Illuminante come Camus, tormentato come Kafka, leggenda in patria come Vennberg e Lindergen… dimenticato come tanti portenti di quel secolo “meravigliosamente scemo e barbaramente intelligente”, il maledettissimo Novecento.
Ad aiutare la memoria dei ricercatori di autori “di nicchia” stavolta ci pensano le circa centocinquanta pagine di Breve è la vita di tutto quel che arde, opera edita per Iperborea, composta da le dikter (poesie) da una parte e dai dagsedlar dall’altra (rapporti quotidiani o ceffoni, leggendo le poesie dello svedese sarà il secondo significato a troneggiare senza alcun dubbio sul primo). Dagerman è un anarchico con la A maiuscola, dal pensiero politico, alla scrittura fino alla vita vera e propria: la depressione, due matrimoni e quel suicidio tanto cercato nell’arco della sua esistenza ed infine trovato nel ’54.
Dagerman occupa di diritto la prima fila nella schiera dei “quarantisti”, quei scrittori svedesi anni ’40 bagnati dagli orrori della Seconda guerra ma con lo sguardo alla futura e vicina Guerra Fredda, promotori di una miscellanea di angoscia, disperazione esistenziale, colpa e timore trasmutati in amaro inchiostro su candidi e vergini fogli.
Dagerman, così geniale da far diventare poeticamente violento anche un paesaggio bucolico in Tempo di fienagione (1942)
È ora tempo di fienagione
E di raccolta –
Ma anche la morte dell’estate
Impugna la falce
Un errore da non fare nella valutazione del talento svedese è quello di etichettarlo solamente come un figlio angosciato e suicida del Novecento: Dagerman racchiude nei versi di Maggio 1944 l’amarezza del conflitto mondiale, il fallimento umano ma lascia comunque quel filo di speranza per quei martiri, per la martoriata Madrid e per quel maggio che in ogni caso arriverà perché in fin dei conti…
Tre parole fiammeggian di fuoco scarlatto:
bandiera rossa, fede, di rivolta tempesta,
l’arrivo annuncian della primavera.
Dimostrazione in versi che il credo politico di Dagerman non conosce sonno, non esiste una vera e propria tregua e per quanto tormentata, l’esistenza è una lotta continua oltre il risultato, oltre l’obiettivo finale: eterna contraddizione di una sconfitta vittoriosa. Vita come incertezza e malcontento, schiava del dominus per eccellenza, il Tempo; una vita troppo breve “perché per poter parlare un giorno a un amico dobbiamo imparare a tacere per mille anni” (1948).
Tre anni dopo, nel 1952, in Si schiude ora un fiore… Dagermanriprende con sottile e fine eleganza il binomio tempo-essere con una specifica importante:
Breve è la vita di tutto quel che arde.
Presto si spengono le ali su magioni oscure.
Presto si spengono le rose nel giardino della notte.
Mai però si spegne il desiderio di luce.
A distanza di due anni Dagerman avrà il suo definitivo bacio della buonanotte in un garage, inalando gas a solo trentuno anni perché le rose si spengono presto anche nel giardino della vita finendo nel buio dimenticatoio dei geni letti dai pochi, capito da pochissimi.
Nel Dagsedlar lo sguardo del genio di Älvkarleby è meno poetico, altrettanto lucido ma di gran lunga più lungimirante: nell’ottobre del ’47 lo scrittore ha già chiare le problematiche del futuro che verrà: definirà obsoleta e “da rottamare” la bomba atomica americana (Gli USA fanno progressi, 30.10.1947) sottolineando invece i vantaggi, se così vogliamo chiamarli, delle bombe batteriologiche… con il senno di poi e una quarantena lasciata da poco alle spalle quel trentunenne perennemente in lotta con l’essere, tutti i torti non li aveva.