“Ho dormito nel vostro letto: era come un essere vivente”. Merline & Rilke, due solitudini che si inchinano
Letterature
Riccardo Peratoner e Marilena Garis
Morto lo scorso anno, a 102 anni, Pierre Soulages è stato tra i più grandi artisti del secolo. La sua ‘opera al nero’, allo stesso tempo malleabile e monolitica, ricorda l’etica zen, le oscure armi di Giovanni delle Bande Nere, il totem di “2001 Odissea nello spazio”. Intorno alla sua opera, Lydie Dattas, artista propensa alla radicalità del verbo, ha scritto un libro di poetica ferocia, “La Blonde” (Gallimard, 2014). In sostanza, la Dattas ammira in Soulages il “Barbaro”, l’Attila, il “pittore di icone” che ci riporta nell’alveo del mistero, ostile – anzi, alieno – all’etica del progresso, alla sua epica che fa dell’antico satura statuaria, roba da poco, in vendita.
In profondità, Lydie Dattas stringe con Pierre Soulages un patto d’arte: il suo libro – ancora inedito in Italia – è opera autonoma e fiera, che sfugge alle norme dell’esegesi artistica, alla didattica accademica. Non è raro il rapporto d’elezione tra il poeta e l’artista, anzi, è necessario: segretario di Rodin, Rainer Maria Rilke compie la propria ‘svolta’ poetica dopo aver ammirato i quadri di Cézanne; René Char scopre una terribile sintonia con Nicolas de Staël; mentre Saint-John Perse si apparenta ai lavori di Georges Braque, André Malraux crea il ‘Museo immaginario’ dove ai reperti dell’arte oceanica e africana avvicina le opere dell’amico Picasso. Quasi non esiste poeta o scrittore del Novecento che non abbia comunità di giaciglio con un artista: dalle nostre parti va ricordato il legame di Giovanni Testori con Francis Bacon e Gaudenzio Ferrari, quello di Cesare Zavattini con Ligabue, quello di Giovanni Comisso con De Pisis (che piaceva anche a Montale, con altri versi). Il grande pittore – e poeta, pur in distillato – Scipione non esiste, per così dire, senza il sodalizio con Giuseppe Ungaretti.
Il libro di Lydie Dattas su “les icônes barbares de Pierre Soulages”, specie di poema in prosa, non è un commento alle opere di Soulages, tanto meno un viatico – semmai, è vaticinio, andatura mantica, lenta mattanza.
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Quando, nella storia dell’umanità, i nodi della civilizzazione sono diventati tanto stretti da non permettere al sangue della Vita di passare, un Barbaro è giunto con la sua ascia a dire: “Ora basta”. Soulages è quel Barbaro illuminato che fa tabula rasa di tutto per ritrovare l’essenziale. In questo Occidente che valorizza le immagini a detrimento dell’immaginazione, le figure rispetto alle personalità, come non restare affascinati dalle presenze di antracite dell’unico profeta della storia della pittura – e posto al di fuori di essa?
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Guerrieri scarnificati fissano i passanti con i loro occhi di antracite. Immobili tra cielo e terra come sudari di pietra, hanno i carati dei profeti. Ora che la fauna emotiva del libro si è sfasciata, questi monaci del nero erigono contro il nulla un muro di melanite, incensato da una bruma arcaica. Disposti secondo un ordine regale, questi battaglioni muti sono l’estremo baluardo del Verbo. Al primo passo verso di loro, la Bionda balza, bandita, dai loro ranghi: il loro nero arco, calibrato nella luce elettrica, proietta particelle che tranciano il nervo ottico di chi guarda. Quando la Via Lattea del sangue illumina il suo cervello, un gorgoglio nel cranio lo avverte che si sta avvicinando all’alta tensione dello Spirito. Sbarrando la strada ai dotti, il magnetico ulteriore apre le sue quadrangolari ali. Per quanto istruito, il visitatore non può strappare la maschera agli ossimori pittorici. Questi meteoriti che gettano i loro riflessi uno nell’altro non tradiscono il mistero. Il loro voltaggio, istrice gialla, traccia una frontiera assoluta: impossibile procedere oltre senza essere calpestati da questi cavalieri dell’Apocalisse.
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Come il re barbaro che alla sontuosa dimora di marmo rosso, preferisce il palazzo di legno, smontabile, il maestro pensa in nero, ama il nero, sogna nero. Impegna il suo orgoglio nell’imitare la semplicità degli antenati, indossa questo lutto contadino ovunque, dorme tra i drappi neri delle Illuminazioni. Corruschi corvi in un cielo di lacca rossa sono un augurio per lui. In questi campi trincerati un totem spalanca i suoi occhi angosciati di fabbrica. All’ultimo gong del sole, cala la notte spirituale. All’ombra del pino, dove la luna piega le gambe, sopra le placche tettoniche dello Spirito, sta la veglia d’arme. Sulle terrazze, dove è imbandita la tavola, banchettano gli eruditi della notte: il vento ardente scaccia i miasmi delle parole. Nella piramide inversa delle coppe, la regina con la collana di ferro versa la gloria del vino, sgargiante sangue. Orizzonte marino ridotto ad argenteria di scintillii all’arma bianca. Compila i secoli con nobile eleganza, il comandante della notte, mentre placa le truppe. Il Plateau d’Albion cova uova nucleari, l’opera drizza l’ogiva nigella contro la morte che dorme nei suoi silos. Dio percepisce la minaccia nichilista e invia il suo giannizzero a liberarci dal progresso.
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Giganti bituminosi nati da un’illuminazione negativa. Dopo la rovinosa caduta del carro celeste con le ruote di fuoco nel catrame, il bambino riconosce le sue visioni in una locomotiva che sputa la sua collera ultrabianca. Quando la mattanza biblica azzera il mondo, lo scontro dei paraurti squarcia i vetri del vento. Si insinua un silenzio più assordante dei sette tuoni che hanno fatto esistere l’universo. Quando riappare tra i vapori biancastri, l’infante è diventato Veggente. Nessun deserto è abbastanza vasto per lui, biondochiomato che apre una porta sulla notte. Nel cranio, trama di fulmini, fiorisce il niente. Sotto gli occhi scuri delle stelle cresce la passione primitiva. Allorché appare la prima neve – fresca come un dono nel giaietto bianco –, saturo del pasto dei colori, domanda all’oscuro di laccare il suo assoluto nome. Si ammala se non inghiotte la pozione d’inchiostro, lo consolano amori di bitume, ammira sulla guancia del catrame le lacrime della Bionda. Triturando la notte oscura al fondo del calamaio, il bambino trova la formula. In questo rapimento ravvisa la sua nascita, ricordata dalla pietra zen strangolata dal grosso cordone ombelicale posto nelle ore uncinate alla soglia della bottega per interdire l’accesso.
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Come un pittore di icone che dipinge a occhi chiusi, il maestro lavora ciecamente al restauro del Mistero. Il primo vernissage è organizzato da un manovale sul marciapiede, dove il novizio assiste all’impiccagione di una tacca di fango senza valore. Scopre il paradossale lusso del nero – scuro come il lutto, luminoso come la sfera – ed è costernato nel vederlo ridotto nella trionfante forma di un gallo. Dissipato il miraggio, riscopre l’enigma senza il quale la vita tutta è nauseante. Inutile riandare alla massa di crespo nero che offuscò la vedova mentre obbligava il piccolo Attila a seguirla sulla tomba innevata del padre. Tutt’al più sapremo che il Veggente ama la notte perché è un convento per gli occhi – e la teme, tomba delle luci. Dopo le prime eiaculazioni d’inchiostro nero che hanno innamorato la carta, su un formato d’aquila il giovane apache disegna innumerevoli ritratti di senza-volto nel bruno ritmo del mallo di noce. I riflessi arancioni conferiscono alla carta la profondità di un palinsesto. Questi papiri di scrittura ieratica annunciano i mostri dell’outrenoir. Come l’imperatore mongolo che fece della steppa la sua chiesa, egli ha fatto dell’emorragico nero le sue tempie. Sulla creta dell’opera, impronte sabotaggio degli zoccoli unni che scalciano, strappano zolle scure, che volano nei cieli bassi del museo.
Lydie Dattas