15 Novembre 2020

“Io poi scrivo non per i morti, ma per i vivi”. Paul Celan, vita che grida attraverso la poesia

Può piacere o no, ma gli ultimi decenni di dominazione asburgica in Bucovina (regione oggi divisa tra Ucraina e Romania) rappresentarono l’“epoca d’oro” della grande comunità ebraica di lingua tedesca che lì risiedeva. Lo ricordava ormai quarant’anni fa il medico Israel Chalfen quando, volendo ricostruire per quanto possibile infanzia e gioventù del poeta Paul Celan, che lì nacque (Czernowitz 1920), interpellò alcuni testimoni di quella regione sopravvissuti all’olocausto. E di Czernowitz, Chalfen arrivò a dire che era allora “città ebraica di lingua tedesca”.

Ricordare quel contesto oggi, a cinquant’anni dalla morte di Celan (per suicidio, a Parigi) è utile per apprezzare il valore della scelta da lui fatta dopo la morte della madre, fucilata dai nazisti nel campo di concentramento di Michajlovka (Ucraina): poetare e gridare il proprio orrore in tedesco, dunque nella lingua dei carnefici della madre. L’unica alternativa sarebbe stata tacere, ma a questa soluzione ha resistito quanto basta perché lo si potesse riconoscere ed amare come uno dei più grandi poeti del secolo passato.

Apolide per condizione e in grado di padroneggiare più lingue (tradusse in francese alcuni racconti di Franz Kafka e in tedesco poesie di Ungaretti), Celan decise di voler “parlare come la propria madre” e di voler fare esperienza della lingua in quanto “patria”, dove questa (in tedesco Heimat) non può che essere la poesia come “lingua allo stato nascente”: “La patria del poeta è la sua poesia, essa cambia da una poesia all’altra”, ha scritto.

Sebbene costantemente tentato dall’abitare la patria/poesia nella solitudine, nella lontananza dalla vita, Celan ha avuto sempre bisogno di un “tu” concreto e provocatore cui parlare della propria esperienza di “sopravvissuto”, cui “comunicarsi”.

Autore di poche raccolte poetiche ormai tutte a disposizione del lettore italiano (grazie a Einaudi e Mondadori e ai traduttori Bevilacqua, Ranchetti e Borso), per Celan il verso è il luogo dell’attesa del possibile manifestarsi di un “altro” in grado di liberare dal peso ingombrante della lucida memoria dell’orrore, “per questo la poesia, in quanto memore della morte, appartiene a ciò che vi è di più umano nell’uomo”. Lo spazio poetico celaniano è spesso dolorosamente frequentato da corpi e frammenti umani, che “stanno” (stehen), nel tempo, tra le ore e l’eterno, perché “l’incontro con la poesia appartiene al quotidiano e all’ovvio”, e “si tratta, come in ogni incontro, del qui e ora”. Quel “quotidiano”, a dispetto dell’esito tragico della sua vita, giunto dopo anni costellati da continue crisi psichiche, Celan lo ha amato intensamente, e proprio attraverso la lingua poetica, fino a gridare: “Le poesie sono passaggi: sta a te passare, vita!”   

Come nelle poesie, così anche in non pochi dei suoi aforismi e delle sue prose brevi (ora in nuova edizione da Mondadori col titolo Microliti, sempre a cura di Dario Borso) il poeta rumeno si rivolge a quel “tu” che è anzitutto il lettore: solo questi può rendere la poesia “attualizzabile”. E questo “tu” “è già lì, prima di arrivare”. Tanto da lasciare immaginare a Celan un “noi”, simile ad un ponte gettato tra poli in apparenza infinitamente lontani tra loro. Del resto, “un tratto essenziale del poetico” è “la sua pretesa d’infinito”, che “a dispetto della sua ripetutamente esperita e anzi risaputa irrealizzabilità, viene avanzata sempre di nuovo”.   

Con il testo a fronte (prima francese, poi rumeno, poi, per lo più, tedesco), la disposizione dei “microliti” è in ordine cronologico (dunque non tematico). Scritti in un arco di tempo molto ampio (tra il 1947 e il 1970), essi, secondo la stessa definizione di Celan, “sono pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua esistenza” e integrano alcuni, pochi tentativi in prosa editi. Più che gli abbozzi di racconto, poco comprensibili nella loro incompiutezza, sono le riflessioni sul “fare poesia” a risultare più riuscite ed interessanti. Anche perché sbocciate parallele al fiorire delle sue raccolte, o maturate per criticare la società letteraria tedesco-occidentale, con la quale, da ebreo che usava il tedesco per scrivere poesie dopo l’olocausto, non ebbe mai rapporti facili.

“Dopo Auschwitz”, sentenziò T.W. Adorno nel 1966, “nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile”. Celan gli rispose immediatamente dandogli prima dello spocchioso e poi scrivendo il seguente microlito: “Io poi scrivo non per i morti, ma per i vivi – certo per quanti sanno che ci sono anche i morti”.

Vito Punzi

Gruppo MAGOG