Caro Marco,
ho fatto notte ieri e credo di avere intuito un briciolo di saggezza dalla mia sofferenza. Ovvero: nulla. Può essere che la vita insegni, a volte, più che farsi obbedire. Tu lo sai che non ho mai avuto maestri. Perché si sono negati tutti. Ho dovuto sempre arrangiarmi da solo (e a quale caro prezzo!). Solo tu, con i nostri sporadici incontri, hai fatto la differenza. Ma sono qui per dirti soprattutto altro. A rimarcare che rimango “poeta fantasma”, seppur in un’accezione nuova. Ecco, come alzo la posta. Vedi? Ti mostro il vestito della festa! Mi sento quindi «poeta dell’assenza». Mi chiedo dunque, e per davvero, se sarò in grado di seguire le ombre e i solchi d’argento di Alejandra Pizarnik e di Cristina Campo…
Quando smisi di fumare, lo feci per vedere come sarebbe continuata la vita in letteratura. Anche lì, forse inconsciamente, già avevo alzato la posta. Ma ora, se la alzo di nuovo, lo faccio con rabbia e con amore! Sì, perché tu e molti altri mi avete ferito ultimamente. Ma se ben accetto le tue critiche letterarie su di me proprio ‘per amore’ (tanto da rifletterci a lungo, per restare umile e poter imparare ancora una volta a cambiare e a migliorare), tutto il resto mi ha ferito a tradimento. Te ne ho parlato al lago, che quella sera pareva inquieto. Poi è accaduto altro ancora. Dovrei dunque farmi fuori, sparire. Piangere. Suicidarmi? No. Nonostante tutto, eccomi ancora qua.
Perché? Perché scrivere è stare accanto ogni giorno ai folli, nonostante loro sul lavoro ‒ folli quanto me ‒ mi mandino letteralmente a quel paese, e con quanta cattiveria poi. Perché scrivere racconti, romanzi e poesie è la mia vita, e di altro non saprei esistere. Perché la poesia è dei profani, di chi sta fuori e ai margini. La poesia è l’urlo che mi lega ‒ qualsiasi cosa accada ‒ indissolubilmente a Sofia.
Poi ecco che di notte arriva l’illuminazione vera, quella che ti fa dimentico di essere chissà chi e chissà quale leggenda o mostro sacro, per farti ‒ piuttosto ‒ presto o tardi tornare ai ritmi veri della vita. Per tornare, in una parola, a «essere te stesso».
So che un giorno vedrò a Noversch ricomporsi lo specchio. Ben altra cosa da chi indossa le medaglie del perbenismo poetico-letterario. Parliamoci chiaro: la poesia è dei ladroni, è di Giuda e di Pietro. La poesia è di chi trafuga la scheggia dallo specchio rotto, per rivedere in essa lo sguardo della fiamma, nel nome di una medesima profezia. Concedimelo. Ti sto facendo anch’io la guerra per amore. Su cosa fondo il mio affondo? Non sul rancore, né tanto meno sulla vendetta. Te l’ho detto: per la prima volta in vita mia sto accettando (con fatica, non lo nego) una tua critica costruttiva rispetto ai miei “lampi”. Ti scrivo sostanzialmente per dirti che prima o poi tornerò. Che ora sono nel bel mezzo della crisi, e ho bisogno di affondare nel tifone, poiché ho perduto molto e in molti mi hanno già perduto. E dopo tre anni, lo riscrivo, quasi a ribadirlo: il poeta è fuori controllo! Sissignore. È inafferrabile. Poiché credo anch’io che bisogni riaprire quell’opera comune che tanto amavi.
Te lo dice uno, e tu lo sai bene, che è arrivato dopo e per ultimo. Io che non ho mai partecipato all’opera comune, io che non ho mai fatto parte di nessuna antologia dei poeti nati negli Anni Settanta. Proprio io, io che sono nessuno ti dico, totalmente fuori controllo, rilanciando, che occorre riaprire quella porta.
Perché altrimenti, il sacrificio e il nascondimento di molti, resterebbe vano. Non serve allora oggi il miglior scalpellino per fare lo scalpo alla poesia. Occorre piuttosto quell’ariete che, nonostante tutto, mi critica ancora per amore.
Tuo, Giorgio Anelli
*In copertina: Annibale Carracci, “Domine, quo vadis?”, 1601, particolare