07 Aprile 2022

“Sorrise gonfio di gioia...”. Robert Louis Stevenson, poeta

Chi pensate che sia uno scrittore? E quanti libri può aver nascosto nel cassetto? Se poi uno scrittore fosse anche poeta, la cosa si farebbe alquanto interessante, non è forse vero? Sarebbe questo forse il caso ‒ fra i tanti ‒ di Robert Louis Stevenson. Difatti, di Stevenson (Edimburgo, 1850 – Upolu, isole Samoa, 1894), uno dei più grandi scrittori di ogni tempo, tutto il mondo conosce alcuni capolavori: L’isola del tesoro, magica epopea della pirateria su cui s’innesca il motivo ulissiaco dell’insaziabile curiosità dell’uomo, della sua sete di avventura, o Lo strano caso del Dottor Jeckyll e di Mr Hyde, terribile parabola sulla doppia natura dell’uomo e l’impossibilità di separare il bene dal male. Ma ben pochi conoscono le poesie, scritte da Stevenson quotidianamente come commentario e accompagnamento alla giornata. Poesie d’occasione, quasi concepite come un momento di riposo tra un romanzo e l’altro.

Ciò nonostante, esattamente le poesie rispecchiano in sé l’enigma di ogni vero esploratore di mondi immaginari che ‒ paradossalmente, e per fortuna ‒ ricalcano nell’onirico metaforico la realtà, incastonandosi come gherigli nel guscio dell’umano sentire; per defluire, nella notte, attraverso lo specchio di una fiamma, che unica può dar ombra a ciò che siamo veramente.

E Stevenson in ciò è maestro. Non gira attorno. Dice, tutto sommato, le cose come stanno. Ed è un piacere leggerlo in una veste insolita quanto misconosciuta. Ma non per questo, da trascurare.

Non dire di me che ho rinunciato
alle imprese dei padri e che ho fuggito il mare,
le torri che abbiamo edificato e le lampade che abbiamo acceso,
per chiudermi nella mia stanza
e giocare con la carta come un bambino.

Sicché, in questo gioco d’ombra che è poi un lavoro a tutti gli effetti, io lo posso ben capire. Nasco poeta. Ma per poter permettermi il lusso di scrivere romanzi e poesie, devo ammettere il dovere quotidiano di andare a lavorare ogni mattina e guadagnarmi da vivere. Cosa, questa, che non accade scrivendo.

Tuttavia, la fatica è la medesima. E non vi è strada migliore, almeno credo, per poter praticare la scrittura e la lettura se non la notte: in quel crepuscolo che tutto stringe nel silenzio ebbro di comprensione, nel quale nulla e nessuno potrà mai venire a osteggiarci.

Insomma, bisogna far fatica. Che sia persino doppia. Soprattutto, però, bisogna perseverare nella scelta definitiva. Quella che di un’essenza, estrapola la linfa d’argento, nutrimento del cuore e dell’anima. Per questo si scrive nella consapevolezza della rinuncia, soli contro il mondo, eterni sognatori dell’antico presagio…

Di’, invece: Nel pomeriggio del tempo
un figlio vigoroso ha spolverato le mani
dalla sabbia di granito, e guardando lontano
lungo la costa mugghiante le sue piramidi
e gli alti monumenti catturare il sole che muore,
sorrise gonfio di gioia, e a questo compito infantile
ha dedicato, davanti al fuoco, le ore della sera.

(Giorgio Anelli)

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