
“Io, l’irrequieto, prendo al laccio le stelle”. Sulla poesia di Conrad Aiken
Poesia
Giorgio Anelli
Mi risponde dopo un po’ di tempo, dopo che le scrivo due, tre, forse quattro volte. C’è qualcosa di vitreo nei suoi tratti – c’è una fuga, l’andare da erbivoro e la rapina. Avrei dovuto immaginarlo. La ritrosia, la fragilità, i tentennamenti, le omissioni – nascondono vetri. Un viso-stiletto. Avrei dovuto immaginarlo.
Da tempo ruoto attorno alla poesia di Hannah Sulllivan: nel 2018 la poetessa inglese esordisce con Three Poems, per la Faber. Il libro è costruito, appunto, intorno a tre poemi: il primo è ambientato a New York, l’ultimo, dedicato al padre dell’autrice, parla della sua gravidanza. Il secondo – “The Heraclitus Poem” – racconta, in quinta californiana, la ripetitività dell’odierno lavoro, l’eterno ritorno del tedio. La peculiarità del libro sta, potremmo dire, nella consapevolezza del poeta: Hannah Sullivan alterna, con micidiale facondia, metri, ritmi, toni. Passa dalla terzina al verso libero, dall’arcaismo al neologismo, mescola la cultura pop a momenti statuari, di epica sfrontatezza. Qualcuno ha paragonato il libro alla pittura di Edward Hopper; a me pare, semmai, avere il gergo di Lucian Freud: arcaicità contemporanea, l’assoluto oggi con tinture del Trecento; Beato Angelico a casa di Francis Bacon.
Insomma: il libro sorprende. A star is born, ulula il “Guardian” – con una chiosa: “ma da dove è arrivata?”. Con Three Poems, Hannah Sullivan vince il “T.S. Eliot Prize”, tra i massimi riconoscimenti lirici del mondo inglese. Andato, tra gli altri, a Ted Hughes, Anne Carson, Carol Ann Duffy, Seamus Heaney e Derek Walcott, quella volta finì tra le mani di un’esordiente, pressoché sconosciuta ai più, per di più refrattaria alle letture pubbliche, al presenzialismo letterario, alle interviste. Hannah Sullivan legge l’Odissea, traduce Orazio, studia Sylvia Plath. Sembra un cerbiatto – ma la sua levità spaventa. Il curriculum non si presta al gossip né ai titoli cubitali: studi al Trinity College, poi ad Harvard; dal 2012 insegna English literature a Oxford. Sposata, due figli, classe 1979, nel 2013 ha pubblicato, per la Harvard University Press, The Work of Revision, uno studio sulla letteratura inglese – dal Romanticismo ai Beat, passando per Eliot, Pound, Hemingway, Joyce e Virginia Woolf – a partire dall’arte della “revisione”, del labor limae, quando non della riscrittura vera e propria. Ama i margini, difende con sorrisi a unghiate il proprio privato.
L’anno scorso, per Faber, Hannah Sullivan è uscita con il secondo libro, Was It for This. Anche in questo caso, la raccolta si struttura in tre poemetti; il primo, Tenants, è un’indagine in forma di elegia sull’incendio della Grenfell Tower, a Londra, nel giugno del 2017, che provocò settantadue morti. Anche in questo caso, è sorprendente la capacità nel mescolare ritmi e metri; nel secondo poemetto, che dà il titolo alla raccolta, è preponderante la prosa. Il libro è dedicato for my mother. Non c’è traccia di orfismo né orfanità d’avanguardia in Hannah Sullivan: la poetessa porta alle conseguenze estreme – cioè più pure, ‘europee’ – la lezione del modernismo. In un titolo roboante – che non le avrà fatto piacere – il “Times” l’ha detta The bard of millennials and Gen Z.
Un’enigmatica malinconia costringe Hannah Sullivan. Mi dice di rimpiangere la vita analogica, senza iPhone, quando per viaggiare si spalancavano le mappe e si sfogliavano i libri per cucinare una torta. Scrive poco. Va spesso al fiume. Non ama l’accademia: le persone hanno smesso di immaginare, non credono più nel potere della fiction, mi dice.
Non ha paura di mostrare un’arcana gentilezza, che è poi un modo per rifulgere nel rifiuto.
Cosa intende per stile nella ricerca di un poeta?
Lo stile è la peculiarità, la quiddità, la particolare via con cui un poeta rende la sfasatura – ancora, appena intelligibile – del linguaggio. Possiamo vederlo in una certa forma di invenzione lessicale (come in Gerard Manley Hopkins), nella predilezione per per scassinare la sintassi (Walt Whitman), nell’uso stravagante di frasi spiazzanti o di domande senza risposta (Sylvia Plath), nella vertiginosa voragine delle rime spezzate (Paul Muldoon), oppure nel gusto per la bizzarria tonale. Penso anche alla radicale e a tratti imbarazzante semplicità di Wordsworth (“There is a thorn”), alle svolte improvvise di Orazio – nel bel mezzo di verità eterne – quando si rivolge a un qualche destinatario. Penso alle inversioni portentosamente pretenziose di James Schuyler (“With Fresca and ham and cheese on a roll the eight hours somehow passed”). Non credo che uno stile sia uno stigma, che sia lo stesso per tutta la vita, che sia dato, un possesso per sempre. Auden e Eliot sono poeti che hanno castigato la propria smagliante brillantezza retorica preferendo, negli anni, uno stile più sobrio. Dicono sia così. Non so se sia così.
Mi dica qualcosa sulla genesi di “Three Poems”; qualcosa sull’idea centrale del suo ultimo libro, “Was It for This”.
Three Poems comincia con un poemetto, You Very Young in New York: l’ho scritto in un paio di settimane su un tavolo da pranzo, a San Francisco, mentre mi preparavo per tornare in Inghilterra. Il secondo poema l’ho elaborato per un anno. Il terzo è stato scritto dopo la nascita del mio primo figlio.
Was It for This si inaugura, invece, con un poema sull’incendio della Grenfell Tower: un evento terribile, prevedibile, una vergogna per Londra. All’inizio, volevo scrivere dell’incendio e delle sue immediate conseguenze; mentre attendevo che l’inchiesta rivelasse maggiori dettagli (mi era necessaria una documentazione accurata), ho cominciato a fare alcune ricerche sulla pianificazione e la costruzione della Lancaster West Estate a partire dalla metà degli anni Sessanta. Ho sviscerato l’utopia dei pianificatori del dopoguerra che intendevano edificare sui terreni bombardati, terreni che erano stati invasi dagli slums – una storia che mi ha toccato e di cui sapevo ben poco. Mia nonna viveva a Sheffield, in case popolari costruite grosso modo nello stesso periodo.
Il resto del libro parla dell’abitare e del tempo – dei nostri vicini geografici e diacronici (ho letto questo termine in un libro di Yfaat Weiss a proposito dei coloni ebrei di Haifa che dopo il 1948 hanno abitato un quartiere precedentemente arabo). Il libro riguarda i sobborghi della West London, parla di un futuro perduto, inesistente. Come altre persone nate alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta, ho avuto un’infanzia completamente analogica. Pensavo che la mia vita da adulta sarebbe continuata a quel modo: parlare al telefono di casa, cucinare con le ricette rintracciate nei libri, usare le mappe, accettare il mondo come un dato reale. Di recente, ho letto alcuni romanzi di Alba de Cespedes, tradotti in inglese. Scrive di un mondo che mi precede, piuttosto angusto per le donne. Eppure, mi ritrovo in quel mondo e ne provo nostalgia. Non per la sua pienezza, ma per i suoi limiti.
Crede che la poesia sia un processo per conoscere se stessi o un modo per annichilire l’ego?
Non credo nella poesia che annienta il sé. Ma una buona poesia – non so se abbia mai scritte buone poesie – non appartiene al poeta, non è una mera espressione del sé.
Dove la porta la sua ricerca lirica, in quali territori del linguaggio?
Lavoro sul ritmo – una cosa che non pare molto poetica. Mi interessa cosa è accaduto alla metrica inglese e in quella di alcune lingue europee nel XX secolo. Come è mutato il gusto terribile e incantatorio, retoricamente avvincente del verso? Perché, in inglese, siamo certi che la poesia non debba essere tanto diversa dalla prosa – o “almeno altrettanto ben scritta”, come diceva Pound?
A suo giudizio dovrebbe esistere una sorta di ‘armonia’ tra l’opera poetica e il poeta, tra etica ed estetica, tra la grandezza di un testo e la grandezza morale del suo autore?
Esiste una relazione, sì. Esiste una coerenza morale dell’autore. Questo rapporto è sempre stato più chiaro nella narrativa. I corsi di scrittura creativa si concentrano sul processo letterario, sulla tecnica, sullo stile, come se la scrittura non fosse altro che un vasto insieme di pratiche da apprendere. Allo stesso tempo, la critica letteraria contemporanea è ossessionata dall’idea che qualcosa covi nel sottobosco di scritture che, in superficie, paiono implacabilmente indifferenti a questioni etiche o politiche. Il tutto, mi sembra un po’ sconfortante.
Come vive? Che cosa si “incarna” nella sua poesia?
Come molti altri scrittori, insegno in università – ho una vita semplice, fatta di rade cose. Ma il mondo si è oscurato da quando ho scelto questa carriera. Quando ho voluto diventare un’insegnante c’era ancora un sentore di F. R. Leavis nell’aria. Ora tutto pare triviale, in fondo inutile. Molti appassionati lettori hanno smesso o quasi di leggere romanzi. Per loro, la finzione ha smarrito le sue premesse; l’idea stessa di personaggi fittizi che dovrebbero avere una qualche relazione allegorica con la realtà pare una sciocchezza. Ma che cosa sostituisce la fiction? Sappiamo che gli uomini hanno difficoltà a scrivere per sviscerare qualcosa di autentico su se stessi – eppure, la nostra è una cultura ossessionata dall’autobiografismo, in ogni sua forma. Ecco, una delle cose che amo della poesia è il suo evidente artificio. I capelli di Sylvia Plath erano castani, poi furono biondo platino, poi di nuovo castani, ma non c’è nulla di falso o di inautentico nel distico “Sorgo con i miei capelli rossi./ E mangio gli uomini come l’aria”.
E ora, a cosa sta lavorando?
L’hanno scorso ho elaborato alcune traduzioni metriche da Orazio. Ci siamo trasferiti a Oxford, ho camminato nei parchi vicino a casa mia, ho osservato le primule e le oche, i fiumi retrattili, che si restringono nel greto – tutta l’antica materia poetica che ho ignorato negli ultimi vent’anni, in favore di locali malfamati e graffiti. Sto scrivendo di ‘schermi’. La vita sembra esistere soltanto attraverso i cellulari: è quasi impossibile che le persone mangino in un ristorante senza estrarre l’iPhone… Che cosa accadrebbe se non lo guardassimo più?
*
Da Three Poems
La consapevolezza della finitudine, quella sottile minaccia, l’essenza di uno stato inventato scintilla sempre, secondo me, nei mille occhi vitrei di questi titani del mero mercato.
Dovresti occuparti delle inefficienze nei processi telematici
ammaestrarti al multicanale, prendere sul serio i microscopici affari,
hai creato un foglio di lavoro con tredici schede
il superiore ti fa incazzare, ordini sushi, annulli il taxi.
Il socio anziano chiama da Newark, “Grazie team” (tenue
voce che fa le fusa, sorseggia qualcosa), “che sia vantaggioso per tutti”.
Ma al mattino, mentre si lava i denti nuovi, guarda la neve
quell’enorme annientamento del mondo, la sua letargia, e sa:
le cose illiquide congelano. La luce è abortiva
nel parco zebrato. È tempo di fottere il mercato.
A Chennai, nel frattempo, un uomo attende le tue analisi
fa colazione con tortine di riso al microonde
guarda la partita di cricket, sfoglia Thoreau
e si chiede com’è New York sotto la neve.
Ha fatto domanda per entrare alla Columbia, alla NYU Stern, a Stanford.
Vuole andare all’estero per vivere intensamente
immagina i focolari delle case vittoriane, i recinti in ferro
la grazia del socio anziano sotto pressione, il suo giro di verbi
emersoniani, le estati trascorse al largo, in mare, le distese
di sabbia e l’intreccio d’erba sulle spiagge di Cape Cod.
*
4.3
Lacrime e macchie di fegato sulla mano, il conforto
ancora e ancora di scrivere qualcosa di appena immaginato.
Una volta tutti i tumori erano benigni
ma il DNA ha perso la sua prosodia
e le cellule si dividono all’infinito:
la scostumata bellezza di una filastrocca.
Vista al microscopio
Venezia al tramonto è un’ovaia
“Troppo bella per essere dipinta” diceva Monet.
Sperma sperimentato da Mida, che si gonfia e sventola.
**
Libri di poesia
Soltanto la copertina tenta di intrappolare gli occhi.
Ammucchiati, inermi, come lenzuola di lino
i piccoli libri che nessuno vuole acquistare.
Sai dalla prima pagina che non sarà facile;
il carapace dei termini: nettare le uova, nettare di cachi.
Soltanto la copertina tenta di intrappolare gli occhi.
Lascia perdere i verbi. Non chiederti se l’io
che fende la pagina abbia un’esistenza
oltre a questo addio senza precedenti.
Dentro, qualcuno ha visto sua madre morire
tre volte tra riscrittura e revisione.
Soltanto la copertina tenta di intrappolare gli occhi.
Il resto – pesche in conserva e cielo reticolato –
sono la ragione per cui ci diciamo impavidi, esuberanti,
sottili: elogi a un libro che nessuno comprerà.
Fu angusto il passato. Le poesie sono formaldeide:
mettono sotto aceto i dettagli per la dissezione.
Soltanto la copertina tenta di intrappolare gli occhi
un tour de force che nessuno vuole affrontare.
**
Da Was It for This
Tenants
14 giugno 2017
00:54 BST
1.
Pensare a un evento, pesare la cosa accaduta
fino a comprenderne la vaghezza
e quanto è confusa, avventizia, fuori tempo.
Vedere una matita d’argento in cielo
e sentire il fischio di una bomba V2.
Vecchie corrono senza troppo addosso
è l’ultimo anno di guerra e sono stanche.
Toccare le loro trecce di grigi capelli che scodinzolano
e guardare la torre che si rinnova
costruita nel vuoto lacerato dalle bombe:
le camicette sventolano sullo stendino.
*
John Lewis in costruzione. Le gru schioccano
come schiaccianoci su piccole mandorle di cielo
o abbassano le braccia in frasi di cortesia.
Il mercato vacilla, gli attici si passano
tra le agenzie e anche quando girano
i soldi restano vuoti, le viste che possono
offrire sono sull’invisibile e sull’insondato.
I lavori si fermano per dragare i seminterrati
per lo più sulle rotte viarie che danno verso nord.
Alcune mura di mattoni laminati crollano
e mostrano ai fianchi residui di case, cantine
in crollo, grumi gialli di argilla londinese
che dopo essere stati rigurgitati dalla ruspa
sembrano farina per focaccia, frattaglie di burro.
*
Abbiamo guardato un video: ripulivano un alveare, era primavera.
Da qualche parte, qualcuno, in Arkansas, lo tagliava a fette
lo raschiava con uno strumento di metallo, lucido,
strappava il favo marcio, le celle perforate, un abisso,
sciami di ispidi detriti, muffa d’api, pietà per loro
disse, sganciandone delle morbide manciate.
Sembrava quella roba grigia nell’aspirapolvere
gli sbuffi di lana di roccia che hai trovato in soffitta
con tua madre, prima di vendere casa.
Hannah Sullivan