21 Febbraio 2024

“Vieni, ascolta il mormorio di questa nera enfatica pioggia”. Merrill Moore, il poeta da 50mila sonetti

Credo sia questione di esattezza. Di scienza. Qualcosa che fonde – il rione medico ci sarà utile, tra poco – la patologia con la trigonometria. Oppure: l’arte di sezionare i cadaveri.

Ci vuole una scienza esatta, intendo, per dimenticare, scientemente – mi ripeto – una fetta di letteratura. Alcuni hanno impedito che certi poeti atterrassero nella nostra editoria portuale, avvezza – per principio di mercato – a pubblicare sciocchezze. Così, ad esempio, una fetta della poesia statunitense ci è stata chirurgicamente negata. Storia antica: sappiamo tutto dei beat – perfino di autori & libri francamente dimenticabili, certamente superati – e nessuno si sogna di pubblicare come si deve autori giganteschi come Hart Crane e Robinson Jeffers, per dirne due.

Ci sono, poi, questioni politiche. Così, per esempio, i “Fugitives” – autori che hanno prodotte opere meno fatue di quelle dei Beat, spesso geniali – sono stati volutamente dimenticati. Come mai? Perché nella loro variante politica, gli “Agrarians”, si dichiaravano conservatori, antiprogressisti, controilluministi, antimoderni, lottando contro l’industrializzazione massiva rispetto alla priorità della terra. Rappresentavano gli Stati Uniti del Sud, alieni alle metropoli. Eredi diretti di William Faulkner e di Thomas S. Eliot, dai “Fugitives”, nei loro rappresentanti più sagaci – il ‘gruppo’ esplicitava l’addestramento del singolo, urlava un individualismo selvatico –, provengono alcune delle poesie più belle del continente americano. Allen Tate – tradotto negli anni Settanta da Alfredo Rizzardi – e Robert Penn Warren – tradotto troppi decenni fa da Sergio Perosa per Einaudi – sono poeti eccezionali; altri – John Crowe Ransom e Donald Davidson, ad esempio – restano sconosciuti in Italia, dei paria.

Lo stesso iracondo veleno tramortisce l’opera di Merrill Moore. Nato in Tennessee nel 1903 da genitori bibliotecari, Moore studiò alla Vanderbilt University, Nashville, quartier generale dei “Fugitives”. Fece parte del gruppo, per un po’, firmando con uno pseudonimo esoterico, “Dendric”; tra tutti, era il più giovane.

La particolarità di Moore rende ancor più stupefacente il fatto che non sia mai stato tradotto in Italia. Merrill Moore, di fatto, ha ‘riformato’ il genere del sonetto, alterando metri, formule sillabiche, ipotesi liriche. Soprattutto, eccelleva nel sonetto ‘colloquiale’: senza storpiare in fango il magma poetico, ci ha insegnato che in quattordici versi si può riassumere una vita intera, che la quartina è il nostro ritmo cardiaco, che una terzina è efficace per assemblare un pettegolezzo come una parabola. Nell’arco della sua vita, non lunga – morì di cancro, a Boston, nel 1957; aveva quattro figli – si calcola che abbia scritto “circa 50mila sonetti”. Pare che “in un giorno di pioggia del 1935, il poeta abbia abbozzato 98 sonetti. Non li corregge quasi mai. Li legge al dittafono, la segretaria li trascrive, la moglie li indicizza e li archivia in alcuni armadietti. Nella borsa, il poeta raccoglie i sonetti insieme alle schede dei pazienti” (così un articolo del “New Yorker”, Annoyingly Fertile, era il 1938).   

Il libro più noto di Moore s’intitola M: One Thousand Autobiographical Sonnets, esce nel 1938 per Harcourt, Brace & Co., a New York, ed è uno dei libri ‘seminali’ della poesia statunitense contemporanea, insieme a Paterson di William Carlos Williams, Harmonium di Wallace Stevens e Tamar di Robinson Jeffers. L’autobiografia in versi, la ‘confessione’ resa in una forma che alterna sublime e colloquiale: M sarà, tra l’altro, il libro ‘di culto’ di un autore un tempo fondamentale come Robert Lowell. Ne seguiranno altri, tanti – Illegitimate Sonnets, ad esempio, nel 1951 – che dimostrano ossessione (MM non abdica mai dal ring del sonetto) e talento poligrafo. Alla morte, scopriranno un nugolo di sonetti ancora inediti; il “New York Times” inghirlanda il cadavere inneggiando al Sonneteer, “lo psichiatra che ha scritto 100mila versi”.

L’altra caratteristica di Moore – condivisa con una serie di letterati di genio, da Céline a Gottfried Benn – è, appunto, la professione medica. Moore insegnò neurologia ad Harvard, aveva uno studio privato a Boston, si è occupato soprattutto di dipendenze, di come queste alterino le facoltà cognitive di un uomo. Durante la Seconda guerra, servì come medico nel Pacifico. Dicono che fu lui a suggerire l’escamotage per impedire la condanna a morte a Ezra Pound: dichiararlo infermo di mente. Grazie a Pound, Moore aveva imparato a mescere la ‘tradizione’ con l’avanguardia, il classico con il futuro. I faldoni della sua corrispondenza, raccolta alla Washington and Lee University, raccontano di amicizie con Pound, Faulkner, Eliot, Ray Bradbury e Flannery O’Connor. Tra i suoi pazienti, figurava la figlia di Robert Frost, il grande poeta americano quattro volte premio Pulitzer. È proprio Frost a darci un ritratto scheggiato su selce di Merrill Moore:

“era un medico serio, un artista altrettanto severo, che non prendeva nulla alla leggera; eppure, c’era qualcosa in lui della canaglia che gli conferiva grande fascino. Sorrideva di rado”.  

Il legame tra poesia e medicina, per così dire, viene esibito in alcune raccolte – i Clinical Sonnets del 1949 oppure The Hill of Venus, del 1957 – più leggere, illustrate da Edward Gorey. Si tratta di sonetti tratti dall’esperienza medica, che spesso si riducono in sketch, a tratti comici, come questo, dal titolo che è già un programma, Mi ha detto di essere diventata una “Vagina Orecchio”:

“Le ho chiesto di vederla e mi ha detto no:
era troppo impegnata a fare la Vagina
Orecchio per suo marito.
           Fare la Vagina Cosa?
le ho chiesto, finché lei mi ha spiegato tutto:
ha sposato un artista sempre in estro
ed estremamente possessivo –
non si tratta di sesso, ha precisato:
vuole che lei gli faccia da pubblico
che lui possa parlarle di ogni cosa
dirle di continuo cosa pensa
e leggerle tutto ciò che ha scritto.
Praticamente, un lavoro a tempo pieno
che lei descrive come “fare la Vagina Orecchio”.

I “sonetti clinici” sono la porzione meno interessante del lavoro di Moore. Ma è lì, in luogo introduttivo, che il poeta spiega il suo ‘metodo’:

“Dopo aver scritto i primi tre o quattro versi, il sonetto prende un proprio slancio, spinto da associazioni e da rime, che devo soltanto assecondare. Di alcune poesie, perdo il controllo fin dal primo verso… Il sonetto, ‘monumento di un momento’, ferma la cognizione di un istante: alcuni testi sono riscritti più volte, altri appaiono subito esatti, alcuni li scarto. Come vanno letti? Come una conversazione, come se stessimo parlando insieme”.

Il sonetto: salamandra che sfugge di mano, curiale del fuoco.

Il ‘metodo’ ha a che fare con la cura: lasciare che il verbo perda la scia, rintracciarne il filo in un vago fermento del cuore. Soprattutto, i sonetti danno l’idea della ritrattistica rinascimentale: busti in primo piano con quinta artificiale alle spalle; il ‘carattere’ s’indovina dal taglio degli occhi, dal moto delle mani, dalla curva del labbro – dalla sillaba che tintinna. La padronanza del particolare – l’anima al giogo.

***

Dunque, ho risolto di agire

“Farò attenzione a non dire nulla
di me, di lui, di quello che so di lui
il vago pensiero che mi trafigge resti vago
se stasera vuole chiamarmi…”.

Neanche dieci minuti dopo, il campanello:
entrò nell’atrio, come faceva sempre,
volto e modo che nascondevano con scarsa
qualità il cervello in fiamme, il cuore nel canto

la lingua che voleva sprigionare la verità.
Per quanto riuscì, restò immobile,
ciò che aveva da dire era ripugnante.

Ma quasi subito, il cuore prese a scricchiolare
il cervello oscillò come una cometa nella notte
la lingua fuggì come uno scoiattolo nel parco.

**

Non ti invidio, John Carter

Una notte, John Carter, sognerai mani
mani che ora sono morte, di quelli
che hai ucciso o hai cercato di ammazzare
lungo il sentiero della tua prosperità.

Non invidierò il terrore che
celebrerà la tua veglia, mentre
le mani si allungano verso di te e tu,
impietrito, impietosito, ti aggrappi a ciò

che hai derubato. Mani scosse da dolore
e rancore ti puntano mentre gli agenti
del potere che hai conquistato su questa

e altre terre… Una notte, Mister Carter,
sognerai – non sarà un bel sogno –
non ti invidio mentre ti avvii nel sonno.

*

Il libro del come

Dopo che le stelle furono appese, ben distinte,
perché occhi mortali imparino la cura del
guardare, quello che le ha fabbricate si è seduto
e ha scritto un libro su come ha fatto ciò che

ha fatto. Pareva un’azione insolita,
inutile, ma ha detto: “è ciò di cui abbiamo
bisogno”. Gli angeli approvarono, i demoni,
che sapevano l’esito di ogni cosa,

si misero a ridere. Nel libro, infatti, egli
riuscì a omettere le cose importanti:
dove ha preso la scala per arrivare alle stelle

come ha illuminato gli astri, Marte, soprattutto
e a che cosa li ha appesi perché restino proprio
lì: eternamente distanti, eternamente luminosi.

*

Risposta

Tre modi per farmi avere la tua risposta.
Primo: libera i piccioni, conoscono il mio tetto.
Lega il messaggio alle gambe con una piccola
fascia, consegneranno senza capirle

le parole di chi si tiene in disparte
scritte su carta di riso con inchiostro nero;
questo è il metodo più rapido, credo,
non ne conosco di così immediati.

Oppure: lega un nastro al collo del cigno
bianco, passa sempre di qui per dissetarsi: 
rosso se è un , blu se è un no.

Tre giorni senza nastri e saprò che cammini
nel tuo roseto aspettando l’autunno, quando
mi parlerai soffiando foglie morte sul muro.

*

Avvertimento all’Unico

La morte è la più forte delle cose vive
e quando accadrà non curarti degli occhi
fuochi sfiniti: non c’è più splendore, ormai, lì;
ascolta, piuttosto, le parole che sbocciano

dalle labbra e non cadere. Il silenzio non è
morte, ma la proprietà di chi serba il respiro
senza preoccuparsi di maldicenze e chiacchiere.
Osserva le rapaci dita e il modo in cui si muovono

nei momenti incontrollati – le parole d’amore
e le carezze possono diventare ghiaccio
ed è freddo il bagliore degli anelli nuziali.

La morte è la spada che pende da un singolo capello:
la tua tenue chioma un tempo fu amata
eppure il tuo stupido cranio è ancora appeso al collo.

*

Lascia le barzellette agli altri

Lascia le barzellette agli altri
e le battute licenziose agli uomini
a cui lussuria ha concesso virtù
maggiori delle tue; esci dalla sala

del bar, sfonda il muro di fumo dei sigari
di chi ama annusare lo zolfo che sgorga
dal proprio inferno personale. Vieni con me
(ti mostro la roccia da cui uno è caduto

e le attrazioni che rendono fatue le masse,
masse così forti da essere spezzate
e il piede di un dio che abbandona la presa

dalla radice del male) – vieni con me
dove il sermone ha fatto accucciare le maree
vieni e ascolta il mormorio di questa nera enfatica pioggia.

Merrill Moore

Gruppo MAGOG