La prima cosa è la necessità della riconoscenza, la tratta dei maestri, la caccia. Dico questo a Maria Antonietta, la cantante, intanto. Un cantautore pare sul trono dell’ego, spavaldo agli occhi dei fan, spadroneggia quartine, endecasillabi, intelligenza. Lei, invece, si cela all’ombra dei maestri. Tra le Sette ragazze imperdonabili (Rizzoli, 2019) incuneate da Maria Antonietta nel suo “Libro d’ore” c’è anche Etty Hillesum, la donna capace di vedere una benedizione nello sterminio. “Talvolta, ora, inginocchiarsi diventa un’urgenza irresistibile”, scrive la Hillesum nel suo diario. Di questa necessità di abbandonarsi, di cedere, bisogna dire, aderire. E scrive, poi. “Io, sono di un’ambivalenza sconvolgente”.
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Rimini, sabato, primo incontro del ciclo “Nemesis”, Museo della Città. Vorrei convincere Maria Antonietta ad adorare la Pietà del Giambellino, ma lei si orienta verso le crocefissioni, così crude, del Trecento riminese. Io paganeggio, sto nei paraggi dell’idea del corpo, lei è incarnata: il cristianesimo è pasto.
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Mi parla degli anni della solitudine, del desiderio di concludersi al di là della musica, di scendere dal palco tuffandosi in altre vertigini. Quattro anni. Tra Sassi e Deluderti, suppongo. “Quattro anni nel mondo della musica sono una eternità”, dice. Agli occhi degli altri pare riottosa. È una che non arretra. Sul braccio destro si è tatuata Giovanna d’Arco. Così fa parlare la vergine guerriera nel suo libro: “Io assomiglio a un sasso, uno di quelli freddi e inermi dall’inizio del mondo, entità incapace di pensare, un grumo di essere solo lievemente consapevole della propria stessa vita. In uno stato quasi d’incoscienza, ripercorro la strada di terra che attraversa il villaggio, questa volta al contrario, nel fresco della notte, superando le case e i piccoli recinti delle capre sul fianco del ruscello d’argento”.
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Quando dice “sono cattolica”, lo dice senza indecisioni. Così, le parole che ci scambiamo, dedizione, obbedienza, stare nell’arte come in un monastero, hanno un valore diverso. Non più astratto – per indorare una intenzione vaga, a vigore di pubblico, uno yoga dell’assoluto – ma di claustrale concretezza.
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Se si è sé, riconosciuti al proprio talento, a un destino che è un viaggio indirizzato dall’altro, si diventa ostacolo, spina, contraddizione, carne che ulcera. In fondo, Maria Antonietta scrive del privilegio di essere antipatici, atipici. “Non si sono piegate ad alcuno stereotipo, non si sono conformate a nessun cliché, non hanno compiaciuto nessuna aspettativa. Sono state per lo più impazienti. Sono state radicali e poco accomodanti. Sono state tremendamente oneste. A dirla tutta sono state piuttosto antipatiche”.
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Come si sa, le poesie di Cristina Campo sono rade, rare. La sua attività lirica, piuttosto, è un gesto di costante, penetrante riconoscimento. Ha prestato il suo verbo, che tintinna come una legge e un canto, instaurando patti con John Donne e Giovanni della Croce, con Emily Dickinson e William Carlos Williams, tra i tanti. Amo questa poesia, che ha letto con nitore malatestiano Gianluca Reggiani:
Maria Luisa quante volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città turrite?
La primavera quante volte
turbinerà i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue orme
sconsolate – a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non basterà tutto un Natale
A scambiarci le favole più miti:
le tuniche d’ortica, i sette mari,
la danza sulle spade.
“Mirabilmente il tempo si dispiega…”
ricondurrà nel tempo questo minimo
corso, una donna, un àtomo di fuoco:
noi che viviamo senza fine.
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La parte consistente dell’opera di Cristina Campo è un atto di gratitudine, parola in cui lei non si esprime, si comprime e scompare. Le traduzioni, in cui vive all’ombra di parole di altre. I testi – folgoranti – in cui introduce alla lettura dei padri del deserto, dei mistici, dei ‘folli di Dio’. Soprattutto, le lettere. L’opera memorabile della Campo, totalmente postuma, si sviluppa nelle lettere. La lettera, per sua natura, è una relazione privata, si priva di altro pubblico che il destinatario di quel foglio. Ed è lì, con gratitudine imperdonabile, che la Campo si cede senza cessioni, si sbriciola. La lettera non ha altra ambizione che svanire, dopo che è stata letta – se sarà letta – è tutta lì sulla cresta del rischio.
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Scrive Maria Antonietta: “Ho il dovere della stabilità, come un benedettino, come tutte le piante che dove radicano restano e assolvono al proprio dovere”. Il bello delle radici è che partono da un luogo preciso, ma poi dove attraccano, dove arrivano? Ci sono radici verticali, atte al profondo, altre che si spalancano come mani, in sequenza, o come labirinti. E che sviluppo ha la chioma?
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Ci si dedica all’arte soltanto con una totalità selvatica, feroce agli altri, finché i volti di chi ci ama diventano lupo, vogliono azzannarci.
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Allineo i ‘maestri’, le sante laiche censite da Maria Antonietta. Emily Dickinson si trincera in casa, scrive nascondendo; Marina Cvetaeva “Fu sepolta in una sorta di fossa comune del cimitero di Elabuga, su una collina, tra alberi di pino. Senza una lapide. La tomba di Marina Cvetaeva non esiste” (Serena Vitale); Etty Hillesum scompare nel ventre nero di Auschwitz; Giovanna d’Arco è incenerita dal fuoco; Antonia Pozzi si ammazza davanti all’abbazia di Chiaravalle, cedendo ai posteri le sue poesie rarefatte; Cristina Campo fa eremo nel proprio appartamento romano; Sylvia Plath s’inghiotte nella voragine del forno, lasciando i sopravvissuti a celebrarla. Ciascuna di queste grandi personalità ambisce alla sparizione, si annienta, in un modo o in un altro. La loro opera è un tormento di torce nel vuoto: ci lasciano un cartiglio in cenere. Sopravvalutiamo l’inutile, senza capire che il complimento è un sopruso. Stare alla grazia della sparizione è spaventoso, è miracolo. (d.b.)
*In copertina: Maria Antonietta a Rimini, fotografata da Alessandro Carli