23 Ottobre 2024

“Io sono molte persone, capisci? E una non deve sapere dell’altra”. Marina, l’estremista

MARINA

In una lettera a Rainer Maria Rilke, la poetessa russa Marina Cvetaeva scriveva, dalla Vandea, il 12 maggio 1926:

«Rainer, una felicità purissima, la piena della felicità: la fronte stretta sulla fronte di un cane, occhi negli occhi, e il cane stupito, sorpreso, lusingato (non succede certo tutti i giorni!), RINGHIA. E allora gli stringi il muso con le mani – perché può mordere, per pura commozione! – e lo baci. Uno scoppio di baci».

È un ricordo d’infanzia, quello che Marina racconta a Rilke. Un ricordo che, come un’improvvisa illuminazione, le ha suscitato la lettura di un appunto a matita del poeta («tre care, lievi parole: a un cane»). Quel «cane» l’ha riportata vividamente ai suoi undici anni: «Dentro l’infanzia, nella Foresta Nera (proprio nel centro!)», laddove avvenne l’incontro con quel cane randagio, che è il simbolo della felicità, quella felicità che non si addomestica, ma «ringhia», e che va stretta forte tra le mani, «occhi negli occhi».

Così concepiva la vita, Marina Cvetaeva. Marina coi suoi capelli corti, i grandi occhi profondi, la leggerezza del passo, la febbrile Marina, che è stata tra le più alte e innovative voci liriche della Russia del Novecento, di quella Russia sovietica che i poeti li ammazzava, li mandava nei gulag, li perseguitava, li riduceva alla fame e al silenzio (un’ossessione paranoica, quella dell’incolto Stalin contro la cultura, che non ha eguali, forse, nella storia delle dittature). Nel 1904 Marina trascorse l’estate nella Foresta Nera con tutta la famiglia. Due anni dopo la madre morì di tisi. La madre Marija, raffinata pianista (fu allieva di Rubinstein), le aveva insegnato la musica e il tedesco (la lingua del padre, il nonno di Marina), che fu la seconda lingua della sua infanzia, la seconda lingua-madre.

Quell’estate nella Foresta Nera, con le sue valli, i suoi boschi pieni di suoni, restò cristallizzata nella memoria di Marina come «la piena della felicità». Qualcosa che lei ricercò sempre con disperata energia, fuggendo dal qui ora.

«Soffro, in generale, di atrofia del presente – aveva scritto a Boris Pasternak – non solo non ci vivo: non ci càpito neanche di tanto in tanto».

Fu proprio Pasternak, il suo grande amore epistolare, il poeta fraterno, a farle conoscere Rilke, e fu subito un impeto di passione intellettuale, ma anche un’infatuazione incontenibile. Non si videro mai (Rilke sarebbe morto poco dopo, nel dicembre 1926), come del resto anche con Pasternak, il cui incontro fu rimandato per decenni, e quando avvenne fu deludente (lo definì un «non-incontro»), ma per lettera lei baciava Rilke, lo sognava, diceva di amarlo, Rilke rappresentò per lei oltre all’incarnazione della poesia, anche la sua infanzia, la lingua tedesca, la Madre perduta.

«Cosa faremmo io e te – nella vita? – scrive a Pasternak il 22 maggio 1926 – Andremmo da Rilke». Come se il ricongiungimento di quella trinità – e bisognerebbe leggere l’epistolario tra Cvetaeva, Pasternak e Rilke, uno dei più incantevoli, esaltati, ingenui, deliranti, della storia della letteratura – potesse ricondurre tutto a un’unità inscindibile. Cvetaeva fu una donna dai molti irrequieti amori: platonici, erotici, cerebrali, sensuali, lesbici, etero, in un costante bisogno di vivere nel fuoco della passione:

«Io sono molte persone, capisci? Innumerevoli, forse! (Una moltitudine insaziabile!). E una non deve sapere dell’altra».

Ma quello per Pasternak e Rilke fu qualcosa di più e di diverso.

«Mio caro Pasternak! – scrive il 19 novembre 1922 – Il tipo di rapporto che io preferisco è ultraterreno: il sogno: vedere in sogno. E il secondo: la corrispondenza. La lettera: una forma del rapporto ultraterreno, meno perfetta del sogno, ma le leggi sono le stesse. Né l’uno né l’altra vengono a comando: si sogna e si scrive non quando noi lo vogliamo ma quando ne hanno voglia: la lettera – di essere scritta, il sogno – di essere sognato».

Marina si inebria di parole, crea un diluvio d’amore con quelle parole – e con quei trattini, quegli esclamativi, tutte quelle parentesi – che investono il destinatario, lo travolgono. Lei, la più spericolata e sorprendente delle poetesse, sa che solo le parole possono vivere «fuori della vita». Ma quando arriva la notizia della morte di Rilke, qualcosa si spezza definitivamente, e allo stesso tempo si rivela, realizzando quella trasfigurazione del destinatario nell’Altro assoluto, nell’Assente definitivo, che lei ha sempre auspicato. «Adesso ho la pace della perdita totale – del suo volto divino – della rinuncia», scrive a Pasternak commentando la morte del poeta.

Cvetaeva capisce di aver perso l’infanzia, la Madre, la lingua segreta nascosta dietro la sua lingua russa, ma capisce, anche, che l’incontro, sempre dilazionato, sempre rimandato, era impossibile perché amare significa amare i fantasmi. La sua poesia «Novogodnee» («Per l’Anno Nuovo»), conclusa il 7 febbraio 1928 e scritta in morte di Rilke, a lui rivolta, segna in questo senso una svolta decisiva nella sua opera. Cvetaeva, in una strepitosa confessione emotiva, traccia una cartografia dell’aldilà, di un territorio che è la «negazione della vita», qualcosa di recondito, di – apparentemente – indicibile, ma che lei non si rassegna a non poter dire.

«Buon Nuovo Anno – mondo – limbo – riparo!
Prima missiva a te nel nuovo sito».

Che cos’è questo nuovo «mondo, limbo, riparo» che la poetessa annuncia nel primo rutilante verso, con uno di quei tipici incipit, che Anna Achmatova chiamava i suoi «do di petto», se non il regno inesplorato in cui Rilke l’ha anticipata e che lei anela a percorrere? Ora che Rainer non è più, il «rapporto ultraterreno» può compiersi alla perfezione.

«Niente ho fatto, un non so che da solo,
senza far ombra, senza mandar eco,
si è fatto!».

Per questo Marina vuole sapere del «viaggio». «Ma dimmi – del viaggio/ Come – fino allo schianto, galoppava/ il cuore?» chiede al poeta estinto. Vuole sapere, poiché c’è «un patto di sangue» fra loro due «con quel mondo», ovvero l’aldilà in cui lei si sente proiettata, che scopre di conoscere, di abitare da sempre, o almeno dalla morte della madre, «perché quel mondo nostro – a tredici/ anni l’ho compreso, al Novodevičij:/ non senza-idioma è, ma omni-idioma». Se al cimitero di Mosca – il Novodevičij – Marina ha appreso che il vero cimitero è dentro ciascuno di noi, lì dove riposano tutti i nostri cari, ha imparato anche che la morte – proprio come l’infanzia, a dispetto della sua etimologia – non è il regno senza parole, ma al contrario è il regno dell’«omni-idioma», è il luogo di tutte le lingue, perché è il luogo della Poesia. In un ardito rovesciamento del mito biblico della torre di Babele, la confusione delle lingue non è una punizione, ma l’estrema libertà: non c’è colpa, dunque, nell’abitare la lingua dell’Altro, ma, come scrive Iosif Brodskij nella magistrale analisi di questo poema, «la gioia festosa di una rivelazione accessibile forse soltanto nell’età infantile».

Marina con il marito (alle spalle), la figlia Ariadna (sulle ginocchia) e amici; 1916

L’«omni-idioma» è, di fatto, l’idioma «angelico», quello che Rilke, il Poeta, parla, da «incommensurabili alture». Marina si trasforma così in un Orfeo che sale «lassù» dalla bassezza della sua «fossa», piuttosto che scendere negli inferi: non c’è una Euridice da salvare, da riportare alla luce, poiché la «nuova luce» è dove adesso dimora Rainer.

«Nel nuovo sito, scrivere com’è?
Se esisti tu – il verso esiste: tu stesso sei
– verso! Campando a verso, scrivere com’è?».

La morte di Rilke rivela a Marina la vera natura della poesia, nel suo eterno, tragico contrasto con la vita – un corpo a corpo, una lotta inesausta, che ha come esito, come unica possibile vittoria per il poeta, la disappartenenza, e dunque l’ineffabile, l’idioma «angelico» che solo può praticarsi nel non-essere. «Io sono assente dalla mia vita, non sono a casa» scriverà Cvetaeva a Pasternak, con il quale, dopo la morte di Rilke, non sarà mai più come prima. Niente sarà più come prima. Paradossalmente, dopo la vetta raggiunta da «Per l’Anno Nuovo», anche l’ispirazione si inaridisce progressivamente. Cvetaeva resterà due anni senza scrivere nulla e nella seconda metà degli anni Venti produce solo sette poesie, mentre negli anni Trenta la crisi innescata dalla morte di Rilke si farà ancor più evidente («Quello che dovevo scrivere, l’ho scritto», dirà a un’amica), acuita anche dalla necessità di dedicarsi alla più smerciabile prosa per l’indigenza in cui verserà in maniera sempre più drammatica. 

Marina Cvetaeva, che era nata a Mosca nel 1892, nonostante la sua vocazione alla gioia, ha conosciuto in realtà molto presto la povertà e la solitudine, a cominciare dalla rivoluzione d’Ottobre del ’17, che la priva della presenza del marito Sergej Efron, arruolatosi con l’Armata Bianca. Da sola con due figlie, è costretta a lasciare la secondogenita Irina all’orfanotrofio di Kuncevo, dove la bimba muore di denutrizione a soli tre anni. Malvista dal regime sovietico, per via del marito e perché lei stessa è una poetessa non allineata, nel 1922 lascia la Russia con la figlia Alja: si trasferisce prima a Berlino, poi a Praga, dove si ricongiunge con il marito, e infine a Parigi, dopo la nascita del figlio maschio ‘Mur’.

Anche a Parigi patisce la fame e la solitudine, quando il marito, divenuto intanto un membro dei servizi segreti sovietici, si trasferisce in Urss. Gli intellettuali e scrittori russi emigrati la evitano o la ignorano, la trattano come un’appestata, perché moglie di un traditore e perché la considerano non troppo anticomunista (così come i sovietici la considerano non troppo comunista). Marina paga un prezzo altissimo per la sua libertà di pensiero e il rifiuto di farsi etichettare, per la sua poesia che è troppo avanti, ma anche per la fedeltà al marito e alla famiglia. È infatti per ricongiungersi di nuovo con marito e figlia che decide di tornare in Russia, il 18 giugno 1939, insieme al figlio ormai quattordicenne. Ma è qui che si consuma l’ultima tragedia della sua vita: a Bol’ševo, in campagna, dove la famiglia vive in una dacia, vengono arrestati prima la figlia e poco dopo il marito, il quale non farà mai più ritorno.

Marina comincia a vivere di stenti con il figlio, a vagare in cerca di un alloggio, trova ospitalità a Mosca da parenti, poi in una casa di riposo di scrittori a Golicyno, ma deve lasciare anche questa residenza, e sempre con il terrore di essere prelevata nella notte dalla polizia segreta.

«È stata una vita difficile e cupa – scrive in una lettera –: lampade a petrolio che continuavano a spegnersi, bisognava prendere l’acqua dal pozzo spaccando lo strato di ghiaccio, notti buie senza fine, le eterne malattie di mio figlio e i miei eterni terrori notturni. Non ho dormito per tutto l’inverno, la notte saltavo su ogni mezz’ora pensando (sperando!) che fosse già mattino. Troppo vetro (tutte quelle terrazze di vetro), troppo buio e angoscia».

Infine, con l’attacco della Germania nazista, stretta in una doppia morsa, viene evacuata da Mosca con il figlio. Il 21 agosto 1941 arriva a Elabuga, una cittadina tatara: qui cerca invano lavoro, chiede aiuto a tutti, ma nessuno le tende una mano. È sfinita, esausta, irriconoscibile.

«Nessuno vede – nessuno sa – che già da un anno (quasi) cerco con gli occhi un gancio, ma non ce n’è: dappertutto c’è la luce elettrica. Niente più “lampadari”. Da un anno misuro – come un abito – la morte. Tutto è mostruoso e spaventoso. Inghiottire qualcosa – mi fa schifo, gettarmi giù – l’ostilità, la mia innata repulsione per l’acqua. Non voglio mettere paura (da morta), e ho l’impressione di avere già paura di me stessa – da morta. Io non voglio morire, io voglio non essere. Stupidaggini. Finché sono necessaria… ma, Signore Iddio, come sono piccola, come non posso nulla! Sopravvivere è ingoiare. Amaro assenzio».

Forse solo il figlio può farla sentire ancora «necessaria» in questi giorni così devastanti, ma ‘Mur’ è un adolescente egoista e viziato, un ingrato, un superficiale che la denigra. Così Marina decide di farla finita, decide di «non essere» più, di raggiungere anche lei il «nuovo sito» che ha salutato alla morte dell’amato Rilke. Decide, cioè, di tornare alla madre, all’infanzia, al cane della Foresta Nera, per ritrovare la «piena della felicità».

Il 31 agosto 1941 nell’izba di una coppia di coniugi dove alloggiava, viene trovata dalla padrona di casa impiccata. Il suo corpo è stato sepolto in una fossa comune del cimitero di Elabuga, su una collina, tra gli alberi di pino, senza lapide. 

Solo cinque giorni prima, lei che è stata uno degli ingegni più splendidi avuti dalla Russia, aveva fatto richiesta «di essere assunta come lavapiatti nella mensa del Litfond di prossima apertura». Ma senza ricevere risposta.

Fabrizio Coscia

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Le citazioni sono tratte da:

Marina Cvetaeva, Il paese dell’Anima: Lettere 1909-1925, a cura di Serena Vitale, Adelphi, 2020

Marina Cvetaeva, Deserti luoghi. Lettere 1925-1941, a cura di Serena Vitale, Adelphi, 1989

Marina Cvetaeva, Sette poemi, a cura di Paola Ferretti, Einaudi, 2019

Iosif Brodskij, Il canto del pendolo, Adelphi, 1987

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