L’inevitabile “esplosione” di Alejandra Pizarnik. La Pizarnik, intendo, è come un corpo di cristallo: leggerla fa sanguinare le mani. Comunque la afferri, si frantuma e ti taglia – e ogni soccorso ha destino impari, impossibile. Anche in Argentina, suo paese d’esilio – resta la fugace figlia di ebrei russi immigrati nel continente oceanico – è recente la riscoperta totale della Pizarnik, con la pubblicazione dei diari, delle lettere, il ‘fondo’ alla Biblioteca Nacional, creato nel 2018. In Italia, la sua poesia si legge grazie a Crocetti (“La figlia dell’insonnia”, 2015) mentre la “Poesia completa” è edita da Lietocolle (2018). Poetessa che scardina sensi, forme, odori del linguaggio, la Pizarnik è diventata un simbolo di ribellione ‘sociale’. In un articolo pubblicato sul “Clarin”, lo scorso settembre – firmato da Felipe Pigna – si mettevano in evidenza, fin nel sottotitolo, gli aspetta extra-poetici della Pizarnik: “Già nel 1956 era una ragazza anticonvenzionale: teneva i capelli corti, si vestiva da maschio, sembrava androgina e la sua vita sessuale era intensa”. Dalla sua poesia, di cui occorre ricordare l’intensità del soffrire – si ammazza, Alejandra, nel 1972 – si risale alla rivolta ‘dei costumi’. Più interessante quanto scrive Andrea Franzoni introducendo l’edizione italiana dell’epistolario della poetessa, “L’altra voce. Lettere 1955-1972” (Giometti & Antonello, 2019; a cura di A. Franzoni e F. Orecchini), che parla di “una totale coincidenza e sovrapposizione, non già tra arte e vita, ma tra vita poetica e morte biologica”. La Pizarnik attraversa il secolo come un’anima in esilio, che si configge alla carne del mondo con i verbi, a uncino e sbalestrati. Le personalità che sono entrate in contatto con lei, nel gorgo del suo labirinto, da Julio Cortázar a Cristina Campo, da Octavio Paz a Yves Bonnefoy (che traduce), ne sono segnati. La radicalità predatoria della sua scrittura appare nei brani che riproduco, tratti dal libro edito da Giometti & Antonello. La Pizarnik ci si avventa addosso.
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A Rubén Vela
Il vino non ha voluto vedere. È entrato in me, mi ha preso deserta e tremante e ha colmato di cecità il mio sguardo. Il vino non ha voluto vedere, non ha voluto capire la semplice storia di una ragazza innamorata – da tre anni ormai. Ed eccomi cieca e muta per dire al mio amato… È la disfatta assoluta. Sì. E la soluzione è l’impensabile. Ed è una sola. Mi hanno regalato una vita, una vita soltanto: e devo distruggerla… io stessa. Il processo di distruzione avviene in momenti precisi, unici, insostituibili. E ad ognuno di essi io, per terminare la cerimonia, devo dire: una volta, una volta soltanto! No. Il vino non ha voluto vedere. È strano quanta paura riesca a portarsi dentro una singola persona. Se non era per la paura, non avrei bevuto. È come se avessi perso la nave che mi avrebbe portato all’isola felice, dove c’era una – una, una soltanto – possibilità di vivere. Come se tutta l’aria, piena di coltelli rabbiosi, avesse formato un muro massiccio, per impedirmi di vedere colui che amo. Come rassegnarmi ora, come posso tornare a quest’angoscia, a questo vivere orrendo, se so di aver avuto una possibilità, per me, e non l’ho colta? Come impedirmi di graffiarmi, di accoltellarmi, di erompere in orride grida? Oh se una voce, se soltanto vi fosse una voce per dirmi che non è vero, che ci saranno altre occasioni, altre opportunità, se solo una voce mi dicesse che non è finito per me il tempo dei sorrisi, il tempo dei sogni. Ma non c’è consolazione, né soluzione possibile. Forse un fiore nell’aria o un uccello nel mio seno annunceranno una poesia. Ma di soluzioni, di possibilità per vivere, non si potrà più parlare: l’orizzonte si è suicidato. Dolore. Dolore d’essere. Dolore d’amare e non essere amata. Dolore della notte che mi accarezza i capelli. Dolore del mare quando le onde si levano troppo tardi. Dolore che la vita passi senza fermarsi alla mia porta. Dolore di parlare e che le mie parole rimangano attaccate alla coda d’un vento che le disperderà in luoghi senza memoria. Dolore d’essere e non avere la vocazione per essere. Dolore di portare dentro così tanto amore e non poterlo lasciare in nessun luogo, perché nessuno vuole riceverlo. Dolore nel cielo e nella terra. Io, figlia prediletta del dolore. Duole essere, vivere, duole piangere o ridere, punire e punirsi, duole guardare un fiore, duole che il sole ti guardi. Purificarmi per guardare i suoi occhi e dirgli le uniche parole per le quali vivo. Ingiurie i canti. Coltelli le speranze. Un respiro che soffoca. E una grande voglia di piangere fino al giudizio finale. Signore, che ne sai tu delle sensazioni di perdita irreparabile? Una volta, una volta soltanto. È la fine. Amare, morire per qualcuno, amare fino ad annientarsi. Solo la solitudine, in questa stanza soffocante, a battere le mani. Chi tra di noi non ha un piccolo amore? Chi non tiene per mano qualcuno e lo guarda con desiderio? Io, soltanto io. Non c’è scelta. Non c’è speranza. Così va la vita. Un pianto smisurato. Una brutale sinfonia di frustrazioni.
Alejandra Pizarnik (15 dicembre 1957)
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A Ivonne Bordelois
24 febbraio – 1963 Nel mio caso le parole sono cose e le cose sono parole. Poiché non possiedo cose, o meglio, mi è impossibile conferire loro una realtà, le nomino, e credo nel loro nome (il nome diviene reale e la cosa nominata sfuma, diventa il fantasma del nome). Ora so perché sogno di scrivere poesie-oggetto. È la mia sete di realtà, il mio sogno di una specie di materialismo all’interno del sogno. (Ti ripeto che al tempo del libro non avevo coscienza di questo).
22 febbraio Parole. È tutto ciò che mi hanno dato. La mia eredità. La mia condanna. Chiedere che la revochino. Come chiederlo? Con le parole. Le parole sono la mia assenza particolare. Come la famosa «propria morte» c’è in me un’assenza autonoma fatta di linguaggio. Non capisco il linguaggio, ed è l’unica cosa che possiedo. È come avere una malattia o esserne posseduta senza che da ciò derivi alcun incontro, perché l’ammalata lotta per conto proprio – da sola – con la malattia, che fa lo stesso… … Questo silenzio delle parole è l’orrore, è la vertigine allo stato puro.
8 gennaio Pericoloso momento quando il poeta smette di dire io per indicare le cose esclusivamente. Transizione tremenda: ne La Lucarne ovale Reverdy dice io e si lamenta, protesta, ironizza. E adesso parla di lampade spente e persiane chiuse. In verità, dire io è un atto di fede. Niente di più desolante di una poesia che indica le cose per ciò che esse hanno di muto, di inerte. La poesia si converte allora in un gioco, alla ricerca di parole belle che non significano nulla (penso a Góngora). Quando il poeta non enuncia sé stesso né si innalza per celebrare o maledire, appare il silenzio della pura disperazione, dell’attesa senza fine. E tuttavia è ancora canto, è voce, è dire invece di non dire. È ancora una prova di fede. L’ultima. Lettera di C.C.: «La vita si ritrae a volte come un’onda; e bisogna resistere alla cattiva ispirazione di collezionare conchiglie… questa fuga disperata verso ‘quello che non volete dire’ è una fuga al rovescio, come quelle fughe d’amore che in realtà sono delle caccie. In principio tutto questo è assurdo, perché la poesia come l’amore cominciano soltanto quando ogni lotta è stata abbandonata. Ma questo avviene soltanto all’ora prescritta, come il risveglio alla fine di un sogno». Ma chère, sto morendo di sonno per cui sarò breve e poi a dormire. Sono stata a «Cuadernos»: per la poesia tradotta mi hanno dato 49 franchi che onestamente dividerò con la piccola Queta. Arcienagas vuole Pasternak e già mi ha spiegato in che modo. Non mi sembra male l’onorario che ci hanno dato per una sola poesia. Di Pasternak me ne ha chieste due. Vediamoci presto. Sarebbe bello fare qualcosa toujours le dimanche, chez marie-jeanne-des-anges. Abbracci e scusa gli errori ma muoio di sonno.
Alejandrita