ritrovare le radici «e lavorare a casa mia». È un esilio attraversato da grandissimi amori, tutti sospesi, più rinviati che vissuti, sognati e custoditi, dunque ancora incandescenti: Boris Pasternak («terribilmente affine»), Rainer Maria Rilke («ci sfioriamo, con le ali»), Arsenij Tarkovskij, Evgenij Tager, conosciuto proprio nella Casa per vacanze degli scrittori, mentre le poesie provano a fermare i sentimenti di Marina quasi urlando: «Basta! Per questo fuoco / sei vecchia». Proprio lei che da ragazza aveva giurato a un coetaneo che non sarebbe invecchiata mai. Fino agli Ultimi versi, dove annuncerà che «L’oro dei miei capelli / si sta facendo bianco a poco a poco. / Non piangetelo, tutto è già avvenuto, / tutto si è già composto dentro il mio cuore».

Colpa naturalmente di Aleksandr Sergeevič Puškin, che con l’Eugenio Onegin condanna per sempre Marina «alla passione per l’amore infelice, impossibile. Da quel preciso istante non ho voluto essere felice – spiega – e con questo mi sono condannata al nonamore». Come vedere l’amore da una finestra, soffrire guardandolo per descriverlo, più che vivendolo. Vita e passione si ricongiungono nel sentimento sacro della famiglia, il marito ritrovato in Russia malato di tubercolosi, l’arresto senza spiegazioni, gli amici di un tempo che si allontanano proprio quando la polizia si avvicina, la solitudine e l’indigenza che portano al precipizio, quando Marina vuole lavare e rammendare «fin dal mattino» per impedire a se stessa di scrivere e tormentarsi, quando deve elemosinare il cibo dai vicini a Elabuga, quando scrive al Soviet del Fondo letterario l’ultimo messaggio, chiedendo un posto da sguattera nella mensa che sta per riaprire. È questa la vera vecchiaia, l’ultimo passo, dove matura la rinuncia suprema, insieme con la denuncia di Evgenij Evtušenko: «Sappiate che esistono solo omicidi. / Al mondo nessuno si è mai suicidato».

In questa angoscia di destino, la purezza disarmata della lettera che tenta di salvare la vita a Sergej Efron è l’esercizio di un dovere, qualcosa a cui Marina non può rinunciare. Ed è il suo gesto civile, la sua pretesa da cittadina, l’unico atto civico di chi è schiacciato ma chiede al potere di ascoltarlo comunque nell’ultima interpellanza, quella che ha in gioco la sopravvivenza. Il testo, ritrovato qualche anno fa da due studiosi russi, era nel fascicolo giudiziario che istruì il processo a Efron: in Russia molto spesso bisogna cercare nelle carte delle condanne a morte i segreti della vita dei cittadini investiti dal turbine del bolscevismo. Qui è Marina, madre, moglie, intellettuale e poetessa, che rilegge la vicenda umana del marito, lo scusa e lo protegge, lo accompagna e lo difende, garantisce per lui col carnefice:

«Ho vissuto con lui trent’anni della mia vita e non ho mai incontrato una persona migliore».

Anche se la poetessa probabilmente sa che il suo tentativo è disperato, al punto che morirà prima dell’uomo a cui cerca di salvare la vita. Sola, spossessata di ogni cosa, con il messaggio a Berija Marina Cvetaeva si reimmerge nella Russia. Perché a ben vedere la sua non è una lettera, bensì una supplica, nella miglior tradizione del Paese. Era una “mol’ba”, una supplica, quella che i contadini rivolgevano al Gran Principe della Rus’, quando con il disgelo scendeva lungo il Dnepr a riscuotere le decime. Com’è una supplica e non una protesta quella che nella domenica di sangue del gennaio 1905 spinge migliaia di operai con le sacre icone e i ritratti dello Zar davanti al Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo, per denunciare le difficili condizioni in cui vive il popolo, chiedendo protezione. Le truppe sparano sulla folla, in un massacro dai mille morti, dopo che il pope Gapon aveva garantito ai fedeli che batjuška Nikolaj – lo Zar che è come un padre – li attendeva, e lo aveva invocato con la formula di rito: «Sovrano, sei conforme alle leggi divine?».

La supplica rivela la persistenza dell’anima primitiva della Russia, nell’immensità della quale lo Zar e i sudditi possono cercarsi, trovarsi e parlarsi, in un rapporto a tu per tu, di interlocuzione personale. In fondo, anche Bulgakov, perseguitato dalla censura, aveva scritto a Stalin chiedendo di poter lavorare, e il dittatore gli aveva telefonato, concedendogli un posto da viceregista; e lo stesso Stalin aveva chiamato al telefono Boris Pasternak, che voleva parlare con lui della vita e della morte. Ed è russa anche la discrezionalità assoluta del potere, che passa intatta dalla corte zarista al Politbjuro del PCUS, e che rende plausibile la richiesta impossibile di una grazia al Terrore, o almeno di un’eccezione. Anche se di fronte ad altre richieste di clemenza si era già incaricato di rispondere Feliks Dzeržinskij, il Capo della Polizia segreta, la Čeka: «Perché mai dovremmo giustiziare gli altri, e salvare un poeta?».

Quella di Marina è anche una lettera alla Rivoluzione, in una città come Mosca dove qualche anno prima si poteva chiamare Lenin al telefono nell’appartamento della sorella in via Sirokaja, dove dormiva, componendo il numero 24-643. Marina aveva visto l’Ottobre da Mosca, come Pasternak che sentiva il suono delle granate sull’Arbat, il sibilo delle pallottole come api nel cortile, l’incedere sordo di un carrarmato; anche Zinaida Gippius alzava un lembo della tendina a Pietroburgo per guardare dalla finestra il lampo del Febbraio davanti a Palazzo Tauride, sede della Duma:

«Non posso cambiare nulla, ho solo la consapevolezza che accadrà. Come se guardassimo nell’acqua torbida, non sappiamo a quale distanza ci troviamo dal crollo».

L’universale della rivoluzione mondiale, anticipata sui ponti della Neva, si incontra con il particolare della vicenda umana della poetessa, che sempre più porta nei suoi versi spezzati la disperazione della fine, con la stessa «asma spirituale» che segna gli ultimi gesti di Aleksandr Blok:

«Tutti i suoni sono cessati. Soffoco, anche la quiete ci viene tolta. E il poeta muore perché non ha più nulla da respirare, la vita ha perso significato».

Come il Requiem di Anna Achmatova che brucia pochi versi per volta – dopo che gli amici li hanno letti su un foglietto in silenzio – e finisce in cenere in un vaso di peltro. Compiuto il dovere della supplica civile, anche Marina Cvetaeva ora può avviarsi:

«È tempo di togliersi l’ambra,
è tempo di cambiare le parole,
è tempo di spegnere la lanterna
sul portone».

*Si pubblica per gentile concessione l’introduzione di Ezio Mauro a: Marina Cvetaeva, “Nemico pubblico. Lettera a Berija”, De Piante, 2022

**In copertina: Lavrentij Pavlovič Berija culla Svetlana Allilueva, la figlia di Stalin, che si intravede sullo sfondo

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