Strano destino incrociato, quello fra medicina e scrittura, eppure solcato da larghe schiere di grandi della letteratura dediti a tali mestieri e intime cure. Passiamo qui – almeno nelle terre d’Albione – dalle mani esperte dell’enciclopedico Sir Thomas Browne (autore della celeberrima Religio Medici) alla lira romantica di John Keats, le cui melodie conservano le panacee da banco del giovane apprendista apotecario, per spostarci – su diverse latitudini – all’apprezzato medico-drammaturgo di città e campagna Anton Čechov e all’insonne dottor Destouches (in fede Céline), per dare soltanto alcuni nomi esemplari.
Annoverato nel canone di questi noti talenti taumaturgici di assoluto e versatile genio, l’ibrida ed eclettica figura del poeta e critico tardo-vittoriano Robert Bridges svetta come un titano di rarissime doti. Proveniente dalle filepiù illustri dell’intelligentia britannica operanti nel campo della scienza medica, un altro “Eminent Victorian” – per dirla con Lytton Strachey – arroccato come un’aquila reale sulle cime più alte della storia letteraria inglese, è ricordato dall’amico poeta gesuita Gerald Manley Hopkins come scrittore dalle “dita di fuoco” ed eletto maestro della secolare tradizione lirica nazionale. Dopo aver frequentato i campi di Eton e attraversato da lì le aule del Corpus Christi di Oxford – dove strinse legami con il poeta-sacerdote accarezzando l’idea di vestire l’abito talare – esercitò per quasi quarant’anni la professione di physician presso il St. Bartholomew Hospital di Londra. Gli bastò poi un ascesso di polmonite a indebolirlo nel fisico, ma ardendo sempre di spirito scelse di vocarsi, dal 1882 in avanti, interamente alla carriera letteraria: perché, se l’anima va insieme al corpo, e il corpo consuma conservando l’anima, l’antica fiamma legittimava a vivere di inchiostro e passione oltre che di ferri e sangue.
Il successivo ritiro a Yattendon, residenza materna immersa nelle radure del Berkshire, costituì per l’infermo un felice sanatorio, più benefico degli affollati tubercolosari svizzeri o delle miti coste mediterranee, in cui vide di lì a poco una fruttuosa convalescenza. Come se venissero fuori da sé, mise su carta i più apprezzati drammi e sonetti che videro la luce dopo precedenti esperimenti, già sopraffini per profondità intellettuale e qualità stilistica. Pubblicate dapprima in forma sparsa e privata, le opere in versi sono raccolte nei sei volumi di Poetical Works (1898-1905), al fianco di altre miscellanee: Shorter Poems (1890), October and Other Poems (1920) e gli ultimi New Verse (1925).
Non solo poeta ma anche drammaturgo, scrisse una pletora di opere teatrali, tutte in versi. Tra le più fortunate, si ricordano quelle a soggetto epico-mitologico: The Return of Ulysses (Il ritorno di Ulisse) e Prometheus, the Fire-giver:A Mask in the Greek Manner (Prometeo donatore del fuoco: un Masque alla maniera greca), direttodiscendente della tragedia di Eschilo ed epigono del Prometeoliberato di Shelley. Sul fronte della composizione poetica, tra i modelli prediletti troviamo, oltre agli immortali classici greci e latini, i giganti Shakespeare e Milton, i giovani romantici – primo fra tutti Keats – e l’aureo Pope. A ognuno di questi dedicherà scritti coltissimi, riservando un’attenzione particolare per il dotto autore del Paradiso perduto, ritenendolo conforme più d’ogni altro a prestare la chiave alla pratica poetica. Fervente custode dei suoi numi ed erede novecentesco della grande tradizione miltoniana, in cui a tutti gli effetti s’iscrive, il medico-poeta decise infatti di auto-investirsi del compito di ispirare un rinnovato “metodo” di ritorno all’ordine, basato sul rigore della dizione e sullo studio attento della metrica. L’ampia produzione, pervasa dal respiro sei-settecentesco e costruita su una robusta struttura classica, deve proprio a Lucrezio, Milton e Pope il suo eccelso rigore formale.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, Bridges s’innanza tra i conterranei come un colosso: oltre al dotato teorico specializzato in stilistica e prosodia inglese, è il raffinato lirico e meteorico padrone del metro, insignito, dal 1913, agli onori di Poet Laureate d’Inghilterra (detenuto con fierezza fino alla morte nel ’30). Lodato col nastro dell’Ordine al merito, conferitogli appena un anno prima, il cantore del Kent non ha mai visto lesa in vita la memorabile e incrollabile statura da modello e il prestigio di più alto esponente del mondo delle lettere del suo tempo. Suo malgrado, quel seggio cinto d’alloro è andato a irrugginirsi nei decenni a venire, insieme al lustro goduto presso i contemporanei, ed è stato spesso scavalcato anche nelle più importanti e recenti antologie – quelle che si direbbero “far scuola” – dietro rari accenni generici e commenti inobliabili. Per colpa di una mutevole – se non trascurata – ricezione postuma e radicali mutamenti di sensibilità e gusto letterario intervenuti già nel cruciale snodo interbellico, col passaggio dalla letteratura del “vecchio secolo” alle correnti rivoluzionarie dei primi decenni del Novecento, la larga fortuna del Bridges è andata sempre più arretrando fino a cadere nell’oblio di un datato circolo antimodernista, soprattutto all’uscita del paese dalla Prima guerra.
Negli stessi anni in cui componeva un Eliot, egli primeggia come il classicista detentore del rispetto formale, polo gravitazionale delle anti-avanguardie e fedele continuatore della tradizione poetica precedente. Orgoglioso del suo compito, aiutò a fondare nel 1913 la Society of Pure English (SPE), riunita allo scopo di perseguire “un più solido ideale di purezza della lingua” (la cui naturale ‘impurità’ verrà difesa da Virginia Woolf – OnCraftmanship, 1937), assolvendo per questa il ruolo di professo linguista e militante divulgatore accademico. Fautore di quel graduale tentativo di rinnovamento che attraversò la poesia inglese in anni di cristallizzazione e decadimento di forme, stilemi e contenuti, volgendo lo sguardo al passato, mirava al confronto costante coi classici per edificare una nuova poetica fondata sul totale rispetto della forma tradizionale. Di fatto, aveva messo a punto e praticava egli stesso, fra i vari tipi di metro proposti sul piano teorico, quel che chiamò loose alexandrine, l’alessandrino sciolto: un particolare sistema di lunghezza variabile, a sei accenti, d’impronta miltoniana. Su tali basi articolerà una mastodontica riflessione critico-teorica delineata in scritti come Milton’s Prosody (1893) e altre lectures.
Come editore, invece, Bridges ebbe a cuore la reputazione poetica e la custodia dell’eredità letteraria di amici e contemporanei. A lui si deve, in primis, il merito di aver portato alla luce l’opera di G. M. Hopkins, riconoscendolo come libero sperimentatore del cosiddetto sprung rhythm – il verso a base di accenti anziché di sillabe, di matrice anglosassone. Tutte le liriche e i frammenti di versi sono inclusi in Poems of Gerald Manley Hopkins 1876-1889 (1918), introdotte da una degna prefazione a firma dell’amico. Lo stesso Hopkins gli rendeva lode per averlo risvegliato nell’animo e spinto a poetare con forza nuova, suggellando il debito nel componimento sotto le cui iniziali “R.B.” reca in devoto omaggio:
“Lo sperone appuntito e vivo come la fiamma di una cerbottana, Spenta più celere del suo scoccar, respira una volta sola Lasciando la mente nutrice d’un canto immortale […] Con scopo ora indubbio e mano al lavoro mai in errore. Il dolce fuoco padre delle Muse, di ciò ha bisogno l’anima mia; Desidero l’unico rapimento di un’ispirazione. E se nelle mie rime attardate andranno persi Il rotolio, il salto, il canto e la creazione, Il mio mondo appena svernato respira quella beatitudine E adesso te ne rende, con qualche sospiro, il conto”.
Dell’amicizia poetica e intellettuale tra i due, coltivata da una fitta corrispondenza durata fino alla morte del più giovane, testimonia il ricco epistolario Letters of Gerard Manley Hopkins to Robert Bridges (uscito in più volumi per le edizioni Oxford University Press) e lo studio dei loro rapporti in Robert Bridges and Gerard Hopkins, A literary friendship, a cura di Jean-Georges Ritz.
Durante i “Yellows Nineties”, l’eminente vittoriano operava in parallelo ai più noti decadents dell’epoca: all’altezza di Oscar Wilde, Ernest Dowson, Swinburne e al gruppo del “Rhymers Club” animato dalle personalità di W. B. Yeats e Lionel Johnson, suo temibile collega oxoniense, e contemporaneo di A. E. Housman (il rinomato latinista di Trinity, curatore delle opere di Catullo e Orazio, antichi modelli ai quali il Bridges era assai vicino). Ma forte del suo ideale e lontano dall’affiliarsi alle teorie estetiche e agli altri classicismi della fin de siècle di cui era circondato, egli aveva preferito percorrere in autonomia, pur non sempre isolato, una linea del tutto personale che rispecchiasse la propria teoria di poesia esposta nei celebri saggi critici di carattere teorico-letterario.
Giunto il nuovo secolo, nell’Inghilterra pre-modernista, la sua voce dall’eco romantica si dimostrò pressoché in linea stilistica e tematica con la corrente poetica guidata da Sir Edward Marsh. Da allora è stata quindi assimilata antologicamente, per certi versi, alle piume di Robert Graves, Edward Thomas, Lascelles Abercrombie, Walter De La Mare e Rupert Brooke, tra gli altri, pur superandoli nella cronologia (l’ultima Georgian Anthology uscì nel 1922, annus mirabilis del Modernismo). A questo cenacolo di poeti d’anteguerra, ciononostante, Bridges è oramai associato dai pochi che si sono avventurati nella sua polverosa ricezione letteraria. Eppure, il nucleo più autentico della sua poetica risiede non soltanto nell’esaltazione dell’idillio pastorale e della vita agreste di genuina gaiezza, tutta georgiana, quanto in un’assoluta aspirazione dell’anima alla bellezza classica. Ritrovata in antiche forme e sondata nella ricercatezza dei versi, seppe intagliarla come pochi scalfendo il suo segno sull’urna greca della poesia («Bellezza è Verità, Verità è Bellezza» il monito). Memore delle visioni di Blake e abituato l’orecchio alle odi di Keats, raffinava nel fuoco dell’eterno poetico, col suo abile tocco, gli istanti e le gioie offerte dal mondo naturale, riempiti di una spinta spirituale che mancò di approfondirsi nella maggior parte dell’esperienza georgiana, salvo forse nelle opere più suggestive di un De La Mare o un Brooke anteguerra. Come questi, Bridges affondava il suo ciclopico passo nel solco della grande tradizione romantica. E qui l’eco del romantico genio lare, che pervade un gran numero di componimenti, si fa più acuta. È il dolce canto dell’usignolo – o il richiamo al frullo dell’allodola shelleyana – che ritorna come inno alla bellezza eterna e alla celebrazione del creato, della segreta contemplazione della natura: una pura confessione del bello radicata nell’ascolto dei suoi suoni, riprodotti e scanditi da rime e versi all’apparenza semplici nel dettato ma dalle sillabazioni nette e strutturate, ampiamente meditate.
Segue, allo scoppio del primo conflitto mondiale, un triste interludio di accese poesie d’ispirazione bellica, che non risparmiano esaltate spinte di retorica nazionalistica e slancio patriottico diffuso nella cultura del tempo ancora esente dall’orrore della Somme. Con versi dalla linea tagliente e fiammante, in sinergia coi toni idealistici dei primi war poets, à la Julian Grenfell e il mitico Rupert Brooke, il poeta neoromantico lascia il passo all’intellettuale impegnato sull’home front. Il portavoce della nazione intona, dunque, il suo richiamo alle armi, teso a coinvolgere tutti i possibili militi e risvegliare l’intero paese, soprattutto in due testi di taglio marcatamente interventista: Hymn in War Time(Inno di un tempo di guerra) e Wake Up England (Sveglia, Inghilterra!).
Più avanti, negli anni del primo dopoguerra, la sua produzione poetica sembra mostrare una repentina battuta d’arresto, dovendo ridimensionare – come riuscì pure a Rudyard Kipling – lo smodato sentimento patriottico espresso nei primi giorni del ’14 con la rivalutazione delle atrocità del conflitto, esacerbata dal danno della ferita riportata in battaglia dal figlio Edward. Trovò comunque spazio per il lavoro scientifico e ufficiale a supporto della SPE, e sotto l’egida della Society compì nel 1924 un tour degli States, dove tenne conferenze nelle principali università, attirando l’interesse di scrittori, accademici e critici.
Già nel 1916, dopo aver cavalcato lo spartiacque tra due secoli, era tornato sulla breccia – ancora alive and kicking – con la copiosa antologia di poesia e prosa, pubblicata in inglese e francese, sotto il titolo The Spirit of Man (Lo spirito dell’uomo). Suddivisa per criteri tematici, la silloge racchiudeva, a suo parere, il cuore della civiltà letteraria occidentale, offrendo alla memoria collettiva dei posteri il suo personale “canone” d’elezione. Nello stesso periodo, aveva cominciato a stendere un lungo poema filosofico, riprendendolo e abbandonandolo più volte per l’ardua natura del compito: il testo doveva contenere, nelle intenzioni dello scrittore, ogni aspetto del reale, fondendo microcosmo e macrocosmo. Concepito già dal principio come uno sconfinato magnum opus, lo scritto mutuava dalla tradizione la forma e la sua ambizione di universalità – tra le prime ispirazioni, anche la Comedia dantesca – ma allo stesso tempo sgranava gli occhi davanti alla vorace spinta della modernità.
Dopo una lunga gestazione, il testamento lirico e spirituale dell’autore apparve come Testament of Beauty (Il testamento della bellezza), nel 1929, a pochi mesi dalla sua scomparsa. Costellata di sapienti citazioni e innumerevoli riferimenti biografici e alla società contemporanea, densa e criptica come un Canto poundiano, l’opera scritta interamente in “alessandrini sciolti” è un compendio di padronanza tecnica e sterminata conoscenza teorica che riflette l’eclettica cultura del grande studioso mescolata alla natura più intima del poeta. Sicuro del valore della sua penna, gli riuscì d’imprimere sulla pagina il favore accordatogli dalle Muse ancora una volta:
“Come il sangue cremisi inonda il cuor che batte per dotare di forza e bellezza il corpo animale, così lei in trascendente sfida investe il suo spirito con la gioia di un icore celeste, e dove trova favore di potenziale risposta dentro una mente feconda – L’anima vaga delle cose belle, disse la Fiorentina”.
Pierluigi Piscopo
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Delle liriche più rappresentative di Robert Bridges si propone una rosa di versi scelti, resi in traduzione, per ricordare e riscoprire questa nobile voce poetica rimasta purtroppo ancora inedita in Italia:
Tutte le cose belle amo
Tutte le cose belle amo, Le cerco e le adoro; Dio stesso non ha miglior lode, E l’uomo nella fretta dei giorni Ne è onorato. Anch’io farò qualche cosa, E contento sarò nel farla, Benché il domani assomigli Alle parole vuote d’un sogno Ricordato al risveglio.
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Languidi di bellezza ho gli occhi
Languidi di bellezza ho gli occhi, L’anima che brama la grazia divina; Provo né pena né speranza Quando alzo il volto al cielo.
Uno splendore si spande Da ogni stella lassù; Non appena pronuncio il nome di Dio, È subito Amore, un celestiale Amore.
E ogni cuore gentile, Che arde con vero desiderio, S’accende dagli occhi riflessi In ceneri di fuoco celeste.
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Fuoco del cielo, la cui freccia stellata
Fuoco del cielo, la cui freccia stellata Penetra il velo della notte senza tempo: Sfere dissolte, le cui tempeste restringono Le loro alluvioni a un raggio di tiepida luce: Per incantare con un raggio di luna spento dal fuoco La terra del piacere, la terra del desiderio! Sorriso d’amore, un fiore piantato, Cresciuto nel giardino della tua gioia: Occhi che brillano con un bagliore d’incanto, Le cui fiamme diffuse circondano il mio cuore, E riscaldano con un raggio del meriggio intriso di fuoco La mia terra del piacere, la mia terra del desiderio!
* Usignoli
Quale meraviglia devono essere i monti onde venite, E i luminosi ruscelli delle valli feconde In cui il vostro canto avete appreso: Dove sono adesso quei boschi stellati? Se solo potessi vagare là Tra i fiori che in quell’aria paradisiaca Sbocciano tutto l’anno! Non solo, ma sterili sono le montagne e aridi i ruscelli: Il nostro canto è voce del desiderio, tormento dei sogni, Uno spasimo del cuore, Le cui struggenti visioni svaniscono, punendo profonde speranze, Nessuna cadenza né alcun sospiro affannoso risuona In tutta la nostra arte. Soli, negli orecchi rapiti degli uomini Versiamo il nostro oscuro segreto notturno; e poi, Appena la notte si ritira, Dai dolci prati di primavera e i rami ricolmi di maggio, Sogniamo, mentre il coro infinito del giorno Accoglie l’alba.
*
Neve a Londra
Gli uomini dormivano beati quando la neve scese librando In grandi fiocchi bianchi, cadendo sulla plumbea città, Stendendosi morbida e ammucchiandosi in perenne segreto, Recando silenzio negli ultimi traffici sonnolenti; Attutendo, soffocando e smorzando in caduta i suoi mormorii; Pigra e incessante, scendeva giù, e più giù: Setacciando muta, nel suo velo, le strade, i tetti, le ringhiere; Livellava ogni spessore, arrotondando angoli aguzzi, Scivolando nel suo navigar in canti e fessure. Per tutta la notte cadde, e quando furono sette pollici pieni Giacque nelle profondità della sua leggerezza vana, E le nuvole si separarono da un cielo alto e gelido; E tutti si svegliarono per l’insolita luce Dell’alba invernale, per il grave e insolito bagliore: L’occhio si stupiva — e come si stupiva del candido nitore! L’orecchio ascoltava il silenzio dell’aria solenne; Nessun rumore di ruote rombanti né di passi cadenti s’udiva, I gridi delle faccende mattutine giungevano sottili e radi. Allora sentii i ragazzi chiamare, sulla via della scuola, Ché raccoglievano la manna cristallina per congelarsi La lingua assaggiandola, le mani colme di palle di neve; O si dimenavano in un cumulo, tuffandosi fino alle ginocchia; O sbirciando sotto la meraviglia muschiata di bianco, ‘Oh, guarda gli alberi!’ gridavano, ‘Oh, guarda gli alberi!’ Alcuni carri dall’esile carico cigolavano e inciampavano, Seguendo lungo la bianca via deserta Una compagnia di paese da tempo dispersa: Quando già il sole, in pallida mostra, Ergendosi accanto all’alta cupola di San Paolo, sparse I suoi raggi scintillanti e risvegliò il trambusto del giorno. Perché adesso le porte si aprono, e alla neve la guerra è dichiarata; E treni di innumerevoli uomini in abito scuro Calpestano lontani sentieri bruni, andando verso la loro meta: Ma pure per questi, ancora per poco, nessuna angoscia rovina Le menti distratte; la parola del giorno tace, Gli affanni del quotidiano lavoro e dolore riposano Alla vista della bellezza che li accoglie, prima d’infrangere la magia.
*La scelta e la traduzione dei testi sono di Pierluigi Piscopo