Se là dovessi morire, sul fronte armato / piangeresti per un giorno, oh Lou mia amata / […] // Ricordo dimenticato vivo in ogni cosa / farei rossa la punta dei tuoi bei seni rosa. (Guillaume Apollinaire, Se là dovessi morire…).
Alle 11 del giorno 11 novembre 1918 entra in vigore l’armistizio che pone fine alla Prima Guerra mondiale.
Meno di due settimane prima, con la resa degli austriaci, si è conclusa l’avventura del Sacro Romano Impero. La firma, nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino, in quel di Padova.
A Vittorio Veneto non c’è stato un vero successo italiano, l’esercito asburgico è semplicemente venuto meno. Già a Vienna e a Budapest scoppiano le prime rivolte di matrice bolscevica.
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Molti poeti segnarono e cantarono quegli anni, vivendo sia nelle trincee che sulla pagina scritta, tanto che non è facile scegliere con quale voce ricordare i tragici eventi finali del conflitto che marcò la fine di quello che Stephen Zweig chiamerà il “mondo di ieri”, con nefasti presagi condivisi con tanti altri scrittori, e con un titolo passato alla storia.
Lo si potrebbe fare con quella di Giuseppe Ungaretti, ma è scelta fin troppo ovvia, da programma scolastico.
Lo si potrebbe fare ricordando Charles Péguy, ucciso nelle prime schermaglie del conflitto, ma già è passato.
Lo si potrebbe fare traducendo il simbolista Francis Jammes e le sue Cinq Prières pour le temps de la guerre.
Lo si potrebbe fare ritraducendo Dieci giorni in Italia, il retorico diario di Maurice Barrès dal fronte triveneto.
Lo si potrebbe fare ricordando di Pierre Drieu La Rochelle, altro reduce del fronte che, assieme a Georges Bernanos, vide tutto prima di tutti, o i versi di Interrogation (La Finestra Editrice 2015, ed. bilingue), oppure, in modo più provocatorio ma forse più pertinente, in questi tempi di ruvide frizioni tra globalisti e sovranisti, tra europeisti e nazionalisti, tra riformatori illusi e illusionisti italici, L’Europe contre les patries (La Finestra Editrice 2015, ed. bilingue), un libello polemico e per certi versi geniale.
Oppure ancora ricordando Guillaume Apollinaire e riscoprendo tre sue opere mai tradotte in lingua italiana…
Il calendario preme di suo per questa opzione, visto che il poeta soldato perì nella sua (dal 1900) Parigi appena due giorni prima di quel fatidico 11 novembre, e impone di commemorare con un breve profilo tanto la fine della Grande Guerra quanto quella di uno scrittore tra i più decisivi del Novecento e quella di un mondo che nelle trincee è morto.
Apollinaire, di Barrès l’antitesi, di Ungaretti amico, di Jammes fratello, pur assai differente, e che come Drieu approcciò le rive – presto divenute derive – del surrealismo (che d’altro canto fondò e definì, col dramma Le mammelle di Tiresia: il termine appare in una lettera a Paul Dernée e nel sottotitolo del libro) frequentando tra gli altri l’ebreo poi convertito cattolico (e futuro martire della Seconda Guerra mondiale) Max Jacob, in realtà non era nato in Francia bensì in quel di Roma (nel 1880) da uno svizzero di cognome italiano che mai lo riconobbe e da una nobildonna polacca (stirpe dei Kostrowitzky che si estinguerà nel 1919) ma tutta la sua carriera letteraria si svilupperà sui bordi della Senna, con la fondamentale parentesi sotto le armi.
Tra le opere più conosciute, i versi di Alcools, i racconti fantastici de L’Eresiarca & C., il breve romanzo o novella lunga Le undicimila verghe (un vero e proprio florilegio d’ogni immaginabile perversione erotica: zoofilia, sodomia, necrofilia, pederastia, gerontofilia e perfino stupri), numerosi e importanti contributi di critica d’arte (appassionandosi di simbolismo e orfismo, di cubismo e futurismo), le cronache parigine Il flâneur delle due rive, i diari intimi di tutta la vita (1898-1918), editi in Francia con ritardo (nel 1991), ma soprattutto i Calligrammi (il sottotitolo spesso dimenticato: Poemi della pace e della guerra), che rimodellarono le formule visive della poesia, piccolo paradosso per chi si era formato come stenografo, e ancora le prose del volume Il poeta assassinato, titolo sinistro per un libro ispirato dalla guerra vissuta in qualità di brigadiere nel 38° reggimento di artiglieria e poi sottotenente nel 96° fanteria.
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Si era presentato volontario agli inizi della guerra. Dapprima rifiutato in quanto di cittadinanza russa. Poi accettato, nel dicembre del 1914, cosa che darà il là al processo di naturalizzazione francese, infine ottenuto pochi giorni prima d’esser ferito alla testa da un obice…
Sul fronte continua a scrivere. In modo particolare dei versi. Un esempio è il piccolo quaderno Case d’armons, ma anche parte dei Calligrammi e delle appassionate poesie per la fidanzata, edite solo trentasette anni dopo con un titolo apocrifo, Tendre comme le souvenir.
Di ritorno da un breve permesso passato in Algeria con Jaqueline Kolb, la donna che si accinge a sposare (è il 1918), dalle prime linee del fronte le invia un messaggio: “Ti lascio tutto ciò che possiedo, e questo sia considerato il mio testamento, all’occorrenza”. Giusto tre giorni dopo, in una trincea del bosco di Buttes, nei pressi di Berry-au-Bac, Aisne, una granata trapassa l’elmetto del poeta, che rimane ferito alla tempia destra. Portato in ospedale, viene operato, e l’incisione a forma di “T” che gli viene praticata nelle ossa del cranio permette ai medici di estrarre le schegge che sono penetrate. Lo trasferiscono prima nella vicina Château-Thierry, poi presso l’ospedale Val-de-Grâce di Parigi, infine presso quello italiano, in cui presta servizio l’amico Serge Férat. Il poeta guarisce ma soffre di svenimenti e di una paralisi sul lato sinistro. Trasportato nella Villa Molière, Auteuil, subisce una trapanatura, riuscita. Tuttavia…
A dispetto della ferita Apollinaire non viene riformato bensì distaccato presso la direzione delle relazioni del comando militare con la stampa, in parole povere la censura, e successivamente presso il gabinetto del Ministero delle Colonie. Nel mentre collabora con varie riviste letterarie alquanto ardite, come Sic, 391 e Nord-Sud, e scrive una prefazione a un volume delle poesie di Baudelaire che va ad aggiungersi a quelle dedicate a Sade (1909), Aretino (1909-1910) e altri libertini italofoni (1910), tutti per la “Bibliothèque des Curieux”, e alle curatele del libro Des Pensées inédites, con i disegni di Raoul Dufy (1920) e dei sonetti di Michelangelo, evidenti testimonianze di una proteiforme volontà di collegare le arti visive e quelle della parola.
Una malattia polmonare costringe però il poeta a una nuova degenza presso la Villa Molière, eppure, mentre vengono dati alle stampe i Calligrammi, riesce a sposarsi, con due testimoni di nozze d’eccezione, Pablo Picasso e Ambroise Vollard, il grande collezionista, e moltiplica le collaborazioni con i giornali trovando il tempo per iniziare le bozze di un romanzo,Les Clowns d’Elvire o Les caprices de Bellone.
L’influenza spagnola – “influenza intestinale complicata da congestione polmonare”, annota più precisamente ancora nel suo diario Paul Léautaud – gli è tuttavia fatale il 9 novembre o forse il giorno precedente, visto che proprio Ungaretti, accorso per comunicargli la vittoria bellica, lo trova morto nel suo letto, al 202 di boulevard Saint-Germain, con la “bella rossa” che, disperata, ancora lo veglia al capezzale.
E non è leggenda ma cronaca la coincidenza per cui, nel pieno della sua agonia, lo scrittore abbia potuto udire una folla di parigini sfilare, posseduti dal loro vecchio vizio del godimento sadiano da ghigliottina, al grido di: “À mort Guillaume !”, riferito non ad Apollinaire bensì a Guglielmo II, l’imperatore della casa Hohenzollern che aveva abdicato lo stesso giorno.
Il nome del poeta soldato è oggi citato sulle targhe commemorative del Panthéon parigino nella lista degli scrittori morti per la bandiera francese nel corso della Grande Guerra.
Quanto alla tomba a Père Lachaise, tre opere proposte da Picasso come monumento funerario, voluto da un comitato d’artisti, vengono tutte rifiutate, una perché ritenuta oscena.
Alla fine, sulla sepoltura del poeta verrà eretta una sorta di menhir realizzato da Férat, artista oltre che infermiere, con un duplice epitaffio, ovvero tre strofe dalla poesia intitolata Collina e un calligramma a forma di cuore: “il mio cuore simile a una fiamma rovesciata”.
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L’influenza di Apollinaire sarà vasta e profonda, da Blaise Cendrars, dadaista della prima ora, ai surrealisti, a Henry Miller che ammise di esser stato fulminato da una delle figure davvero più surreali del poeta francofono: “accanto a un signore che mangia sé medesimo”.
Tuttavia, mitomane quanto Cendrars o forse no, nel Tropico del Cancro Miller sostiene anche di aver cominciato a scrivere un po’ alla maniera di Apollinaire non già a Parigi bensì ancora ai tempi di New York, senza conoscerne in alcun modo il nome: “Ah, sì, se avessi saputo allora che esistevano individui simili […], se l’avessi saputo allora, se avessi scoperto che a loro modo pensavano le stesse cose mie, credo che sarei esploso. Sì, credo che sarei saltato come una bomba”.
La posterità ha d’altro canto potuto far piena conoscenza col poeta soldato, scoprendo anche tutte le parole destinate alla sua “Lou”, Louise de Coligny-Châtillon, nome d’arte di Geneviève Marguerite Marie-Louise de Pillot de Coligny, con la quale sperimentò un amore torturato più che vissuto, sadomasochista anche nelle parole che ispirò (nello scambio epistolare si scorge infatti un continuo scambiarsi il ruolo di vittima e carnefice, lui sadico e lei che vuol sentirsi libera).
Un amore nato quando il poeta era sotto le armi e durato due anni, da cui si evince come la guerra non riuscì a distrarlo né dalle sottane né dalla poesia, pur non venendo mai meno la sua dedizione verso l’esercito, visto che era non solo desideroso di guadagni, invero modesti, ma anche e soprattutto di brillare agli occhi delle sue donne, facendo virtù di una sorprendente capacità di adattamento alla vita militare, di cui aveva dato prova già in gioventù, al collegio e al convitto…
Ad Apollinaire uomo socievole e semplice (“Mi auguro in casa: / una donna ragionevole, / un gatto che passa tra i libri, / degli amici in ogni stagione. / Senza cui non posso vivere.”), la vita in caserma non pare creare alcun problema, e ne trae anzi ispirazione, sebbene quello trascorso con i compagni d’armi non possa valere il tempo passato con le compagne di letto…
Specie quello, appunto più sognato che trascorso, in compagnia di Lou. “Mia cara stellina palpitante ti amo”. Melenso? Forse. Semplice? Certo. Ma tanto per cominciare si contestualizzino queste parole. Dal fronte. E poi. Meno semplice di sicuro era la ragazza, che lo faceva struggere in trincea, e che un amico del poeta, la ben la conosceva, tratteggiava in questi termini: “spiritosa, disinvolta, frivola, impetuosa, puerile, sensibile, sfuggente, nervosa, insomma un po’ matta”.
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Poesie erotiche per Lou e Madeleine (Newton & Compton 1976), Lou, mia regina (Archinto 1999), Ti amerò di un amore nuovo. Lettere a Lou (L’orma 2016) e Poesie per Lou e altri versi d’amore (Passigli 2017) sono i titoli delle numerose e tuttavia mai complete edizioni in lingua italiana delle opere legate alla figura di Lou, pubblicate solo nel Dopoguerra in Svizzera, e soltanto nel 1969 in Francia. Ma una vita editoriale non proprio lineare è stata anche quella di tre prose.
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L’Enchanteur poutrescent [L’incantatore putrescente] (1909), scritta da un Apollinaire diciottenne, illustrata dalle xilografie di André Derain ed edita da un mercante d’arte, Daniel-Henry Kahnweiler, e poi dalla Nouvelle Revue Française, è opera prima di enorme libertà compositiva in cui nel bosco fatato del ciclo di Merlino e re Artù s’intrecciano le storie, i dialoghi e le azioni di figure quali Tiresia ed Elena, Apollonio di Tiana e Simone lo Stilita, Empedocle e san Michele, i Druidi e altri eroi delle leggende celtiche e della mitologia greca, i patriarchi d’Israele, come Elia ed Enoch, e una serie di mostri che paiono usciti direttamente dal libro di Giobbe e dai testi medievali, tutti avvolti in un incantesimo letterario sospeso tra Villon e Maeterlinck, tra Merril e Gourmont, tra il simbolismo dei dipinti di Puvis de Chavanne e i surrealisti ancora là da venire.
Non di mero folclore si tratta ma già di un tentativo d’avanguardia che l’autore stesso definirà un testamento della sua prima estetica, testimonianza decisiva delle sue letture più amate, da cui mai si distaccherà, visto che Merlino e la Fata Morgana, i presagi, i talismani, i segni premonitori tornano per esempio in Alcools.
La Femme blanche des Hohenzollern [La donna bianca degli Hohenzollern] (1918), è l’esito di un contratto firmato con l’editore Briffaut per due volumi, Raspoutine e La Dame blanche des Hohenzollern, che avrebbero dovuto far seguito a La Roma dei Borgia, La fine di Babilonia e I tre Don Juan nella serie “L’Histoire romanesque”. Di Raspoutine Apollinaire ha scritto solo qualche riga, de La Dame blanche tre capitoli consegnati nel 1918, un manoscritto che riporta numerosi dispacci della “Radio”, l’agenzia telegrafica tedesca, diffusi tra il 1914 e il 1917, riutilizzazione di frammenti testuali in forma di collage in cui lo scrittore esalta la mobilitazione bellica dei francesi. Si trattava a suo avviso di un vero e proprio “miracolo”, la prima “meraviglia” del conflitto. Il titolo del secondo capitolo sintetizza le due passioni del poeta, ovvero l’amore e la guerra.
La Femme assise [La donna seduta] (1920), altra opera incompiuta, è una prosa che la critica descrive come poco riuscita, certo eterogenea, assai divagante, ma affascinante proprio in virtù del suo carattere aneddotico, ricca com’è di riferimenti a quel vecchio mondo modiglianesco degli habitué dei bar di Montparnasse.
Alla mancanza di edizioni italiane di questi tre testi che ovviamente hanno trovato spazio nella “Pléiade” Gallimard, c’è in realtà una piccola giustificazione, ovvero il fatto che l’opera dello scrittore è eccezionalmente di dominio pubblico solo da cinque anni, dunque non dopo i canonici settanta bensì dopo novantacinque.
Il motivo è una proroga concessa dal legislatore francese su richiesta dei titolari, dovuta precisamente al fatto di esser stato riconosciuto come artista morto per la Francia, con la possibilità di “recuperare” gli anni di guerra in cui l’opera non fu sfruttata.
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Non sorprenda l’idea, poetica, della “meraviglia” della guerra, e non solamente nel senso di una mobilitazione come salvaguardia della libertà dai tedeschi. Nelle opere Apollinaire c’è stato spazio anche per un gusto per il futurismo, movimento cui inizialmente aderì per poi prenderne inevitabilmente le distanze: “Non piangete dunque sugli orrori della guerra / prima di essa non avevamo che la superficie / della terra e dei mari / dopo avremo gli abissi / il sottosuolo e lo spazio aviatorio / padroni del timone / dopo dopo / prenderemo tutte le gioie / dei vincitori che si rilassano / Donne Giochi Officine Commercio / Industria Agricoltura Metallo // Fuoco Cristallo Velocità”, recita il poema Guerra.
L’avanguardia della poesia, profondamente irreligiosa, pagherà il s uo scotto nelle prime linee.
L’avanguardia delle trincee. Fu la declinazione più allucinata e devastante del coraggio che Miller invoca nel Tropico del Capricorno di far saltare il ponte della vita quotidiana.
Così crollò il mondo di ieri.
Ma quale sciagura vera se crollasse il ponte della poesia, e quello tra i mondi di ieri e di oggi!
Sous le pont Mirabeau coule la Seine et nos amours…
Passano i giorni. Passano i mondi. L’amore è lo stesso. Trovarsi su un fronte e sognare di far piangere l’amata e far rosse le punte di due bei seni rosa.
“L’amore se ne va come quest’acqua che scorre / l’amore se ne va come la vita è lenta / e come la speranza è violenta // Viene la notte e suona l’ora”…
Marco Settimini
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L’incantatore putrescente
Che cosa diventerà il mio cuore tra quelli che si amano tra loro? Ci fu un tempo una damigella di grande bellezza, figlia di un povero valvassore. La damigella era in età da matrimonio, ma diceva a suo padre e a sua madre che non la maritassero e che era decisa a non vedere uomo, perché il suo cuore non avrebbe potuto soffrire una simile cosa e resistere. Il padre e la madre cercarono di farla tornare sulla sua decisione, ma non ci riuscirono in alcun modo. Disse loro che se l’avessero costretta a vedere un uomo, subito ne sarebbe morta o sarebbe andata fuori di senno; e quando sua madre le chiese in privato, come madre, se voleva sempre astenersi dagli uomini, rispose di no, ma non solo: se fosse potuta stare in compagnia di un uomo che non avesse visto affatto, l’avrebbe amato appassionatamente. Il valvassore e sua moglie, che non avevano altri figli oltre a lei e che l’amavano come si deve amare un figlio unico, non vollero rischiare di perderla. Soffrirono e si addolcirono, sperando che cambiasse idea. Nel giro di qualche tempo il padre morì e dopo il suo trapasso la madre supplicò sua figlia di prendere marito, ma costei non volle saperne. A quel punto accadde che un diavolo si presentò alla damigella nel suo letto, approfittando della notte scura. Cominciò a pregarla molto dolcemente e le promise che mai l’avrebbe visto. Gli chiese chi fosse: “Sono,” disse, “un uomo venuto da una terra straniera e come lei non potrebbe vedere uomo, io non potrei vedere donna con la quale andassi a letto”. La damigella lo tastò e sentì che aveva il corpo molto ben fatto. E l’amò appassionatamente, fece la sua volontà e celò il tutto alla madre e a tutti gli altri.
Dopo aver condotto quella vita per un mese, rimase incinta, e, quando partorì, tutti si meravigliarono perché del padre non ne sapevano nulla e lei non voleva parlarne. Fu un figlio maschio e gli fu dato il nome di Merlino. E quando compì dodici anni anni fu portato da Uter Pandragon.
Dopo che il duca di Tintaguel morì per via del tradimento di Uter Pandragon e di Merlino a favore di Egerver, la duchessa che Uter Pandragon amava, Merlino se ne andò nelle foreste profonde, oscure e antiche. Aveva la stessa natura del padre, perché era deludente e sleale e conobbe tutto ciò che un cuore può sapere quanto a perversità. C’era nella contrada una damigella d’enorme bellezza che si chiamava Viviane o Eviène. Merlino prese ad amarla, e andava spesso là dove si trovava, tanto di giorno quanto di notte. La damigella, che era avveduta e cortese, si difese a lungo e un giorno lo scongiurò di dirgli chi fosse, ed egli disse la verità. La damigella gli promise di far tutto ciò che gli avrebbe fatto piacere, se prima le avesse insegnato una parte del suo intuito e della sua scienza. E lui, che l’amava almeno quanto potrebbe amare un cuore mortale, le promise che le avrebbe insegnato tutto ciò che avrebbe domandato: “Voglio,” fece la donna, “che lei m’insegni come e in quale maniera e con quali possenti parole potrei chiudere un luogo e tenervi chi volessi senza che nessuno potesse entrarvi o uscirvi. E voglio anche che m’insegni come potrei far dormire chi volessi.
“Perché,” fece Merlino, “vuol sapere tutto questo?”
“Perché,” fece lei, “se mio padre sapesse che lei è stato a letto con me mi ucciderebbe all’istante e se lo facessi dormire sarei al sicuro. Ma si guardi dall’incantarmi a proposito di ciò che le chiedo, perché sappia che in tal caso non avrà mai il mio amore, né la mia compagnia”.
Merlino le insegnò ciò che chiedeva e la damigella scrisse le parole che udiva, di cui egli si serviva tutte le volte che andava a trovarla. E lui si addormentava immediatamente. Si comportò in quella maniera molto a lungo, e quando la lasciava pensava sempre di esser stato a letto con lei. Lei lo deludeva così perché lui era mortale; ma se fosse stato in tutto e per tutto un diavolo lei non l’avrebbe potuto deludere, perché un diavolo non può dormire. Alla fine venne a sapere da lui così tante cose meravigliose che lo fece entrare nella tomba, nella foresta profonda, oscura e perigliosa. E colei che addormentò così bene Merlino era la dama del lago in cui ella viveva. Ne usciva quando voleva e vi tornava liberamente, unendo i piedi e tuffandovisi dentro.