14 Marzo 2023

L’editoria è al collasso, gli scrittori fanno schifo. Fuga dal mondo dei morti viventi

Allo scorso Book Pride, la fiera del libro milanese, l’editore Gog non ha portato libri. Un referente della casa editrice, dal ceffo sovietico, piantonava, con severo orgoglio – pride – un tavolo. Scabro, nudo, antipatico. Apocalittico. Sul tavolo, un unico libro, un pamphlet. Titolo: Manifesto contro l’editoria. Sottotitolo: “…e gli editori, i librai, gli scrittori, i distributori, i promotori, gli agenti e i critici letterari, i direttori delle terze pagine culturali e quelli dei festival, contro i premi, gli ISBN, le scuole di scrittura creativa”.

L’idea, pretestuosamente dada, racconta la nuova vita della casa editrice Gog: uscire dal sistema coercitivo della distribuzione libraria italiana, dalla ghigliottina dell’ISBN, dal maniero di merda della cultura italica in sé:

“Perché noi non vogliamo piegare la gioia di fare libri, anche impossibili, anche invendibili, anche improbabili (chissà che lo siano oggi ma non domani), alle urgenze del mercato, della logistica con la sua logica illogica. Da adesso quindi, i nostri libri si troveranno innanzitutto sul nostro sito. Oppure ai nostri eventi e a tutti gli incontri che organizzeremo”.

L’idea è bella perché velleitaria, ardita perché ovvia. Che a un ‘sistema’ – quello librario-distributivo – se ne sostituisca un altro – quello dei ‘siti’, degli ‘eventi’, delle ‘librerie indipendenti’, dei propri fan, più o meno pirateschi – vuol dire: cercare il proprio posto nel mondo. Poi, c’è chi preferisce l’Est all’Ovest, chi all’alta finanza antepone il baratto, chi opta per il sottosuolo rispetto al posto al sole. Niente di nuovo – appunto – sotto il sole.

Qui il piantone stalinista è stato sostituito con Padre Pio, che prega sulla fine dell’editoria attuale

Il manuale stampato da Gog mi ha fatto venire in mente le battaglie, decennali, compiute da Mario Guaraldi, che ha fondato la propria casa editrice – la Guaraldi, appunto – nel 1971, ma che, soprattutto, è uno dei pochi, rari, avventati, avveniristici pensatori per una nuova forma di editoria. Così – ricorsi tagliagola della storia – è stato proprio Guaraldi, molto tempo fa, a denunciare lo strozzinaggio del sistema distributivo pressoché monopolistico, la cospirazione dei grossi poli editoriali, nati per affossare o tenere sotto ricatto la piccola e media editoria (per sua natura, quando non si tratta di avvoltoi che si nutrono di cadaveri libreschi, avventuriera e dissidente, controtendenza), l’iniquità del marchio ISBN, la corruzione dei premi nostrani, la patente incapacità degli scrittori nostri di evadere da un narcisismo di palta, vergognoso, che fa di un autore una pecora, creature perennemente sotto tiro, ricattabile.

Per estro, Guaraldi è un lottatore, fedele alle battaglie perse. Così, nel giugno del 1974, a Rimini, guidò la rivolta dei “piccoli editori” – insieme a lui: Marsilio e Mazzotta – “contro ‘le tigri di carta’ e contro il fenomeno della concentrazione editoriale”. Nel 1997 – insieme allo scrittore Guido Conti – guida un gruppo di “nuovi selvaggi” – alcuni dei quali, in virtù dei destini reversibili, avrebbero presto occupato posti di rilevanza nel sistema editoriale italiano – a ribellarsi all’iperproduzione editoriale, asservita alle norme di un mercato becero e infecondo. Il repertorio – pubblicato come Dire Scrivere Pubblicare Leggere Valutare – terminava con “un appello al Ministro della cultura Walter Veltroni”, in cui si denunciava, tra l’altro:

“La crisi del ‘sistema editoriale italiano’ (che comprende produzione, distribuzione e vendita del libro, non solo uno di questi aspetti), che è una evidente crisi da bulimia consumistica di un prodotto editoriale di massa quasi sempre di infima valenza culturale se non addirittura di dichiarata barbarie sul piano dei valori, del gusto, della lingua, che corrisponde alla gravissima forma di anoressia culturale che investe l’intero Paese”.

Nell’agosto 2011, l’infaticabile Guaraldi lanciava un appello all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la creazione di una “Costituente del Libro”, tentando di arginare

“Un oligopolio che, nell’assenza totale di una Legge sull’Editoria libraria ha permesso il proliferare di interessi miopi e contingenti, che hanno ostacolato la valorizzazione dei nuovi formati editoriali sia nel sistema formativo (dalla scuola materna all’università) sia nelle biblioteche italiane”.

La sollecitazione del regno librario digitale, una rivoluzione, costringe a ripensare l’idea stessa di libro e di conoscenza, secondo Guaraldi, che al tema ha dedicato studi, lezioni, libri. L’ultimo, Radici di carta frutti digitali, è uscito nel 2016. Esploratore dei terreni più remoti del libro, Guaraldi si è inventato i Post-Libri – specie di libri-cartolina –, ha creato l’edizione digitale (cioè, evoluta) del Libro dei Sogni di Fellini ma ha pure stampato l’anastatica del De re militari di Roberto Valturio; ha ideato un laboratorio di editoria alchemico-digitale, GuaraldiLab, e ha stampato, in modo ineccepibile, la Vita di Mosè di Filone; ha architettato una formula ‘umanistica’ del print on sale e vive nelle colline riminese, tra cani, galline, orto. Ha fatto editorialmente di tutto senza sortire alcun esito concreto, o quasi: l’hanno trattato come un profeta millantatore, un millenarista della Gerusalemme on line. È il primo, per dire, ad essersi posto un problema fondamentale: il rapporto tra mondo editoriale e biblioteche, tra sapere immediato e saperi.

Che vuol dire? Che era già tutto previsto, che tutto va come deve andare, che sappiamo tutto da tempo. Il ‘sistema’ – dalle marchette sui giornali, dove la critica è assente, al Premio Strega dei soliti noti – è collassato da almeno tre decenni, anche prima: Giovanni Raboni interrompe la collaborazione con Mondadori nel 1985 perché “mi rendono praticamente impossibile fare l’unica cosa che so davvero fare: proporre, e aiutare a scegliere, i libri non ovvii, libri nuovi, libri letterariamente credibili”.

D’altronde, è inutile il gioco degli innocenti ipocriti. Questo, per un lettore, è il mondo editorialmente migliore possibile. Le grandi aziende editoriali continuano, per quieto vivere, al netto dell’ormai cronica imbecillità, a pubblicare grandi autori: Kafka e Thomas Bernhard, Flaubert e Gadda e Céline – per citare autori citati dai miei amici di Gog – sono stampati da Einaudi, Mondadori, Adelphi, Garzanti, mica dal tipografo di qualità in provincia. Gli autori incredibilmente dimenticati dai grandi editori sotto egida del bilancio, ce li compriamo razziando la rete: di recente, ho recuperato Ragazze, la quadrilogia di Henry de Montherlant edita da Mondadori nel 1958, nella collana ‘Il Ponte’; qualche tempo fa ho letto Noatun di William Heinesen, autore faroese che forse piace soltanto a me, ma che nel 1943 stava nella celebrata collana ‘Medusa’ Mondadori tra William Faulkner, Knut Hamsun e Ernst Jünger.

Ciò porta a due considerazioni. Primo. Un editore è il suo catalogo, segno della propria poetica. I grandi editori hanno sputtanato il proprio catalogo? Torneranno ciò che vogliono essere: cenere.

Secondo. Il bordello editoriale, per così dire, è vastissimo, labirintico, prono a ogni voglia. Ci sono gli editori ‘di qualità’ – se lo dicono da sé, obviously –, i piccoli editori di pregio, i piccoli editori di spregio, disprezzabili, che chiedono soldi ai propri autori; ci sono gli editori di alto talento, che fanno scouting e traducono l’intradotto; ci sono gli editori tombaroli che pubblicano soltanto morti; ci sono gli editori dei poeti e quelli degli autori scandinavi e quelli degli autori sudamericani e quelli degli autori austroungarici; ci sono gli editori d’arte e quelli del cazzo; ci sono gli artisti editori, quelli fuori commercio, eccellenti. Come la giri, il punto è il medesimo: se non sei una ‘impresa editoriale’ ma un mero editore devi inventarti un altro mestiere per campare – a meno che tu non abbia grosse disponibilità, come si dice, e pazienza nel sopperire le frustrazioni. Da Piero Gobetti a Formiggini e Scheiwiller è sempre stato così: i bei libri si pagano grazie a ‘servizi’ diversi, a terzi. Come mai? Perché i bei libri sono per pochi, perché la bellezza è difficile… Bah… La questione è anche di ordine meramente imprenditoriale, di numeri & cifre, di uomini & omuncoli. La Bur – Biblioteca Universale Rizzoli – ha assemblato, dal 1949 al 1972, 912 ‘classici’ in formato grafico di impeccabile sobrietà, grigio, con l’idea di divulgare i classici a poco prezzo, per tutti; li trovavi in edicola. Oggi è l’era dell’algocrazia e gli editori transatlantici studiano i romanzi insieme al cameriere di Netflix, con gli ingredienti esatti a trasmutare i paragrafi in bassa sceneggiatura.

È l’uomo che è cambiato; e con esso dovrà cambiare la sua più clamorosa invenzione, il libro. Siamo nel mondo nuovo da anni e perpetuiamo ragionamenti archeologici. Sono le grandi case editrici a rischiare di perdere, non i rari pirati nel magma editoriale, addestrati dalla povertà, affratellati all’estro.

Nel 1916 l’iconoclasta Giovanni Papini, osava stroncare Amleto – “i suoi famosi pensieri si riducono a questo superficiale luogo comune: la vita è brutta; a esser si curi che nel mondo di là non ci sia di peggio sarebbe meglio ammazzarsi” – e il suo autore, Shakespeare. L’uomo, scrive Papini, che aveva capito quasi tutto, muta, s’imbestia di capricci, si avvolge nei suoi anatemi:

“S’ha un bel dire che Shakespeare è moderno ed eterno e che la sua inquietudine è la nostra inquietudine… Noi stiamo cambiando e più cambieranno gli uomini in seguito. Andiamo diventando ogni giorno più difficili, incontentabili, raffinati, scontenti. Sempre meno cose ci piacciono e meno ci piaceranno progredendo”.

I problemi sono sempre individuali. Non ci piacciono i libri di oggi perché gli scrittori, oggi, scrivono libri modesti, sono modesti pure loro, sciantose via radio, incapaci di scelte autenticamente autarchiche.

“Noi vorremmo una nuova classe di scrittori che non sia una classe tanto per cominciare. Vorremmo vedere autori a cui non piace stringere mani né frequentare i salotti giusti, gente che scrive prima per sé e poi per gli altri, che durante le dichiarazioni non assume pose pedagogiche, che vinto un premio non sente il bisogno di pontificare sulla qualunque, che non viene a farci la morale a ogni intervista rilasciata, che non ha una colonnina dedicata al proprio ego su una grande testata, che dà prova di un sano orrore di sé”.

Così scrivono i miei amici di Gog. Ma è proprio così? Sorpassato il trito perbenismo di un salotto sfinito, strafritto, sfitto, da ignorare, io, un ignorante, per dire, vedo violenza. L’orizzontale violenza dei vili, la delazione, la crudeltà dei fiancheggiatori, le isterie degli indignati a comando. Potrei fare una lista di poeti e di scrittori di oggi che secondo me valgono più di quelli di ieri: Federico Italiano, Francesca Serragnoli, Andrea Temporelli, Gian Ruggero Manzoni… per dire di alcuni… giova ripeterlo? Chi si occupa delle loro opere? Ne parla forse “il Corriere della Sera”? E se anche ne parlasse, avrebbe senso, sortirebbe un consenso capace di autorevolezza?

I libri, se tali, sono da sempre materia pericolosa, perché le idee comportano una scelta, un rischio, e una poesia insegna a non avere paura di niente: per questo, le case editrici sono guardate con sospetto dai governi e vengono censurate o ‘statalizzate’. Da tempo si è scoperto che l’iperproduzione annienta: chili di melma sommergono il piccolo fiore nel deserto. Siamo soli. E i quattro gatti che inneggiano alla rivolta sono più soli di chi, solo, si rivolta nel grumo impotente della propria stanza. Ci hanno isolati fino a rendere innocuo il nostro dire, svenduto perfino l’inaudito. Non siamo noi a scegliere di mollare il sistema editoriale: è il sistema editoriale che fa, felicemente, a meno di noi. E allora, ora, che si fa?

Chiunque pubblica libri con amore e dedizione non vuole che i propri libri siano inscatolati nelle anonime stalle dell’ovvio, le librerie di ‘catena’. I libri partoriti con amore vanno cercati con amore egualmente forte. Non ci daremo alla latitanza dei lattanti: perfezioneremo la lotta. L’orrore si vince con le scelte improprie, inappropriate, decuplicando l’assurdo. Facendo della propria inevitata, levitante debolezza un punto di forza, perfino di sterminio. Esercizi di irrobustimento dello spirito, direbbe Ágota Kristóf (stampata da Einaudi)

Questo mondo non va più combattuto, significherebbe assegnargli una qualche dignità – va superato. Alle opere della morte preferiamo quelle della luce, per quanto oscura.

Gruppo MAGOG