23 Settembre 2019

“Sono ancora io, io che brucio ormai qui inconoscibile?”. Franco Rella ci parla dell’inumano, tra Rilke e Simone Weil

Georges Bernanos aveva pubblicato nel 1938 un libro lancinante, I grandi cimiteri sotto la luna, in cui parla del dilagare dell’orrore della Guerra di Spagna che ci rende indifferenti all’orrore dei cadaveri abbandonati lungo le strade, nei campi, sotto la luna, come se questo fosse ormai un paesaggio famigliare. Famigliare come allo schiavo è famigliare lo scudiscio del padrone. È l’occasione perché Simone Weil racconti a Bernanos, allo scrittore monarchico e di destra, con un figlio ufficiale nell’esercito di Francisco Franco, la sua esperienza di «sinistra» della Guerra di Spagna. Un impulso morale l’ha spinta dalla parte dei repubblicani. Ha scoperto però che i «fascisti», «termine molto ampio» che comprendeva quasi tutti gli oppositori, erano considerati «una categoria di esseri umani fuori da quelli la cui vita ha un prezzo». Ha scoperto che quando questo succede «non c’è niente di più naturale per l’uomo che uccidere». Ha scoperto di quale forza d’animo bisogna esser dotati per resistere a questo impulso che «cancella subito il fine stesso della lotta». In questo lo scrittore cattolico, che si leva contro l’indifferenza nei confronti della morte e anche contro le gerarchie ecclesiastiche, scrive Weil, le è più vicino «senza paragone dei miei compagni delle milizie d’Aragona – quei compagni che tuttavia amavo».

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Tornando ancora una volta all’Iliade, Simone Weil osserva che «questo poema è una cosa miracolosa. In esso l’amarezza concerne l’unica giusta causa d’amarezza, la subordinazione dell’anima umana alla forza, vale a dire, in fin dei conti, alla materia». La forza che si esprime nella violenza della guerra, nella violenza dell’assoggettamento e della schiavitù, nel fare dell’uomo una cosa spingendolo nell’inumano, è anche la forza della necessità. Simone Weil ricorda che tra le lacrime Priamo e Achille mangiano. Omero ricorda come anche Niobe «pensò a mangiare, ella a cui dodici figli nella sua casa morirono» e rimasero insepolti finché il decimo giorno furono sepolti dagli stessi dei. «Ma ella pensò a mangiare, quando fu stanca delle lacrime». «Mai – commenta Simone Weil – è stata espressa con altrettanta amarezza la miseria dell’uomo, che lo rende incapace persino di sentire la propria miseria». Non solo la violenza umana è disumanante, ma anche la forza della natura, la forza della necessità, come si manifesta in quelle situazioni in cui l’essere umano ne è sottoposto o addirittura schiacciato. È l’esperienza che Simone Weil stessa ha fatto quando si è costretta alla catena di montaggio alla Renault.

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La forza della guerra, la forza delle necessità materiali, la violenza del lavoro coatto, persino la forza dell’indifferenziato, che domina nel paese piovoso dell’esperienza della depressione, possono spingere ai confini dell’umano, spingere a bordeggiarne i territori cercando di resistere con fatica alla perversa attrazione dell’inumano. Così agisce anche la forza dell’ambizione, la spinta demoniaca al potere. Riccardo III e Macbeth uccidono per salire al trono, ma uccidendo conquistano per se stessi un regno precario e, insieme, l’inumano della mostruosità e della follia. Macbeth ha spinto la forza tanto oltre da abbracciare e corteggiare l’annientamento, fino a fare della vita un’ombra (V, V, 24), e a cedere a un invincibile desiderio di nulla: «Comincio ad essere stanco del sole / e vorrei che la struttura del mondo rovinasse» (V, V, 49-50). Dunque il male, il dolore, l’insensato fino al punto in cui si cede e si cade, in cui il mondo cade e si sgretola. E poi, alla fine di tutto, emerge il lancinante indescrivibile lamento del non umano, come nell’allucinato romanzo di Kaniuk Adamo risorto (tr. it. di E. Loewenthal, Theoria, Roma-Napoli 1995). Questo Adamo è l’uomo che è stato generato dall’orrore di una forza che annienta, è stato generato da Auschwitz, è qui figlio di Auschwitz, è l’abissale opaco dell’uomo-cosa, dell’uomo non umano. È anche il mugolio indistinto di Hurbinek, che abbiamo già incontrato lungo il nostro cammino, anche lui figlio di Auschwitz. Simone Weil vuole confrontarci anche con un’altra forza, a mio giudizio altrettanto violenta e costrittiva, la forza che spinge verso il sacro. È lei stessa a esercitarla, spietatamente, con la determinazione di Achille, come se questa fosse la sua guerra di Troia.

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La via della verità è impervia, impossibile, inumana. «Non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento; senza aver soggiornato a lungo in uno stato di estrema e totale umiliazione», scrive Simone Weil in uno dei suoi ultimi scritti, La persona e il sacro (a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 2012). Annientamento, estrema e totale umiliazione è appunto la descrizione che Weil ci ha dato della condizione dell’uomo vittima della forza, dell’uomo che diventa cosa, come nel caso del supplice, di Priamo abbracciato alle ginocchia di Achille. La via del sacro è dunque la via di una spersonalizzazione che si fa fatica a non identificare con quel processo di disumanazione che Simone Weil ci ha mirabilmente esposto nella sua lettura dell’Iliade. La persona è dotata di diritti, è portatrice di diritti, quelli che reclamiamo per noi, quelli che reclamiamo per quelli che ne sono privati, per gli schiavi di un tempo, per i migranti e per i dannati della terra di oggi. Secondo Stefano Rodotà la nozione di persona appare in grado di «penetrare nella densità singolare dei corpi», realizzando l’unione «tra diritto e vita, umanità e legge, anima e corpo» (in dialogo con R. Esposito, La maschera della persona, in «Micromega», 3, 2007, p. 107; cfr. anche La vita e le regole, Feltrinelli, Milano 2006). È proprio il concetto di persona che stabilisce quel confine a partire dal quale una «materia biologica acquista quel valore che la rende intangibile». Ma il diritto, scrive Simone Weil, viene da Roma, e tutto ciò che viene da Roma è male. Diritto e vita, umanità e legge. È ciò che fa di un ente una persona, è ciò che lo protegge o dovrebbe proteggerlo dalla forza disumanante della violenza e del potere che senza diritti si muove illimitata e inesorabile. Ma, come abbiamo visto, Simone Weil afferma che è necessario essere estranei al diritto. L’ingiustizia non ha rapporto autentico con il diritto, così lo strazio, il grido di fronte all’offesa, nell’ultimo degli uomini come nel Cristo, non si appella al diritto ma è «una protesta impersonale». In definitiva «ciò che è sacro lungi dall’essere persona, è quello che di un essere umano è impersonale. Tutto ciò che nell’uomo è impersonale è sacro, e nient’altro lo è». Dunque, prosegue implacabile Simone Weil, la verità e la bellezza sono anonime e impersonali. La perfezione è impersonale, mentre «la persona in noi è errore e peccato». I mistici hanno cercato con tutte le loro forze di annientare quella parte dell’anima in cui potesse pronunciarsi la parola «io», in quanto «pericolosa» è quella parte dell’anima che dice io, come quella che dice noi. Andare verso il sacro è andare senza alcuna protezione verso la sventura, aprire in noi la ferita da cui noi stessi, in quanto persone e soggetti, coliamo via lasciando una sorta di essere piagato dal dolore, ma incorrotto e incorruttibile. Ma sacro. Di diamante o di acciaio, alla fine. La via che Simone Weil vuole indicare e percorrere – la dissoluzione dell’io e della persona nel sacro – è una tensione all’impossibile. Come Georges Bataille, che tende all’impossibile da raggiungere attraverso un eccesso erotico, che dovrebbe risolvere e dissolvere in sé l’io. I santi dell’impossibile, li definisce Alexander Irwin (Saints of impossible. Bataille, Weil and the Politics of the Sacred, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 2002).

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Rilke ha scritto che anche il dolore, anche la morte possono diventare una cosa nostra. Ha scritto nella IX Elegia (vv. 54-64) che proprio il dolore, la sofferenza, la morte fanno di noi un essere che sa quello che nemmeno l’angelo sa. E dunque si celebri all’angelo il mondo:

…. Mostragli allora
la semplice cosa, che, plasmata di generazione in generazione,
come cosa nostra vive, presso la mano e lo sguardo.
Digli le cose. Ne sarà stupefatto; come lo fosti tu
davanti al cordaio a Roma, o al vasaio sul Nilo.
Mostragli come può essere felice una cosa, innocente, nostra,
e come anche il dolore che piange si schiude puro alla forma
e serve da cosa, o si estingue facendosi cosa –, e beata
sfugge al di là del violino. – E le cose che vivono nel
trapassare capiscono che tu le lodi; caduche
fidano che in noi, i più caduchi, sia ciò che salva.

Proprio la nostra capacità di parola, di dire le cose, e tra le cose anche il dolore, fa sì che non siamo ein Rettendes, qualcosa che salva, e così le cose si raccolgono intorno a noi, alle nostre parole come ciò che le salva, che le fa essere cosa, che dice di loro «quel che non sanno di essere nel loro intimo». È l’insegnamento che Rilke ha appreso da Cézanne. Il segno pittorico, la parola, fanno essere reale la cosa che altrimenti giace opaca e priva di significato, priva di realtà, nel mondo (Cezanne-Rilke. Quadri da un’esposizione, Parigi 1907, a cura di B. Kaufamann, con un testo di F. Rella, Jaca Book, Milano 2018).

Eppure anche Rilke conoscerà la forza che ammutolisce del dolore. Rilke all’ultimo, in una poesia scritta pochi giorni prima della morte, verso la metà del dicembre 1926, non troverà la salvezza dalla morte, ma lo sgretolamento dell’io e della parola di fronte al dolore e alla morte. Egli parla di un «insanabile dolore, intramato nel corpo», che lo calcina nel suo fuoco. Il furore, quello stesso che lo aveva spinto alla creazione, è ora furore d’inferno: sul rogo del dolore non c’è più né futuro né progetto. «Sono ancora io, io che brucio». Ecco l’estrema terribile domanda. Sono ancora io nel dolore, sulla soglia della morte? Io irriconoscibile, da me, e «da nessuno riconosciuto». La poesia si spezza, il verso si spezza. L’ultima parola ormai in prosa è questa: «Non mescolare a questo ciò che un tempo ti stupì». Il canto orfico della mescolanza e della metamorfosi, quel canto che nella mescolanza salvava le cose, non può più cantare la loro mescolanza, la loro molteplicità. Cosa canta ora questo canto? Ora il canto dovrebbe cantare l’orrore di un dolore mortale, il faccia a faccia con la propria morte, con la perdita di quei limiti che ci costituiscono e costituiscono la nostra identità. Anche questo è un compito. Forse un atto di eroismo. E se di fronte ad esso la parola viene meno, in questo venir meno deve specchiarsi come un oscuro bagliore ciò che pure sembra sfuggire alla parola, l’inesprimibile, quell’inesprimibile che appunto soltanto nelle crepe, nelle fenditure del linguaggio può mostrarsi. Anche nel suo venir meno. Forse per Rilke, per il poeta, è impossibile una completa rinuncia, anche se proprio questa parola suona terribile a conclusione del suo testo.

Questo è il testo, questo è il documento che compare come ultima annotazione del suo ultimo quaderno (R.M. Rilke, Sämtliche Werke, a cura del Rilke-Archiv con la collaborazione di R. Sieber-Rilke e E. Zinn, Insel, Frankfurt a.M. 1987, vol. II, Entwürfe. Ho tradotto questa poesia in F. Rella, Pensare e cantare la morte, Aragno, Torino 2004).

Vieni tu, tu ultimo ravvisato,
Tu, insanabile dolore, intramato
ora nel corpo. Un tempo nello spirito,
ecco, in te, sono io ora calcinato;
il legno a lungo s’è opposto
della fiamma ad essere alleato,
che in te avvivi, ma ora
in te io brucio, ti sono a lato.
La mia dolcezza nel tuo furore
si fa furore non di qui, d’inferno.
Salii, nudo, puro, né progetti,
né futuro, sull’intrico
del rogo del dolore.
Certo di non poter comprare
scheggia di futuro per questo cuore,
che d’ogni provvista vuoto
qui si è fatto muto.
Sono ancora io, io che brucio
Ormai qui inconoscibile?
Non vi trascino ricordi.
O vita, vita. Esser-fuori.
E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto.

La metamorfosi era stata per Rilke, nelle Elegie duinesi e nei Sonetti a Orfeo, il grande movimento della vita, l’apparizione del divino nel mondo, una sorta di santificazione della terrestrità, come leggiamo in Elegie, IX, 11-17:

Ma perché essere qui è molto, perché sembra
che tutto ciò che è qui abbia bisogno di noi: questo fugace
che stranamente ci concerne. Di noi, i più fugaci. Ogni cosa
una volta, solo una volta. Una volta e mai più. E noi pure
una volta. Un’altra mai più. Ma questo
essere stati una volta, anche solo una volta,
essere stati terreni, sembra irrevocabile.

Perduto ciò che «un tempo ti stupì»? Perduta nel dolore la capacità di metamorfosi? Tanto ha potuto il dolore, come d’altronde hanno potuto, lo abbiamo letto in Simone Weil, la forza della violenza della guerra e la violenza del sacro?

Franco Rella

*Per gentile concessione dell’autore e dell’editore si pubblica un brandello del capitolo “L’inumano. La violenza e il sacro”, parte dell’ultimo lavoro di Franco Rella, “Territori dell’umano”, per Jaca Book, in libreria dal 10 ottobre

**Franco Rella sarà protagonista della rassegna “Nemesis”, organizzata da Pangea, il prossimo mercoledì, 25 settembre, alle ore 17,30, presso Palazzo Buonadrata a Rimini. Il dialogo si orienterà a partire dall’opera di Rainer Maria Rilke

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