21 Novembre 2024

“Mi meraviglia la tua poesia: riduce l’uomo all’osso”. Jakushitsu, il poeta ramingo

Scrivere una poesia sulla corteccia degli abeti, sul fianco di un tempio, sulle elitre di un rio; sussurrarla alle volpi, ai rami che fingono l’arrampicata stellare.

Le note che Jakushitsu Genkō – tra i grandi maestri della scuola Rinzai, vissuto nel XIV secolo – appone ai suoi versi, presuppongono una poetica. Il maestro dimentica i versi, scaturiti da un’occasione – o dalla folgore che sbriciola il pensare –, nei luoghi dove si reca per un ricovero fugace: scrive sui tronchi, sui muri, alle pendici di un monte; dona le sue poesie: parole alla mercé del destinatario. Destino di questi scarni versi: essere ripercorsi, come collier di tracce sulla neve. Un altro – chissà chi, un seguace, un cercatore, un inopportuno guardone – ricalcherà quei versi; altri ne trarranno un canone.

S’intenda: non la poesia che tramanda un insegnamento, pratica comune allo Zen (chi scarnifica le certezze mondane anzi tutto deve sconciare il linguaggio, deve rivoltarlo fino all’osso, spellarlo, riverginarlo e sverginarlo ancora, ancora); no, la poesia di foreste & fiumi, di nubi e di tenui rancori, i versi sorti dopo aver chiacchierato tutta la notte attorno al fuoco (non esiste amicizia più sana di questo ritrovarsi, dopo anni, ancora primaverili, e trarre, dalla brace di un congedo, alcune propiziatorie parole).

Nato da famiglia aristocratica, Jakushitsu Genkō fu inviato, dodicenne, in un monastero di Kyoto – centro d’eletta istruzione. Gli era apparecchiato un futuro da burocrate d’alto rango; il ragazzo preferì la fuga dal mondo, l’abisso della contemplazione, la solitudine. Secondo l’agiografia, il carisma da seguace della via era connaturato a Jakushitsu: a sette anni, durante una battuta di pesca, accompagnava alcuni parenti, avrebbe detto, “Per quanto insignificanti, queste piccole creature sono vive e non dovremmo togliere loro la vita”. I parenti slacciarono le reti, liberando le diguazzanti prede.

Jakushitsu – il soprannome “Genkō”, Luce Originaria, gli fu affibbiato da uno dei suoi maestri – fu monaco irrequieto. Vagò di monastero in monastero, affascinato dal buddismo Ch’an, di stampo cinese. In Cina soggiornò per sei anni, fino al 1326; quando ritornò in Giappone, aveva trentacinque anni.

A proposito della sua poetica, è significativo un episodio. Quando il primo, grande maestro, Yakuo Kenko, cadde malato, Jakushitsu gli si fece al fianco, chiedendogli “l’ultima poesia”. Il maestro – che non era affatto in punto di morte – diede un ceffone all’allievo. Il gesto fu rivelazione. Da un lato, è inutile chiedere insegnamenti estremi, parole ultime: ogni parola sia la prima e l’ultima; ogni parola resti ciò che è, un’effimera. Dall’altro, occorre abbandonare l’idolo della poesia – futile groviglio di verbi, essa non è il fine, resta un miraggio, semmai, la sala d’attesa per qualcosa di più grande. La poesia prepara l’incontro; il poeta è un giardiniere, sistema il prato, spolvera le sedie – il poeta è servo di un incontro tra altri, da cui è escluso.

Seminagione di versi: lasciare che si disseminino le poesie – che si disperdano. Non diverse dallo sciaguattìo degli ululati, dalle foglie funambole.

Secondo l’estro dei suoi maestri, Jakushitsu Genkō si tenne lontano dalle metropoli e dai ruoli, dai centri del potere terreno come da quelli che spartivano il potere spirituale. Preferì la vita da ramingo: arduo è seguire i suoi spostamenti; mirava a nascondersi, visse, preferibilmente, in montagna. Per otto anni sostò “nascosto tra le rupi, lontano dalla società umana”. Appena approdato in Giappone, donò ai compagni di viaggio i regali che aveva ricevuto dai maestri di Cina – comprese alcune rare calligrafie. “Jakushitsu Genkō scelse di restare inaccessibile” (così Arthur Braverman in: A Quiet Room. The Poetry of Zen Master Jakushitsu, Tuttle Publishing, 2000).

Negli ultimi anni della sua vita, sfiancato dal lungo peregrinare, scelse di trasmettere i propri saperi. Per lui fu edificato il tempio Eigen-ji, a Higashiōmi nella prefettura di Shiga; fondato nel 1361, il tempio esiste ancora oggi. “Cinque anni dopo aver accolto l’incarico a Eigen-ji, il monaco lo consegnò al discepolo Miten Eishaku. L’ottavo mese del 1367, Jakushitsu scrisse il suo ultimo testamento. Il primo giorno del nono mese dello stesso anno scrisse la sua ultima poesia, poi spirò, all’età di settantasei anni”.

Ci restano un secchiello di versi – qui tradotti dalla versione di Burton Watson in: The Rainbow World, Broken Moon Press, 1990 – di stupefatta nitidezza e alcuni apoftegmi – ne abbiamo voltato uno in italiano – che celebrano la necessità della vita nascosta, nell’anonimato, tra i torrioni dell’interiorità – fino a che non esista più distanza tra interiore ed esteriore, tra me e mondo, ma un uomo in picchiata, che fende tutti gli istanti della propria “vita scialba” come fossero un leone, uno specchio, un falco. La pia parola che fa fiamme da tutte le parti.

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“Nel primo anno dell’era Koan (1361) andai a passare la mia vecchiaia ai piedi del monte Hanko [Eigen-ji], nella provincia di Omi. A quel tempo, l’attendente Sorin Ka giunse dalla capitale, unendosi a me, a questa vita scialba, priva di eventi: trascorremmo insieme la primavera e andammo avanti a quel modo fino all’inverno. Lo ammiravo per sue ineguagliabili qualità innate e per il fatto che mai lasciava sviare la sua acuta intelligenza. Lavorava con tenacia, determinato, cercando l’illuminazione, perseguendo la pratica senza un momento libero.

Una sera, seduti attorno al fuoco, chiacchierando amabilmente, mi disse: ‘Quando vivevo al tempio insieme agli altri monaci, amavo così tanto leggere gli antichi libri che rinunciavo ad andare a letto e dimenticavo di mangiare. D’improvviso, capii che acquisire la comprensione attraverso lo studio e l’esercizio esasperato della ragione, stava prolungando le mie chimere, nutriva questo mondo illusorio, rendendo la mia visione egoistica peggiore che mai, gettando le basi di quella che probabilmente già si configurava come una lotta per la fama e per il profitto. Quanto sarebbe stato meglio, pensai, se avessi messo da parte quegli affanni e quello studio, accontentandomi di essere uno che non sa nulla e nulla capisce; meglio ancora, avrei dovuto lasciare il tempio, sprofondando in me stesso, facendo dell’illuminazione il mio solo scopo. Mi venne in mente che i maestri del passato, dopo aver compreso la Grande Verità cercano egualmente di non restare invischiati nelle cose materiali, negli affari di tutti i giorni. Alcuni se ne sono andati verso le montagne occidentali, per non fare mai più ritorno. Di altri danno notizia le foglie che scendono a valle sul dorso dei ruscelli; alcuni hanno composto versi come questi: ‘Affari mondani, tiranni:/ meglio le montagne e le colline!/ Dormire sotto le viti e i rampicanti/ lasciando che un mucchio di pietre ti faccia da cuscino!’. Quanto sono diversi da me quegli uomini! Così, ho giurato a me stesso che non sarei più tornato al monastero, ma avrei cercato di seguire le venerabili tracce di quei saggi reclusi’.

Sono rimasto colpito dal carattere elevato e dalla meravigliosa visione di quest’uomo, che la nostra comune mediocrità non può eguagliare. Per lui ho scritto le mie poesie”.

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Scritto sul muro di un rifugio di montagna, presso il villaggio Shii

Dai dirupi, l’acqua scorre verso il mondo degli uomini,
le nubi valicano il passo, vanno in altri monti.
Ascolto il cinguettio degli uccelli nascosti
che esaltano l’ozio di questo monaco ramingo.

*

Dormire a Kongo-ji

Spesso visito questo misero tempio.
Chiacchiere ininterrotte spezzano la notte.
Nessun tamburo nei villaggi d’altura: quando
le finestre imbiancano, sappiamo che è l’alba.

*

Dormire a Senko-ji

Da dieci anni non incontravo il mio amico:
ci siamo abbracciati, discutendo come fosse primavera.
Mai avrei pensato di dormire nella sua vecchia stanza:
la luna scandisce la finestra gelata, il vento scuote i bambù.

*

Poesia scritta sul muro del tempio Konzo

Il vento fa rintoccare la cascata, gelido il suo suono.
Dalle cime, la luna: la finestra di bambù s’infiamma.
Sono vecchio, ora lo so, ed è così bello essere in montagna!
Muori ai piedi di una rupe, purificherai le tue ossa, è detto.

*

Visitare qualcuno, senza trovarlo a casa

Nove giorni di lavoro, un giorno libero:
ti ho cercato senza trovarti – torno a casa a mani vuote.
Mi meraviglia la tua poesia: riduce l’uomo all’osso. Ora capisco:
il tuo giardino si affaccia su un gelido rio, la neve avvinghia i colli.

*

Zaio, il mio antico discepolo, è venuto a trovarmi nella nuova casa, a Nobe. Ci siamo seduti intorno al fuoco per tutta la notte, parlando di cose degne di nota. Preparandosi a partire, gli ho donato questa piccola poesia, a significare la mia gratitudine.

Ho tagliato le canne per la mia nuova capanna:
voglio insediarmi in un’ansa deserta del monte.
Dovevi essere molto preoccupato: sei venuto
a cercarmi qui, in lontani dirupi. Abbiamo bruciato
insieme i rami secchi, abbiamo esaurito le parole:
infine, ascoltiamo la pioggia ghiacciata che sbatte
contro le finestre e ci detta le sue confessioni. 

*

Primavera, passeggiata in montagna

Radi capelli in testa, nodi argentati: chissà
se il prossimo anno, in primavera, sarò ancora qui.
Bastone di bambù, sandali di paglia, i campi;
fisso i ciliegi di monti: quanti sono?

*

Da mostrare al monaco di nome Figlio

Un uomo della Via bussa al mio cancello di sterpi,
vuole discutere gli elementi essenziali dello Zen.
Non arrabbiarti se questo monaco di provincia è pigro
e non apre bocca: ascolto i canti a squarciagola della tardiva
primavera, un villaggio di petali che fluttuano.

*

Su richiesta della laica Jigen

Chi ha comprato queste splendide vesti viola e d’oro
per rivestire il rosso grumo di carne di quel vecchio pazzo?
Quando gli astanti lo vedranno, non potranno che ridere:
speditelo nella sua verde dimora, in cima alla vecchia montagna!

*

Vita in montagna

Non cerco la fama, non mi impoverisce la povertà:
mi nascondo nelle viscere della montagna
lontano dalla polvere del mondo. Il cielo è freddo
chi ha cura di avvicinarsi a me? Fiore di prugno
sul ramo nuovo, nel bozzolo della luce lunare.

*

Pioggia autunnale

Guarda la luna prima di parlare: una luce rotonda
e immobile illumina il cielo. Se possiedi
l’occhio profondo del monaco, le piogge
autunnali, a sera, ti accerchieranno, accecandoti.

*

In posa

Siedo su rupi rocciosi: le gambe piegate –
sono solo. Non disprezzo i rumori, non assaporo
il silenzio. Senza pensieri, le nuvole si rincorrono.

Gruppo MAGOG