Che meraviglia i libri degli emblemi, che all’immagine accompagnavano un breve testo poetico. Il libro si trasforma in caleidoscopio, in binocolo, in una wunderkammer. Capire non ha poi importanza se si tratta di abbandonarsi al potere teurgico dello stupore. Ciò che affascina non è l’analogia tra l’immagine e il testo, ma la frizione, l’esito dispari del linguaggio. Il testo non funge da didascalia dell’immagine; l’immagine non raffigura esattamente il testo. Il testo – con sapienza allusiva – porta l’immaginazione del lettore ben al di là dell’immagine. L’idea – ovunque – è tastare i confini dell’inimmaginato.
L’emblema possiede la contrazione del simbolo, ma ne è, infine, la contraddizione. Il simbolo va riconosciuto, l’emblema va oltrepassato – il simbolo orienta e coagula, l’emblema disorienta e scioglie. Un simbolo non si interpreta, è; l’emblema chiede esegeti esagitati, lunari; va scomposto in parti per ricomporne l’esatto. Non è un caso che l’epoca dell’emblema sia il Seicento, quella dei planetari, dei mappamondi riccamente dipinti, dei viaggi in terre esotiche, delle fiere e dei mostri, degli auto sacramental e del gran teatro del mondo, dei corsari e dei ricorsi, di Don Chisciotte e di Shakespeare.
Emblematica: la parola che immediatamente, come un cane da caccia, riporta la preda-immagine. Per trasporto etimologico: “particolarmente significativo”. Magia dell’emblema: far apparire le cose.
Il simbolo si intaglia, l’emblema si staglia: qualcosa di sospetto, sempre, aleggia sulla sua dimora. L’emblema è soggetto a idolatria, a iconodulia. Eppure, varca il tempio dell’emblema: spesso, troverai un luogo vuoto, gli spifferi delle rondini, il soffitto disarticolato, un lembo di cielo appena. Accedere all’emblema non significa conquistarlo.
La scrittura emblematica opera attraverso diversi uffici e artifici: il primo è lo splendore, la meraviglia. Ai più, la poesia emblematica appare un ornamento: ci colpisce la fattura, l’oro ovunque, l’eccentrica scelta delle immagini e delle figure retoriche. Il secondo ufficio è lo studio: chi conosce il reame dei simboli – e degli emblemi, i fratellastri – può discernere il senso ‘culturale’ dell’emblema. Il senso ‘cultuale’, invece, è possesso soltanto della stretta cerchia degli accoliti, dei cercatori. La scrittura emblematica è un codice per confratelli – per gli altri, è una gita tra ruderi e templari.
L’erudito e alchimista tedesco Michael Maier è stato tra i più prodigiosi autori di libri di emblemi. Studiò filosofia e medicina a Rostock, Francoforte, Padova; si specializza in chimica a Basilea e comincia a pratica la ‘grande arte’ alchemica. La sua esistenza è scandita da vasti pellegrinaggi, tra le corti che apprezzavano le arti occulte di cui era in possesso: pare ricalcare quella di Zenone, il medico filosofo ideato da Marguerite Yourcenar, protagonista de L’opera al nero. Per un po’ lo vediamo a Praga, al servizio dell’imperatore teosofo Rodolfo II; poi, caduto in disgrazia – il crollo che segue all’ascesa è il classico percorso del martirio alchemico –, passa nei Paesi Bassi, a Rotterdam, infine in Inghilterra. Pare abbia offerto servigi a Giacomo I, di certo entra nei circoli dei Rosacroce e incontra Robert Fludd. Uno dei suoi libri, Arcana arcanissima è stampato a Londra nel 1614; il suo libro più noto, Atalanta Fugiens, è stampato nel 1617 da Johann Theodor de Bry a Oppenheim: si compone di cinquanta emblemi e altrettanti discorsi, illustrati da Matthäus Merian. In poco tempo, il libro diventa notissimo.
In Psicologia e alchimia, Carl Gustav Jung adopera un altro libro di Maier, lo Scrutinium chymicum, pubblicato postumo. Il medico alchimista muore a Magdeburgo nel 1622; luterano, la sua influenza nei circoli rosacrociani e alchemici è immensa.
Gioco di specchi contrapposti che conferiscono ai segni profondità infinita: le immagini non ‘riproducono’, le parole non ‘dicono’. Tutto è altro da ciò che sembra: l’emblema, pura parvenza, è il mondo ricreato su uno specchio d’acqua. Occorre inabissarsi.
In questo gioco di scomposizioni – perciò, sbagliato a prescindere – abbiamo tradotto dall’Atlanta Fugiens i primi dieci epigrammi, slacciati dall’immagine (le Edizioni Mediterranee hanno tradotto il volume, a cura di Bruno Cerchio, nel 1984), come se sbocciassero da sé. Scorporando l’emblema, scopriamo l’avventatezza lirica dell’alchimista Maier – e, in genere, del suo mondo. La ‘Grande Opera’ ha bisogno di adatti verbi: gli epigrammi di Maier sono, al contempo, formule magiche, alambicchi linguistici, linguaggi cifrati e kōan, frasi utili a risvegliare l’illuminazione degli obnubilati dal mondo delle apparenze.
Sulla soglia della scienza moderna, del dubbio metodico – Galileo, Cartesio – tutto un secolo architetta un linguaggio nuovo per conquistare l’invisibile che va sparendo: l’alchimia del medico Maier non è troppo diversa dalla mistica ideata da Giovanni della Croce o dai calembour di Lope de Vega e dei suoi. Quando ogni cosa diventava soggetta a ‘esperimento’ i poeti ci ricordavano che la vida es sueño. Che il sogno è un segno.
Gli epigrammi di Maier, per rapidità d’ingegno, ferocia sintetica, capacità di coagulare immagini tratte da tradizioni letterarie e astronomiche, fecondano – almeno, idealmente – il ‘modernismo’ poetico del Novecento. Non è un caso se Thomas S. Eliot, a giustificare i propri esercizi lirici, si rivolga ai ‘metafisici’ inglesi del Seicento, figure che sfigurano i confini, poeti che oscillano tra fede, sapienza alchemica, mistica. Estrema ricerca di una parola che attecchisca, che non dica né riproduca le cose, ma le trasformi. Non è illecito il paragone – per parvenze – tra l’uomo di Dio e l’alchimista: “i segni che accompagneranno quelli che credono”, dice il Nazareno (Mc 16, 16-18), riguardano azioni ‘magiche’: scacciare i demoni, parlare in lingue, maneggiare i serpenti, bere veleni – e “non recherà loro danno” –, guarire imponendo “le mani ai malati”.
Ma qui entriamo in altri ambiti, proibiti ai più, proibitivi, probanti. Ci basti la bellezza dell’emblema, la lettura diuturna di una poesia che incatena il cuore, la pura, mai innocua, meraviglia. Il resto – l’inaccessibile – non si perpetua per articoli.
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Dall’Atalanta Fugiens di Michael Maier
Emblema I
Portavit eum ventus in ventre suo
L’embrione embricato nel grembo di Borea
se mai apparirà, vivo, alla luce
potrebbe, lui solo, superare le fatiche degli eroi
con il braccio, la mente, il retto corpo, l’arte.
Per te non si riveli inutile aborto,
Agrippa o Cesone, ma nato sotto ottimo astro.
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Emblema II
Nutrix ejus terra est
Si dice che Romolo fu allattato dalla lupa
e Giove – è certo – da una capra.
C’è da stupirsi se, a nostro dire, la Terra
ha nutrito con il proprio latte il tenero figlio dei Savi?
Se il latte di una debole bestia ha cresciuto tali eroi
quanto sarai grande se la tua nutrice
è il globo terrestre.
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Emblema III
Vade ad mulierem lavantem pannos, tu fac similiter.
Tu che vuoi esaminare le verità celate
scopri da questo esempio come trarre l’utile:
guarda la donna che pulisce il bucato:
getta acqua calda sopra le macchie.
Imitala: la tua arte non ti tradirà.
L’onda, infatti, lava la lordura dal nero corpo.
*
Emblema IV
Conjunge fratrem cum sorore & propina illis poculum amoris
La razza umana non avrebbe affollato il mondo
se la prima sorella non avesse sposato il fratello.
Fai lo stesso: unisci i primogeniti, figli degli stessi genitori
di modo che sullo stesso letto abbiamo maschio e femmina.
Di philia e filocalia offri il nettare:
soltanto in loro l’amore spera nel frutto.
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Emblema V
Appone mulieri super mammas bufonem, ut ablactet eum, & moriatur mulier, sitque bufo grossus de lacte
Sul seno della donna pone un rospo bagnato
di modo che, come un bimbo, beva il suo latte.
La mammella si secca, la assorbe un’enfiagione:
la donna, esausta, abbandona la vita.
Così si prepara un illustre rimedio
che scaccia il veleno dal cuore, allontana il male.
*
Emblema VI
Seminate aurum vestrum in terram albam foliatam
La terra rigogliosa consegna ai contadini il grano
perché con i rastrelli l’hanno sfogliata per bene.
I saggi tramandavano l’arte di spargere oro
sopra i campi innevati in forma di foglie sottili.
Puoi applicarti, osserva bene: specchio vivente
il grano ti insegna come germina l’oro.
*
Emblema VII
Fit pullus à nido volans, qui iterùm cadit in nidum
L’uccello di Giove ha fatto il nido in una roccia
cava: lì si nasconde e nutre i suoi piccoli.
Uno di loro vuole volare via, con ali leggere,
ma il fratello, implume, lo trattiene.
Quindi, resta nel nido da cui vuole fuggire. A entrambi
unisci la testa e la coda: non è opera vana.
*
Emblema VIII
Accipe ovum et igneo percute gladio
Il cielo ha in dote un uccello, di tutti il più ardito:
ne cercherai l’uovo, non occupandoti di altro.
Un sigillo bianco circonda il tuorlo. Toccalo
con cautela, con una spada di fuoco (così si fa).
Marte deve aiutare Vulcano: solo così nascerà
un uccelletto valente, di ferro e di fuoco.
*
Emblema IX
Arborem cum sene conclude in rorida domo, & comedens de fructu ejus fiet juvenis
Nel giardino dei saggi c’è un albero dai frutti d’oro.
Prendilo insieme a quei vecchi; rinchiudili
in una casa di vetro tumida di rosea rugiada.
Lascia che si uniscano per molti giorni:
del frutto dell’albero banchettino (meraviglia!)
perché il vecchio si tramuti in giovane uomo.
*
Emblema X
Da ignem igni, Mercurium Mercurio, et sufficit tibi
Alla catena che lo assembla
tutta intera è appesa la macchina del mondo:
sembra che del suo sembiante si rallegri.
Dunque, fuoco nel fuoco, Mercurio nel Mercurio
unitevi: ragionate sui limiti della vostra arte.
Vulcano spinge Mercurio; ma è l’alato Hermes
che ti sprigiona, o Cinzia, che libera Apollo.