Era un caldo autunno, fango e pioggia mi scorrevano nelle vene. All’epoca, per svegliarmi, aprivo ogni mattina Le trecento poesie T’ang – l’antologia, a forma di prisma, che raduna il meglio della poesia cinese – nella traduzione nobile di Martin Benedikter. L’occhio, un giorno, cadde su questi versi:
Piove dirottamente nel bosco solitario,
il fuoco e il fumo sono lenti.
Sugli sterpi cuoce l’erba, s’appronta il miglio
da portare sui campi dell’est.
A distesa sulle campagne annegate nell’acqua
vola il bianco airone.
Nella solitudine fonda d’alberi estivi
canta il giallo rigogolo.Tra i monti mi è cara la pace,
contemplo l’ibisco d’un solo mattino,
sotto i pini al mio digiuno
raccolgo la rorida malva.
Invecchio in campagna insieme con gli altri.
Son cessate le beghe rivali.
Ai gabbiani di mare che serve
diffidare ancora l’uno dell’altro?
O ancora, nella pagina successiva:
In solitudine sedendo nella celata selva dei bambù
al tocco del liuto fischio note sospese.
Nel segreto del bosco non vedo alcuno:
chiara la luna giunge con la sua luce.
Scorro l’indice, alla ricerca dell’autore. Wang Wei. Un nome che risuona come un colpo di gong nel silenzio della foresta.
Nato in una famiglia aristocratica, Wang Wei (699 – 759 d.C.) scalò rapidamente le gerarchie della corte dei T’ang. Riuscì, a ventuno anni, a superare il temutissimo esame imperiale, classificandosi al primo posto; seppe accattivarsi le simpatie dell’imperatore grazie a un notevole talento musicale, a quei tempi, pare, parecchio apprezzato in un consigliere; eccelso artista, inventò una nuova tecnica di resa del paesaggio, la pittura a inchiostro monocromo, usata nei secoli successivi in Cina e in Giappone (in seguito, diranno di lui che “le sue poesie erano quadri, e i suoi quadri poesie”). Ma oggi che delle sue canzoni non resta nulla, e che dei suoi dipinti è sopravvissuta giusto qualche sbiadita copia, ricordiamo Wang Wei soprattutto come un grande poeta. Paradosso della poesia: pratica nascosta, notturna, svolta senza guadagno, in esilio in questa vita, diventa, con la morte, la grande eredità di un uomo.
L’intera opera poetica di Wang Wei – un corpus di quattrocento poesie, di cui Einaudi, oltre che nell’antologia T’ang, ci donò una ventina di frammenti nel sottilissimo Poesie del fiume Wang (1956, sempre a cura di Benedikter) – è stata pubblicata per la prima volta da Luni nel ’94, con il titolo Le stagioni blu. Quest’ultima edizione, per altro fuori commercio, è tuttavia una ritraduzione dal francese. Eppure, in Cina, Wang Wei, insieme a Li Bo e a Du Fu, viene riverito come uno dei grandi poeti della nazione; né bisogna dimenticare che, negli Stati Uniti, intere generazioni di autori, da Ezra Pound a Gary Snyder, hanno forgiato la propria lingua attraversando anche l’incudine del letterato tan’g. Più di recente, Eliot Weinberger ne fa il protagonista assoluto di un saggio sulla traduzione, dal titolo 19 Ways of Looking at Wang Wei, mentre Charles Wright, tra i massimi poeti viventi, in una delle sue poesie, “After Reading Wang Wei, I Go Outside to the Full Moon” – tratta dall’immane autoantologia intitolata Oblivion Banjo (2019, Farrar Straus and Giroux) – si rivolge, quasi fosse un caro fratello, proprio all’antico poeta:
Di nuovo qui, la vecchia neve è simile a torte merlettate,
Biancheggiante e fragile nell’erba alta.
Rimorso, rimorso, l’oscuro ronzio.
Il corpo è la causa del dolore,
Non c’è riposo tra le panche nere degli alberi invernali,
Non c’è riposo tra le nuvole.
Vecchio mio, scenda la pietà su di noi,
Tu in Cina tra la polvere, io su questa sponda della mia vita passata,
Il sale nella luce del cielo.
Paesaggio solitario. Morsa del mondo.
L’assoluto, piccolo come una fiche da poker, si allontana,
Nitida la luna fra i pini riluce.
Come spesso avviene nella poesia di Wright, i versi in corsivo sono citazioni: troverete, in fondo alla pagina, la poesia in cui Wang Wei scorge “nitida la luna che fra i pini riluce”.
Dopo una vita di successi mondani e di sventure politiche, Wang Wei, questo antenato di Thoreau, si dedicò al romitaggio tra i monti, consacrando il resto della propria esistenza alle passeggiate sotto la luna, al silenzio dei monasteri. Oltre che nelle poesie, un ricordo del suo vagabondare si trova nella Lettera della montagna, diretta all’amico Pei Di, anch’egli poeta. Tradotta nel 1919 da Arthur Waley in More Translations from the Chinese, la lettera colpisce non solo per la bellezza delle descrizioni, ma anche per il forte sentimento di amicizia che lega Wang Wei a Pei Di (“Penso molto ai vecchi tempi: a come, mano nella mano, camminavamo lungo tortuosi sentieri fino alle rive di limpidi ruscelli, componendo poesie”). Più giovane di quindici anni rispetto all’amico, di Pei Di, purtroppo, non si sa quasi nulla: tuttavia, il legame che unisce i due poeti è sigillato per sempre dalle poesie che, insieme, scrissero nella valle del fiume Wang, tra i monti Qinling, a sud dell’antica capitale T’ang, Chang’an. A proposito di quel felice soggiorno, Benedikter, nell’introduzione al volume Einaudi, riporta un aneddoto tratto da una Storia antica dei T’ang:
“L’acqua del fiume scorreva sin sotto la sua capanna [di Wang Wei] e, serpeggiando, bagnava l’isola di bambù. Con Pei Di, suo amico e compagno nel Tao, si aggirava in barca, remando e suonando l’arpa, poetando e declamando a voce distesa per giorni interi. Le poesie che nacquero in quei luoghi di comune soggiorno, presero il nome di Racconti del fiume Wang”.
Negli ultimi anni, dicono di lui i biografi, Wang Wei “bruciò incenso, e sedendo in solitudine, si dedicò alla meditazione e alla preghiera”. Voci mischiate alle ceneri, fluttuanti nell’aria: dunque è questo ciò che resta dei poeti?
Simone Fontana
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Lettera della montagna, Wang Wei a Pei Di (Traduzione da Arthur Waley)
Negli ultimi tempi, durante il mese dei sacrifici, il tempo è stato calmo e sereno, e avrei potuto facilmente attraversare la montagna. Ma sapevo che eri in compagnia dei Classici e non osai disturbarti.
Così vagai per il fianco della montagna, mi riposai al tempio Kan-p`ei, cenai con i sacerdoti e, dopo, tornai a casa. Andando verso nord, attraversai lo Yuuan-pa, sulle cui acque la luna priva di nubi splendeva abbagliante. Quando la notte era ormai avanzata, salii sulla collina di Hua-tzuu e vidi il riflesso della luna abbassarsi e incresparsi sulle onde impetuose del fiume Wang.
Sulla montagna invernale, luci lontane scintillavano e svanivano; in qualche viottolo profondo oltre la foresta un cane abbaiava nel gelo, il suo ululato era feroce come quello di un lupo. Il rumore degli abitanti del villaggio, che di notte macinavano il mais, riempiva i silenzi nei rintocchi di una campana lontana.
Ora sono seduto, solo. Tendo le orecchie, ma non riesco a sentire i miei stallieri e i servitori muoversi o parlare. Penso molto ai vecchi tempi: a come, mano nella mano, camminavamo lungo tortuosi sentieri fino alle rive di limpidi ruscelli, componendo poesie.
Dobbiamo attendere l’arrivo della primavera: quando l’erba germoglierà e gli alberi fioriranno. Poi, vagabondando insieme tra le colline primaverili, vedremo le trote saltare leggere nel ruscello, i bianchi gabbiani sciogliersi le ali, la rugiada posarsi sul verde muschio. E al mattino sentiremo il grido dei chiurli nei campi d’orzo.
Non manca molto. Sarai con me, allora? Se non conoscessi la tua intelligenza, non oserei rivolgerti questo invito con così largo anticipo. Capirai che un sentimento profondo detta questi pensieri.
Scritto, senza mancanza di rispetto, da Wang Wei, un abitante delle montagne.
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Da Le trecento poesie T’ang (trad. di M. Benedikter):
Tardo negli anni sola quiete amo,
le diecimila cose non mi serrano il cuore.
Dinanzi agli occhi, non grandi disegni,
nel vuoto io tendo verso le selve antiche
Tra i pini il vento spira,la cintura dislega,
nei monti la luna splende sul sonoro liuto.
Tu domandi ragione di mala e buona sorte…
canto di pescatori scende l’ultima riva.
*
Per la montagna siamo venuti insieme.
Tramonta il sole, chiudo l’uscio silvestre.
A primavera verdeggerà l’erba novella:
gentile amico tu ritorni, o non torni.
*
La vuota montagna rivive di pioggia,
il cielo e l’aria volgono all’autunno.
Nitida la luna fra i pini riluce,
limpido il fonte le rocce trascorre.
Risuonano i bambù, ritornano le belle del fiume.
Si muovono i gigli, discende la barca del pescatore.
Lascia la primavera espandere e morire,
solo tu, mio signore, che mi possa restare.
*
Da Le Stagioni Blu (trad. di L. Bonomi):
Bianca, pura, luminosa stella là in alto
nell’immensità del cielo dell’alba –
Le sofore nebbiose non lasciano andare la notte,
i corvi del bastione se ne volano via gridando.
I primi rumori cadono dall’alta torre,
il padiglione del guardaroba è ancora indistinto.
Le candele d’argento s’allineano –
I cocchieri solenni passano le porte d’Oro.
*
Sguardo fisso all’abbandono –
Dissipa un attimo la mia pena.
L’erba azzurra saluta l’acqua limpida,
le nubi bianche vanno alla deriva
tra le creste turchesi.
La riva alle mie spalle raggiunge il fiume Wei,
i monti di fronte abbracciano Yen e Ying.
I pini acchiappano le voci nel cuore del vento,
il fiore guarda il suo riflesso nello stagno.
La malaria del re di Qi infesta i luoghi,
i gozzi di Jing-Zhou sfigurano la gente.
Vano sogno di scrivere col pennello rosso –
I pozzi di cinabro non esistono.
Il mio cuore è sempre alla fine d’una pena,
i miei capelli, inestricabilmente arruffati.
Sulle stuoie verdi il sole è durato –
Alla pigra porta il giorno si smorza.
In me, sprofondato nei pensieri sotto la tettoia,
la bellezza del paesaggio allarga la sua ferita.