06 Maggio 2019

“Troppi poeti sono terribilmente obbedienti. Io tento di essere disobbediente, perché la poesia è una festa!”: ode a Les Murray, il “titano gentile” della poesia australiana, che non credeva nella scienza e nella politica ma si affidava a Dio

L’anno scorso, caratura del segno, aveva raccolto i “Collected Poems”, chiudendo il cerchio di un’opera miliare, cominciata nel 1965 con “The Ilex Tree”, ma soprattutto, esattamente 50 anni fa, con “The Weatherborard Cathedral”. Ora il suo editore scrive, “Piangiamo la sua creatività senza limiti, la sua visione originale. La sua poesia ha creato una repubblica vernacolare per l’Australia, un luogo dove la nostra lingua è perennemente custodita e rinnovata”. Les Murray, classe 1938, è morto sul calare di aprile, il mese crudele, ed è stato il più grande poeta australiano di sempre, uno dei grandi in lingua inglese. Ha vinto – se vi importano le medaglie – i grandi premi destinati alla poesia anglofona: il ‘T.S. Eliot Prize’, nel 1996, e la ‘Qeen’s Gold Medal for Poetry’ (vent’anni fa), l’onorificenza regale che è andata, tra gli altri, a Ted Hughes, a Philip Larkin, a Robert Graves, a Wystan H. Auden.  Era cattolico, sposato con Valerie nel 1962, aveva cinque figli. Thomas Keneally ha proposto per lui il Nobel postumo, John Kinsella, che chi legge questo foglio conosce, lo ha ricordato sul Guardian, con ferma tenerezza. Ha scritto poesie bellissime, come questa (nella traduzione di Mariadonata Villa):

Chiesa
in memoriam Joseph Brodsky

Il desiderio di essere giusti
ha perlopiù tagliato la corda
ma alcuni vengono a Dio
nella speranza di essere sbagliati.

Alto sulla parete di fondo pende
il Vangelo, da prima che fosse libri.
Tutti i giudizi hanno fine in lui,
tutti, compreso il suo.

È sorto da una evoluzione
giudea, non inglese,
e ha detto che la luce che innalzava
sopra tutte le nazioni era giudea.

La libertà divora ancora libertà,
giustizia divora giustizia, amore –
perfino amore. Un uomo ritardato ha detto
la chiesa mi fa venir voglia di essere cattivo,

ma nudo in una trincea di fango
con mille e mille altri, qualcuno sta dicendo
il vero dio dà la sua carne e il suo sangue.
Gli idoli a te chiedono il tuo.

Quando l’Italia era un paese editorialmente decente, ci fu data quasi subito notizia del talento di Murray. Nella bella antologia sulla “poesia australiana moderna”, “Da Slessor a Dransford. Mito Società Individuo” (Edizioni Accademia, 1977), lo si descriveva così: “Anti-elitista profondamente australiano in tutte le sue espressioni, Murray è un poeta che non ha perso la speranza nella Terra Promessa”. Ha avuto un passato editoriale interessante: nel 2004 l’editore Giano pubblica “Freddy Nettuno”, poi Adelphi si premurò di pubblicare l’antologia di culto “Un arcobaleno perfettamente normale”. L’anno dopo, nel 2005, in piena ubriacatura Murray, sempre Giano pubblicò la raccolta di saggi “Lettere dalla Beozia”. Ricordo che fummo galvanizzati da questo poeta libero, liberatorio, narrativo, corrosivo, che non aveva paura di ingarbugliare Dio in versi tonanti. E che vinse anche un Premio Mondello. Poi ce ne siamo dimenticati, lasciando spazio a poeti di ben più modesto talento, di ben più modeste visioni. Lo ricordiamo pubblicando parte di una bella “Conversation with Les Murray” a cura di J. Mark Smith, edita nel 2009 su “Image” (per la cura di Andrea Bianchi).  

***

Vedi una differenza tra poesia vecchio stile e poesia contemporanea?

Les Murray: Ho scritto da entrambi i lati della barricata, diciamo così. Ci sono certi effetti che ottieni solo con la poesia ‘classica’, con il suo verso. È parte dello strumento. Suoni un po’ qui e un po’ lì. Dipende poi da quando intendi con ‘vecchio stile’. Uno dei miei favoriti viene dalla Beozia: Esiodo. Poi ci sono vari latini come Catullo, Virgilio e qualche altro.

Senti il bisogno di qualcosa che risponda alle condizioni sociali che ci sono adesso rispetto a quelle, per dire, del 1980? O del 1972?

“Adesso” sarà obsoleto tra vent’anni. Non puoi farne a meno. Poi cerchi di raggiungere un posto fuori dal tempo, ma ce la fai solo poche volte. Ora mi guardo indietro e dico: quello sembrerà datato per un bel po’, ma se ci sopravvive potrebbe anche andare bene. Altre poesie che pensi siano atemporali ti potrebbero invece sorprendere e dimostrare che non erano così limitate al loro tempo.

A partire dall’esperienza con tuo figlio, pensi che l’autismo abbia legami con l’arte moderna? Che sia emblema dei suoi problemi?  

Non mi sono avventurato a pensarlo ma probabilmente è vero. Molta arte oggi, perlomeno, è autistica. Perché si dà per assodato che non devi essere sentimentale, quasi non devi avere sentimenti. Vorrebbero un’arte automatica, diamine se questo è autismo! Ho appena letto, senti, di questi tizi che scrivono contro il partito conservatore canadese e descrivono, in via di parodia, Harvard come “grande palazzo d’inverno delle moderne élite”. Senti, è tutto intelletto, i sentimenti non sono permessi.

A volte i miei studenti si lamentano che la poesia li fa sentire stupidi.

Allora meglio dargli la pappa e nient’altro. Mi ripugna sentire che la poesia non li diverta. Quando al contrario: poesia è festa.

E come scopri quel che veramente è sentimentale? 

Probabilmente consiste nel non dire menzogne. Vi è sempre del falso nel sentimentale. Quando è sentimento puro allora spaventa, non è sentimentale. Quindi è importante per gli studenti che provino qualcosa. Non la stupidità. Questo è bello e impossibile per vittime della Riforma protestante. Anche se poi ti dicono che hanno superato la religione. (…) Quanto al mio popolo, conosco gente che quando parla si aspetta sempre di essere contraddetta, e allora ripetono le cose due o tre volte perché non sono convinti di essere ascoltati. Non hanno autorità per imporsi, e nemmeno la presenza, così porgono ossequi: mentalità puritana. Il contrario è la confidenza. Ma se scoprissero la differenza tra adulazione e confidenza, sai che disperazione per loro? Gli Australiani sono portati alla codardia morale perché sono un popolo collettivo, lo stesso come i Tedeschi. O gli Irlandesi: è una cosa ancestrale. Dipendono come disperati dall’accettazione e puniscono chi li domina. Mia moglie Valerie capì da immigrata che non poteva risaltare a scuola. Le affibbiavano nomignoli come “Shakespeare” e “genietta”, e non erano complimenti… Quindi qui non ci sono eroi, ed è un impaccio per tutta la cultura.

Nella sua celebre “Preface” Wordsworth parla della poesia che segue a ruota la scienza.

Io la vedo al contrario. La scienza è arrivata alla fine della corsa, la poesia sta sorgendo. La scienza è una specie di cannibalismo: mangia se stessa e chi la pratica. In certa misura la letteratura ha già sofferto questa fase: poco tempo e le cose muoiono come obsolete; sono divorate mentre sono ancora vive. Le persone provano la stessa sensazione dei loro smartphone esauriti, ancor prima che muoiano. E la scienza, che è fiera di essere antireligiosa, deve ri-creare il mondo ogni volta. Non può prendere nulla come già dato. Allora ri-crea e divora la vecchia versione con i suoi alfieri. Arriveranno al punto che metteranno da parte anche Darwin. Questo modo di relegare le cose, mandare a morte le cose perché il meglio deve ancora arrivare, è lo stigma degli ultimi quattrocento anni.

Credi che la religione in generale – e il Cristianesimo in particolare – abbia la funzione di un livellamento sociale? Protegge – o potrebbe proteggere – le persone dall’esclusione sociale?

Davvero spero che il Cristianesimo redistribuisca la ricchezza, che sia una forza, uno scudo contro inutili primati e classifiche. È ancora possibile un elogio moderato, in giusta misura, della religione e dei suoi santi da adulare come questi lo consentono. Spero in quello che i Cristiani compiono: salvano dall’esclusione sociale, quando si ricordano di farlo. E poi le promesse, mondane e oltremondane, sono le stesse. Il Regno è qui e di là anche se incontra resistenza e sopraffazione.

Ti dici cattolico. Dati i tuoi antenati scozzesi e tedeschi, qual è la loro eredità protestante? Non-conformismo, scetticismo verso la legge? Anche l’immaginazione austera, credo.  

Sì sono un cattolico e convertito prima dei vent’anni, ma non sono lo stereotipo del fanatico neoconvertito. Mia moglie dice che sente ancora puzza di calvinista, specie quando non perdono. Forse ha ragione. Mi fondo sulla Bibbia, la lessi tutta tra i dieci e i dodici anni. Mi sembra che prima del Vaticano II questo fosse impossibile per un bambino cattolico. Io lo feci. Ma l’atmosfera calvinista, la santità personale e competitiva, il gretto vantaggio imposto sui poveri della comunità, la superiorità su loro e sugli sfortunati – questo mi disgustava. E la dottrina, allora moribonda, della predestinazione, “sei quel che hai avuto in denaro, in sesso e attenzioni”, mi faceva schifo. Eravamo i più poveri, il vento soffiava negli interstizi delle porte della nostra casa. I miei genitori affondavano nell’umiliazione. Nel cattolicesimo non hai austerità prevaricatrice o grettezza di spirito, hai cielo e terra ben collegate. Mentre i calvinisti che non perdonano sono in realtà degli snob in campo morale, se guardi bene. Molti miei antenati evitavano il peccato perché se ne sentivano indegni. Altri erano irreligiosi e disperati per lo stesso escamotage dell’indegnità. Alcuni si sentivano superiori agli Aborigeni, altri li aiutavano con lo scodellino perché gli sembravano predestinati a sopportare.

Il tuo poeta cristiano. John Donne o George Herbert?

Ammiro Donne per l’esattezza matematica, da piastrellatore, con la quale crea intrecci e rientri. Come una moschea araba. Ma George Herbert mi scuote di più, come certi poeti scozzesi e irlandesi del Medioevo. Amo alcuni inni della Riforma protestante, ma il sommo Milton non mi ha influenzato. Lo lessi nei lunghi finesettimana dei sedicenni e non ci sono più tornato. L’unico tra i suoi miti che mi piaccia è Sansone agonista. Ma Lucifero pare un broker che sia stato incastrato. Meglio Popemi ha insegnato la dizione barocca, a mescolare il linguaggio modellandovi le mie composizioni. (…) Certamente quasi tutto il popolo ha mollato la poesia come ha fatto con la religione. Anzi in modo anche più risoluto. Pensa però che nella vallata dove abitavo da bambino c’erano solo due persone che leggevano poesie da sobrie. Un eremita scozzese che era legato alla sua tradizione e poteva battere tutti in una notte di bevute [quando si celebra l’eroe e poeta nazionale a gennaio, Burns]. Poi c’era un allevatore inglese che sapeva tutto Pope e ha trascorso mezzo secolo a recitare mentre guidava il bestiame. Recitava Pope e aveva come panorama il culo delle vacche. Poesia!

La poesia ti ha tirato fuori dalla depressione?

Penso di sì. Anche se dicevo di non usarla come terapia. Ma ti confido che quando stai male tutto è terapeutico. È stata come un pistone per tirar su una vecchia roba ed esaminarla.

Sogni in direzione politica?

LM: Nessuno, ecco il patema. Non credo nei politici. Non penso facciano del gran bene, nemmeno quando sono in stato di grazia. Hollywood e le ideologie connesse hanno spodestato la politica, l’hanno ridotta all’obbedienza.

Faresti una distinzione tra politica e cultura?

Sì. Politica è mantenimento, tenere tutto fresco e presentabile. Amministrazione. Conservare le cose nei loro limiti e mantenere i privilegi per quelli che già li detengono. Laddove la cultura lancia in aria tutte le idee che la politica non vorrebbe vedere.

Il poeta deve seguire il cambiamento culturale?  

Negli anni Sessanta ci fu una rivoluzione bohemienne che era come una pellicola sottilissima in capo a un antico oceano di forze. E questa pellicola cambia sempre la sua forma, si allunga e si distende per le forze che arrivano da laggiù. E manda scintille! Richiama le persone. Pericoloso, ti dico, non ci puoi fare affidamento. Dunque puoi dedurre che non sono mai stato il tipo del carino facilmente avvicinabile. La gente di successo, di bell’aspetto, notano queste cose. Sono troppi impegnati a cavalcare l’onda. A restare a galla. 

Quindi la poesia opera una contro-spinta a tutte le mode?

Quasi sempre la poesia è obbedienza, come tutte le forze. Molti poeti sono terribilmente obbedienti. Io tento di essere un poeta disobbediente. Il bello della poesia è che ti lascia fare lo zuccone quando vorrebbero omologarti. Ma se tutti rispettano i valori correnti, questo è un surrogato della poesia. Disobbedire rende tutto più intricato. E più interessante. Non dovrei lagnarmi solo perché so scrivere. Chi scrive bene si oppone al flusso attuale. È come preparare il riflusso. 

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