Apocalisse è libro che ci tiene sotto minaccia, sempre. In ventidue capitoli scanditi da visioni, belati deformati in ruggito, mastodontici abissi, Apocalisse, rotolo minimo, ignifugo, riassume il testo biblico e lo getta nel futuro, cioè nell’ora-e-qui perpetuo, promessa esagerata, inesaudita, inesauribile (“Io vengo tra poco”). Libro tridimensionale – cioè: che si vede, si sente, si tocca, da qui i simboli che stigmatizzano la storia dell’arte, del cinema –, parole a forma di sciacallo, di serpe, di giaguaro; libro, dunque, realizzato dai poeti prima che dai preti – perché i poeti evadono il legalismo esegetico in virtù dell’estasi, ascensione per endecasillabi, eversione della ghigliottina grammatica, dal braccio catecumeno – e che ai poeti, per profezia, fa ritorno.

Apocalisse “nella traduzione di Giancarlo Pontiggia” (De Piante, 2023) è, semplicemente, la riconquista di un testo per quintessenza lirico, da leggere per lacerazioni. Lo sbalordimento è ovunque:

“E un segno grande apparve nel cielo

Una donna vestita di sole
e la luna sotto i suoi piedi
e sulla testa una corona di dodici stelle
ed era incinta, e urlava
per le doglie e il travaglio del parto”

“E la bestia che vidi era simile a un leopardo
e i piedi erano come di orso
e la bocca come una bocca di leone
e il drago le diede la sua potenza, e il trono
e un potere grande”

“Poi vidi un altro angelo
e scendeva dal cielo con potestà grande
e la terra fu illuminata dal suo splendore
E gridò a gran voce:
Caduta, caduta è Babilonia la grande,
covo di demoni, prigione di ogni spirito immondo
e prigione di ogni uccello immondo
e di ogni bestia immonda e orrida”

Poeta tra i più importanti di oggi, Pontiggia coniuga all’istinto lirico la sapienza del classicista: ha tradotto Sallustio, Pindaro, Céline. Teurgia, liturgia, sacra putredine, innominabile gloria, battesimo nel sangue, ferocia d’Agnus che dal fondo dei fondi scaraventa anatema senza ornamento, alfa & omega, “colui che può tutto”, “che scruta reni e cuori”, legioni di angeli e turbe di cavallette, ammutoliti e mutilazioni, agnizione ed emanazione: tutto il mondo è nell’ampolla di Apocalisse, libro che va sussurrato con dedizione e animo puro, che scatena.

Grigia è la visione, satura di simboli primari, infine infeconda. Apocalisse schianta, occlude, è una stanza di vetro, sempre più piccola. La chiarezza si rivela torbida, immette nel torpore delle interpretazioni: ogni parola cela il frainteso, ogni figura la contraddizione. In effetti: Apocalisse non deve essere spiegata, ma vissuta, ripetuta, abitata, attesa. Il dato culturale – il magistero degli esegeti – è pura ambizione da filistei, qui; quello cultuale amnistia dal gesto. Il linguaggio apocalittico è cifrato e tale resta: sprigionare il vero significa cambiare vita, una conversione, per lo più, di forma, d’urlo e di postura. Correre a quattro zampe per le strade, e tradire, finalmente, l’impaccio umano – non altro è convertirsi. No: guai a disserrare i sensi di Apocalisse; rischiamo la delusione: nel forziere non c’è che vento, incenso vecchio di millenni, un dio che si è volatilizzato; l’interprete e i suoi parolieri. Il sacro, appunto, non va spiegato né divulgato: va sragionato, semmai, cantato. Tanto: i cieli non si apriranno, il Bambino non squarterà il Drago, le cavallette con il viso da uomo, i denti da leone e la coda di scorpione non appariranno, non ne siamo degni – oppure, Apocalisse accade, continuamente, quotidianamente, perfino nell’abulia dell’orante, lingua che tintinna al giogo del niente.

Apocalisse, ecco, è una stanza di vetro, larga appena quanto le tue braccia. L’ampiezza è impossibile, più la premi più lei si restringe; più la leggi più diventa oscura. La visione è un’illusione: Apocalisse induce a cecità, trave di cristallo conficcata nell’iride. La perentoria evidenza dei simboli, esclude ogni mistica, mastica ogni tentativo d’immaginazione. Apocalisse non spalanca una poetica; spianta da ogni retorica o idealismo letterario o simbolismo da istrioni e da bibliofili. All’estetica Apocalisse sostituisce l’estatica – di certo, c’è chi sa levitare intonando con sapienza Apocalisse. Il rotolo che serra la Bibbia è anche quello che cuce le labbra: nessuna creatività è possibile oltre a quella imposta da Giovanni. Apocalisse, ancora, non apre alla visione: reclude nell’attesa – tutto è sempre ora, qui, adesso, nella guerra a morsi tra falsi profeti, maghi bastardi, rari giusti – con lingua che atterrisce per minaccia, appunto, tiene sotto ricatto.

Così, in previsione di nuove oscurità, ho rintracciato Giancarlo Pontiggia.

Nello scritto introduttivo citi Apocalisse tra le letture di ragazzo, di poco antecedente alla scoperta di Baudelaire e Rimbaud. Scrivi che «la rivoluzione romantica» ti pare «lo scoppio ritardato di una bomba che Giovanni… aveva collocato in una piccola isola dell’Egeo». Cosa significa? O meglio: può un libro “sacro” essere “poetico”? Liturgia letteraria, sacralità data dall’esuberanza lirica, continuo sacrilegio delle forme? Dimmi tu.

Chiunque legga Baudelaire o Rimbaud, sente che la loro lingua non è più quella dell’Occidente romanzo che aveva generato Petrarca e Ariosto, la Pléiade o Racine. Parlo di forza immaginativa, del modo di far vibrare una lingua, di sentirne i pesi che sempre fluttuano sulla bilancia del mondo.

Nella stessa Commedia dantesca, in cui pure – e per la prima volta – il sublime si mescola con l’infimo, nella violazione di ogni stile, la memoria dei testi sacri e la costruzione dei singoli quadri passa per un ordine del pensiero e della forma che era ancora di Virgilio e di Aristotele. Ma quando leggi Les Fleurs du mal, senti che qualcosa è accaduto, e forse per sempre: il verme che rode come un rimorso il corpo della bella tenebrosa di Remords posthume, o l’universo tristissimo in cui si muovono, nella notte, l’Orrore e la Bestemmia di De profundis clamavi, l’inquietante bestiario su cui va a concludersi la poesia Au lecteur, vengono da un sentimento nuovo, drammatico e piagato, della vita, che è già prefigurato in molti dei testi sacri: la bomba è scoppiata, e Rimbaud lo capisce subito, senza più neanche dover passare per gli estetismi parnassiani di cui Baudelaire si era nutrito. I sogni pagani di Soleil et chair, che il ragazzo neanche sedicenne invia a Banville, hanno già fatto esperienza della «fornace di oricalco infuocato» dell’Apocalisse, tanto che Rimbaud sente il bisogno di accompagnare il suo inno affollato di ricordi lucreziani con una citazione blasfema del Simbolo di Nicea: Credo in unam sanctam catholicam ecclesiam.

E quando leggi una delle poesie più memorabili di Osip Mandel’štam («Manca il respiro, il firmamento brulica di vermi, / non una sola stella parla, / ma, Dio lo vede, sopra noi c’è la musica, / la stazione vibra del canto delle Aonie, / e squarciata dai fischi delle locomotive / di nuovo l’aria saldano i violini»), senti subito che in quella rappresentazione del mondo le Aonie, cioè le Muse, si sono ormai immerse nei lavacri sulfurei dell’Apocalisse di Giovanni; e che quei cieli brulicanti di vermi, quelle stelle che non possono più parlare hanno fatto esperienza delle tubae sanctae che da secoli continuano a scuotere i  sigilli del Giudizio.

Non ci voleva molto perché il ragazzo forse troppo sensibile che ero, chiuso nel fondo di una provincia sonnolenta, percepisse gli stridii e i clangori di quelle lingue nuove. Ed ecco scoperchiato il pozzo di Abisso, in cui il sole stesso va a intenebrarsi, dell’Apocalisse: e siamo en enfer: ci siamo per sempre, senza via d’uscita. Così, almeno, nei versi inferi di Rimbaud.

Il paradosso è che il furore immaginativo dell’Apocalisse sia penetrato nella nostra coscienza e nella nostra lingua poetica proprio mentre le filosofie moderne, da Voltaire a Nietzsche, annunciavano che Dio è morto. E forse è proprio perché Dio è morto che la poesia si è man mano fatta carico, tragicamente, di quella mancanza. Noi viviamo in un anfratto della storia in cui nulla può più essere sacro, e dove però tutto può essere risacralizzato entro una dimensione di drammatica soggettività. Proprio l’assenza di una linea di confine tra sacro e profano autorizza l’eccesso dei linguaggi, e una sorta di investitura suprema del poeta che apparterrà pure all’età del simbolismo e del post-simbolismo, ma che continua – spesso in modo inavvertito – ad abitare nelle coscienze poetiche della nostra contemporaneità. Più il sentimento del nulla ci assedia, più la lingua della poesia si sacralizza, ma a vuoto, e senza più alcuna corrispondenza con la realtà delle cose.

Evochi, a un certo punto, una giovinezza “marcionita”. Cosa intendi dire? E che rapporto hai con l’istituzione clericale, il cattolicesimo, il testo sacro? Preciso: ha ancora senso dire che la Bibbia è il “grande codice” della nostra cultura?

Un marcionismo inconsapevole, come ho scritto nella prefazioncina dell’Apocalisse. Non mi permetterei mai di entrare nelle molte questioni che riguardano Marcione, dei suoi eventuali legami con la Gnosi, e delle sue tesi, che com’è noto ci sono giunte obliquamente, soprattutto negli anfratti dell’Adversus Marcionem di Tertulliano. Un libro, fra l’altro, che fu scritto negli anni della sua adesione all’eresia montanista, e da un uomo di grandi contraddizioni. Ma la distanza fra il Dio dell’Antico Testamento e Gesù mi ha sempre inquietato: e tanto più allora, perché ero in un’età ancora ingenua, non ideologica, non prevenuta insomma. Episodi come quelli di Caino e Abele o di Abramo e Isacco sembravano appartenere a un’altra era della storia, e a un’altra dimensione della vita religiosa: la Giustizia e la Legge del Padre ferivano il mio cuore, e lo facevano fremere, sempre a un passo dalla rivolta e dal rifiuto.

E posso aggiungere che se il mio cuore è sempre stato cattolico, è perché fin dall’infanzia ho percepito il cattolicesimo come una religione monoteista nella dottrina, politeista nelle pratiche devozionali: e alludo ai culti dei santi e al culto mariano, che sono la vera essenza della devozione popolare. Non ho mai conosciuto alcun cattolico che pensasse a Dio, voglio dire il Dio di Israele: l’inquietudine che provocava in me la dissonanza fra Antico e Nuovo Testamento, si placava non appena girovagavo tra le cappelle di campagna dove campeggiavano le storielle devozionali, così commoventi, così rassicuranti, di Maria e di Giuseppe, di san Lorenzo o di san Biagio, di san Giovanni, san Martino, san Rocco. Tragico è il cristianesimo di Lutero e di Calvino, non certo quello rurale e paganeggiante delle campagne lombarde della mia infanzia.  

Domanda al traduttore di Sallustio, di Pindaro, dei Disticha Catonis: qual è la lingua di Giovanni, cos’è quel greco, da dove arriva e dove va?

Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, non è verosimilmente il Giovanni autore del Vangelo, anche se è bello immaginarlo; e ben sapendo che le leggende rivitalizzano la realtà, come le finzioni dei poeti e le utopie dei grandi filosofi. E dunque bisognerebbe stare sempre attenti a “smascherare” le costruzioni fantastiche dell’uomo, senza considerare quanta realtà potenziata era in quelle costruzioni. Quando studiavo Storia medievale in Statale, il Movimento studentesco si accanì contro il prof. Martini perché parlava del segno della croce di Costantino come se fosse un fatto storico e reale: ma anche se non lo era – e non lo era – aveva però finito per diventarlo.

Ma tu qui mi chiedi della lingua, il che ci porta a dover dare un’identità all’autore dell’ultimo libro sacro: un giudeo cristiano che doveva conoscere molto meglio l’aramaico e l’ebreo biblico, e che pure decide di scrivere in greco perché si sta rivolgendo a un mondo greco, quelle delle sette chiese di cui si parla nell’esordio dell’Apocalisse. Un greco semitico, come è stato osservato, che era poi quello che dovevano usare i commercianti fenici lungo le rotte del Mediterraneo, non esente da errori di natura lessicale e sintattica. Edmondo Lupieri, che ha introdotto e commentato magnificamente l’Apocalisse in un volume della Lorenzo Valla uscito quasi venticinque anni fa, ha inquadrato la lingua di Giovanni come un «fenomeno di plurilinguismo». Nondimeno, resta il fatto che una lingua così fortemente ibridata, e che probabilmente sarebbe stata considerata con disprezzo da un dotto dell’epoca, deve sostenere un impianto visionario-profetico, articolato per quadri potenti e scenografici, dentro i quali irrompe una materia che è infera e celeste, numerologica e cosmologica. Per aderire a una lingua come questa, bisognerebbe essere capaci di essere letterali oltrepassando la lettera: di rispettare l’ordine misterioso – misterioso perché sacro, come avvertiva Gerolamo – delle parole, ma facendo sentire ciò che pullula dentro quell’ordine, e dunque facendo vibrare ogni singola parola nella sua spinta verticale. Siamo in ogni caso ben oltre il realismo cristiano di cui ha parlato quasi un secolo fa Auerbach: dentro la sostanza di una lingua visionaria e oltranzistica, carica di furori e di contraddizioni, perfetta per dar corpo all’anima lacerata della modernità.

Chi sono gli “eredi” letterari di Apocalisse? In quel nudo grido non scorgiamo perfino le invettive di Céline, i mostri di Lovecraft, gli orrori odierni? Non è forse l’Apocalisse il testo super-attuale, che supera ogni attualità traducendola in segno, in mattatoio di segni?

Vorrei risponderti partendo da un confronto: l’Apocalisse è un libro che per certi aspetti si pone in antitesi con le Lettere paoline. L’affermarsi di un nuovo modo di pensare la scrittura, dall’età romantica in poi, corrisponde in fondo al passaggio da un’età paolina a un’età apocalittica della cultura cristiana.

E penso a Mea culpa: l’uomo che si precipita «verso la morte a gran colpi di materia», l’uomo che è «umano quasi quanto la gallina vola», l’uomo che si avvia a un «avvenire estetico», in cui «più nessuno sarà lasciato tranquillo», l’uomo sopraffatto dalle macchine, che rappresentano «l’infezione stessa, la disfatta suprema», l’uomo che non vuole più verità, ma solo fandonie, l’uomo che si avvia a un «sistema comunista senza comunisti». Bisognerebbe farlo leggere ai sociologi del nulla che hanno occupato i giornali e le università dell’ultimo secolo, questo infame libello: una riga di Céline, sotto questo aspetto, vale più di tutti i loro compíti mattoncini.

Però permettimi qualche riflessione. La prima è che già il titolo del libello viene dal Confiteor, dove l’orante deve fatalmente confessare di aver peccato, anzi «molto peccato», cogitatione, verbo, opere et omissione: il peccato è l’uomo, che è il fondo del discorso céliniano. Confutando Feuerbach, Céline sostiene che l’uomo non è solo ciò che mangia: peggio delle sue «trippe», c’è il suo petit cerveau joli, il piccolo impudente cervello che nessuno potrà mai raddrizzare. E dunque l’uomo non è altro che ordure, merde; né basteranno le opere per salvarsi. Il cristianesimo, agli occhi di Céline, è la dottrina che ha smascherato l’uomo, e l’ha restituito alla sua verità di niente. Solo la Grazia potrà salvare qualche anima sperduta nel gran mare dell’essere, quella Grazia su cui va a concludersi l’Apocalisse, lasciando però intatto il nodo di furia e di tragedia, di inquietudine permanente, in cui vengono a trovarsi lettori e devoti. Céline è davvero uno dei tanti figli di Giovanni, e dei rotoli di Patmos. E non lo è solo nel suo antiumanesimo senza riscatto, ma anche nello stile visionario e farneticante, contraddittorio e potente con cui si esprime.

Un distico, un verso, un brandello della “tua” Apocalisse che ti ha stupito, che lacera: ricalcalo e dammene ragioni.

L’Apocalisse chiude il canone dei testi sacri, e lo chiude con gran stridii e clangore di trombe:

«Guai, guai, guai
a chi abita sulla terra
al suono degli ultimi squilli di tromba
dei tre angeli che stanno per suonare»

leggiamo nella chiusa dell’ottavo capitolo. Ma in greco l’onomatopea iniziale è ben più forte: οὐαὶ, οὐαὶ, οὐαὶ è il grande gemito che si alza dal fondo della terra. I conforti di questo libro sono sovrastati dai sibili dei flagelli, dai colpi d’ala degli angeli e dei demoni, dagli urti e dai vortici che investono ad ogni passo il lettore. Niente potrà più trovare pace, dopo lo scioglimento dei sigilli, niente sarà più certo: è questo il messaggio che si alza da quei rotoli. Un messaggio che sembra spazzar via tutti i Campi Elisi e tutte le Arcadie di un tempo, consegnandole a un passato remoto che qualcuno potrà un giorno percepire come felice, ma sempre nella dimensione della nostalgia, di qualcosa che non potrà più tornare.

**Nell’articolo e in copertina, immagine dal ciclo di William Blake, “Great Red Dragon”

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