Per i suoi ottant’anni Mario Guaraldi ha regalato ai convenuti uno dei libri più belli del suo catalogo. S’intitola Cent’anni di danza e onora, appunto, i 100 anni di “Kazuo Ohno. Icona del Butoh”. Era il 2007; il maestro aveva compiuto un secolo l’anno prima, è morto nel 2010. Il libro riassume il genio di Kazuo Ohno attraverso una raccolta di poster, spesso indimenticabili – quello del Wiener Fest del 1987 raffigura l’artista con un fiore, allo stesso tempo sembra ritagliato nella carta e partorito dalla pietra, inossidabile e fragilissimo, puro niente e puro tutto, spirito e lebbra. Il libro è curato da Marie Perchiazzi, che rievoca “l’epifania di Kazuo Ohno, la sua manifestazione” sulla “scena europea, alla veneranda età di 73 anni”, nel 1980, al Festival di Nancy; mentre è Eugenia Casini Ripa a tratteggiare, su vetro, un ritratto di Kazuo Ohno, piuttosto suggestivo: “Il piccolo corpo tormentato di vecchia bambola denudata, sopravvissuta a stento alle angherie di qualche generazione di bambini crudeli, il fragile, stanco e tragico Pierrot infarinato dimenticato nella cesta del burattinaio prende vita a fatica, dolorosamente. Una fiammella invisibile comincia a riscaldare e ad animare dall’interno la carne spenta, si espande e la muove suo malgrado, impone alle braccia di alzarsi, alle ginocchia di piegarsi, alla bocca di aprirsi”.
Il papà di Kazuo Ohno era a capo di una cooperativa di pescatori, conosceva il russo, navigava intorno alla Kamčatka, dove dominano l’orso, la lince e la volpe polare; la mamma suonava per diletto la cetra giapponese a tredici corde, ripetendo leggende di antichi spettri ai figli. Di Kazuo Ohno sorprende la disciplina del corpo, agile come acqua, stupefacente: da ragazzo eccelleva nell’atletica, insegnava educazione fisica in una scuola cristiana. Arruolato nel 1938, fu preso prigioniero, durante la guerra, in Nuova Guinea. In uno dei suoi primi spettacoli, simula il movimento delle meduse, che brillavano fosforescenti intorno ai cadaveri dei giustiziati, nell’Oceano Pacifico. Esordì tardi alla danza, nel ’49, a 43 anni – quando la sua via, quella del Butoh, la danza della grande tenebra, era quasi del tutto perfezionata.
Che cosa inscena Kazuo Ohno? È noto che fu illuminato alla danza ammirando la grande ballerina Antonia Mercé, a cui dedicherà uno degli spettacoli più noti, Admiring La Argentina; aveva lavorato su testi di Yukio Mishima e Jean Genet, la potenza di alcune scene – My Mother, ad esempio – rievoca la mitologia giapponese, l’evanescente spirale degli yūrei, anime legate all’aldiquà, rette dal rancore, eleganti per pericolosità, bisognose di lagne, di magioni di pianto. Bisogna ammirarlo Kazuo Ohno – basta manovrare YouTube – per capire la priorità del corpo – e dunque, dell’ascesi – che viene scombinato, sconvolto, sconfitto, all’altro lato del rito scenico e sciamanico: pura evocazione, implorazione, urlo.
Cosa inscena Kazuo Ohno? Il profondo, il magistero delle ombre, il rimosso, l’irremovibile? Oh, i concetti, finalmente, non hanno gancio: la danza va subita, e dunque condivisa. Certo, chi c’impone l’acido del ‘trasgressivo’, della generica smobilitazione dei generi, fa sorridere: Kazuo Ohno è uomo e donna e altro, è corpo e brillio, è sussurro, bestia, orazione, è zero e uno e legione, è creatura e demone, pura luce, puro suono, candela. Spericolato, uno spergiuro di bianco, carne nebulosa, nuvola di nervi, nuoto nell’amnio del primo balbettio, capelli avvelenati… Chi può rendere fiamma un corpo di carne? “Ciò che chiamo il meraviglioso, è un’apparenza priva di forma. Nell’assenza di forma, infatti, risiede il meraviglioso. Se si trovasse, per caso, un attore che possedesse quel meraviglioso, costui sarebbe il sublime personificato”, scrive Motokiyo Zeami nel Segreto del teatro Nō. Secondo il maestro, “indipendentemente dalla tecnica della vostra interpretazione, innalzandovi fino al grado della non-conoscenza e dello stile assoluto, l’effetto che produrrete sullo spettatore sarà abbastanza prossimo al meraviglioso”. L’innato va estratto per frizione di disciplina, l’arte è una via, dedizione suprema che prescinde dai risultati, iniqui rispetto alla pratica. Così, Kazuo Ohno, personificazione del meraviglioso, entra nei nostri sguardi come qualcosa che era previsto da sempre, come il più intimo sogno, il segno sul lato d’assedio dei polmoni, la vertebra del dio perduto. Non dipendere da altro che dall’ispirazione, dall’ultimo respiro – che altro?
Kazuo Ohno è pressoché scomparso dal dibattito, dal pensare l’arte come via, come vita, viatico di eversione, di emersioni. Probabilmente non fa audience, neppure tra chi si beve avanguardismi alla moda dai biberon dei teatri civici. Non è difficile capire il perché: Kazuo Ohno sovrasta, il suo viso è un buco bianco, un incubo, ti perfora fino alla decima generazione; quel corpo scarnificato, scandito di solchi, ha l’avvenenza dell’albero, ti si avvinghia, tentacolare, fino alle ultime radici dell’indicibile. Inscena ciò che non ha scena, lo scempio, Kazuo Ohno; qualcosa di incontenibile, l’orda.
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“Prima di impegnarsi in una tecnica, occorre considerare la questione della mente, dello spirito, della vita. Quando si crea una coreografia, ad esempio, se ci si focalizza unicamente sulla tecnica applicata alla danza, il punto cruciale e radicale del processo svanisce, finisce in second’ordine. Se la tecnica viene prima della danza, beh, perché mai dovremmo danzare? Non dipendiamo dalle tecniche per vivere. Per quel che mi riguarda, ho capito che più si impiega una tecnica, più la si abbraccia, più si sconfigge ciò che è cruciale. Non ho bisogno di una tecnica per capire la vita dopo la morte. Cerco dunque di ignorare tecniche e strutture per concentrami sullo spirituale. Questo è ciò che cerco di verificare con la mia danza.
Cosa si può insegnare? Di certo, non l’arte, è impossibile. Contrariamente a ciò che si crede, l’arte non si può insegnare. Credo che l’opera sorga naturalmente dall’essere umano come l’essere umano è partorito da un altro essere umano. Penso di aver compreso la danza danzando. La via che percorro è stata appresa naturalmente, danzando. Ho ballato la Vita, e la Vita mi è stata maestra. Dunque, continuo a inseguire, danzando, la Vita.
Per vivere, benché radicati al suolo, bisogna avere vita. Non basta camminare… bisogna avere la vita, vita che sgorga da te, che è intorno a te!”.
Kazuo Ohno