L’amico mi fa. Leggi almeno le prime pagine. Non potrai farne a meno. Hanno una furia romanzesca. E io leggo. Non che volessi delegare la lettura ad altro tempo. Solo che. 480 pagine e 837 note. Che dicono di un lavoro – va da sé, siamo in ambito saggistico, per quanto ‘divulgativo’, cioè leggibile, evviva – minuzioso, al microscopio. L’amico tallona. Lo accontento. “Decise di fuggire la notte del 16 agosto 1578. Non poteva più rimandare. Attese il buio nella sua cella fetida di cui aveva già forzato la porta. Al calar della notte si pose in ascolto: silenzio, il mormorìo del fiume, il russare di due frati di passaggio addormentati nella sala. Aprì, piano piano, e guardò fuori: era una notte luminosa e sull’altro lato della sala le finestre affacciate sul Tago lasciavano filtrare la luce della luna. In quel silenzio il rumore metallico di una chiave infilata nella serratura che cadde e rimbalzò parve assordante”. Pare, chessò, Il Conte di Montecristo. Invece, “è la prima biografia critica, in lingua italiana, di san Giovanni della Croce”, come dice la ‘quarta’ di Benché sia notte (Ares, 2018), titolo luminoso, quasi cinematografico. Merito di Mario Iannaccone rendere la storia di Juan de Yepes, cofondatore dei Carmelitani Scalzi, beatificato come Juan de la Cruz nel 1675 e fatto Santo nel 1726, una fiction, una vicenda spirituale – anzitutto, verticale, vertiginosa – dal nitore narrativo. Di per sé, come si dice, ‘la storia c’è tutta’: l’incontro con l’altra implacabile mistica – Teresa d’Avila – la creazione di conventi in cascinali sparuti, il contrasto, la prigione, il fraintendimento, la fuga, la morte in solitudine. Devastante, terminale Juan, che scopre che l’anima è barocca e va denudata, che ci fa percorrere la via crucis dell’interiorità, La notte oscura, fino a sbocciare nell’Altro… che prende per i capelli la ‘via negativa’ dello Pseudo-Dionigi – siamo nullità, incuneate nel nulla, Dio è la grande tenebra che ci trafigge verso la visione sonora, perché è nella notte, nel punto più doloroso del vivere, che vediamo – e lo getta nel futuro, roteando, fino a Dostoevskij, fino a oggi. Chi ha letto Juan, non può non soffrirlo. Scrive molto bene Iannaccone: “Scrisse sempre per alludere a quanto traboccava dal suo cuore e non sapeva comunicare altrimenti; scrisse in servizio della sua missione di direttore spirituale. Era anche ben cosciente – è lui a dircelo – che queste stesse poesie erano poca cosa rispetto a quanto intendeva dire. Allora ricorse a glosse, testi in prosa lunghi e complessi, che espandono il significato delle poesie andando incontro a una sorta di splendido fallimento. Come Michelangelo Buonarroti, Juan conosceva il senso dell’incompiutezza e l’accettava”. Notevole l’accostamento a Michelangelo, perché l’anima è quel deforme, quel marmo muto a cui l’esperienza spirituale – la disciplina nel rampicare l’abisso – dà forma. Chi tocca Juan ne viene stigmatizzato: ricordo la traduzione delle sue poesie, di inclassificabile urgenza, da parte di Cristina Campo – si firmò Giusto Cabianca – per I mistici dell’Occidente di Elémire Zolla. “Per arrivare a sapere tutto/ non voler sapere nulla in nulla”; “per giungere al tutto/ devi lasciare del tutto il tutto”. Questi versi, tratti dalla Salita al Monte Carmelo, mostrano che la perdizione è il gesto con Dio ci orienta a sé; che la notte è sempre un fuoco sulla via della vera luce. “Dimentico, acquietato,/ il volto reclinai sopra l’Amore/ tutto cessò e restai”. Non cerchiamo forse questo, per riscattare la nostra personale notte? Perderci – fino a perdere il nome, gli alfabeti e gli affetti – perché Uno ci raccolga, definitivamente?
Una biografia di san Giovanni della Croce. La prima? Come le è venuto in mente di imbarcarsi in un lavoro così potente, immenso?
Per studi e interessi sono sempre stato affascinato dal Cinquecento e dal Seicento, secoli avvolti da una crisi che ha alcune similitudini con quella dei nostri tempi. A differenza del nostro tempo, quello era abitato da letterati, politici, filosofi, religiosi, militari e artisti di singolare grandezza. Giovanni della Croce è uno dei 6 o 7 grandi personaggi della Spagna imperiale di quel periodo. Inoltre ho sempre amato le biografie: si tratta di un genere letterario specifico, di grande dignità narrativa e affine al romanzo. Le biografie migliori hanno l’ambizione di dipingere veri e propri affreschi storici inserendo i biografi nel loro contesto culturale, religioso e sociale. Mi piaceva poi la sfida di scoprire Giovanni della Croce, un personaggio un po’ misterioso sul quale non esistono biografie recenti né in italiano né in altre lingue. Eppure, i grandi personaggi del Rinascimento e del Barocco sono molto amati dai biografi. I santi Ignazio di Loyola e santa Teresa d’Avila, i re e gli imperatori come Carlo V o Filippo II, per non parlare degli artisti, gli architetti, i pittori, i musicisti e i poeti del tempo. Su di lui, ho trovato biografie risalenti al Seicento o al Settecento, e piccole e lacunose biografie – ma soprattutto agiografie – posteriori. Le agiografie, però, non sono biografie perché aderiscono ai cliché del genere: troviamo un santino dolce, remissivo, che faceva miracoli quasi ogni giorno. Giovanni invece fu una persona forte: per imporsi, come ha fatto, su un ordine in decomposizione come erano i Carmelitani “calzati”. Mi incuriosiva, inoltre, il fatto che, a differenza di altri riformatori cattolici del periodo, lui non fosse di nascita aristocratica ma provenisse da famiglia povera, forse di hidalgos, ma ridotti alla fame. Sopravvisse anche a una catena di lutti e finì in un collegio per bambini poveri. Eppure, unicamente grazie al suo ingegno, si fece strada. È uno di quei casi di convertiti in giovanissima età che apparentemente non svilupparono mai dubbi sulla propria scelta; si trovò, quasi per caso, a guidare un movimento di riforma già tentato più volte, ad esempio dall’isolato e combattivo Juan de Avila. Ma che non era riuscito per le varie crisi che la società spagnola aveva attraversato: i conflitti religiosi del tardo Quattrocento con moriscos e conversos, e le ripetute epidemie, a partire da quella della metà del Trecento che aveva sterminato intere congregazioni. Dopo aver conosciuto la vigorosa santa Teresa d’Avila, arrivò alla fondazione dei Carmelitani Scalzi. Lei, corrispondente con principi, re e letterati, generosamente ci ha raccontato la propria vita e qualcosa di Giovanni, che di sé non parla mai. Lui si dedicò agli studi, alla teologia, alla poesia e soprattutto alla preghiera. A un certo punto dovette mettere da parte i libri per viaggiare moltissimo: lo chiamavano per fondare monasteri, insegnare, organizzare lo Studium carmelitano appena costituito. La seconda parte della sua vita fu agitata perché incontrò molti nemici che non vedevano di buon occhio la sua opera di riforma. Non a caso, il mio libro si apre con una rocambolesca fuga nella quale compaiono le classiche lenzuola annodate. Fuggì da una prigione dove i frati nemici della riforma l’avevano tenuto prigioniero. Si calò per cinquanta metri nel buio, a Toledo, in una notte senza Luna.
Qual è stato il suo metodo di lavoro.
Piuttosto laborioso per forza di cose. Dovevo cercare di capire cosa c’era di vero nella vita di Giovanni così come veniva raccontata e cosa si poteva considerare espressione di uno spirito agiografico, formale, poco accurato. In assenza totale di scritti autobiografici ho iniziato studiando la Positio, cioè l’indagine che fu scritta dagli inviati diocesani agli inizi del Seicento nei vari luoghi in cui il candidato santo, allora servo di Dio, era vissuto. Sono 7 grossi volumi, più tomi di appendice, da leggere con attenzione nei quali appaiono le interviste rivolte a un centinaio di persone, dai 30 ai 40 anni dopo la morte di Giovanni. Anche se ripetono modelli comuni, in quelle indagini così formalizzate e riscritte nello spagnolo colto degli ecclesiastici incaricati di redigere il dossier, si ravvisano accenti di verità, racconti che compaiono altrove (in lettere, testimonianze), dettagli rivelatori. Dopo aver imbastito questa base ho compulsato le prime biografie secentesche e poi quelle successive selezionando ciò che risultava credibile da ciò che aderiva troppo ai modelli agiografici, encomiastici ed eroici del Seicento. Esiste poi una notevole produzione accademica e scientifica che si occupa di aspetti singoli della vita di Giovanni, della sua opera o della sua poesia, così come della lunga serie di fondazioni a Toledo, Granada, Malaga, Salamanca, Baeza. Mi sono imbattutto in problemi storici e storiografici interessantissimi: come la permanenza in quel tempo di vaste énclavese di moriscos soprattutto nel centro-sud della Spagna. O le tante conversioni anche di celebri architetti italiani che lavorarono all’Escorial e si fecero eremiti o carmelitani. O personaggi che sembrano usciti da un romanzo, come la bellissima Ana de Mendoza, aristocratica che andava in giro con una benda su un occhio perché non disdegnava lo spadillo e in un duello aveva perso un occhio. Poco si sa oggi di questi personaggi eppure furono influenti e celeberrimi nel loro tempo.
L’incipit del libro ha un tono volutamente narrativo. Eppure, si parla di un lavoro con oltre 800 note. Come si è mosso nella scrittura, ci sono state delle ispirazioni “romanzesche” per così dire?
L’incipit racconta uno dei clou avventurosi della vita di Giovanni. Imprigionato ingiustamente, “disobbedì” ai suoi superiori fuggendo. Riuscì a cogliere l’occasione durante una distrazione dei monaci. Legò alcune strisce di lenzuoli a un balconcino e si calò nel nero della notte lungo la parete del grande monastero, sul retro della famosa piazza Zocodover, in vista sul Tago. La corda finì prima che toccasse terra e lui non vedeva niente: potevano essere 10 metri o 15. Ma si lanciò sentendo che non poteva più tornare indietro. È un’immagine non casuale, che riassume la sua vita: l’affidamento alla “Noche”, alla tenebra dell’incertezza che è tenebra della fede e del dubbio, perché è contro la ragione naturale ma che diviene luce nel momento in cui viene accettata. E da quest’esperienza di privazione della luce che lo aveva visto prigioniero in un bugigattolo buio, usato come gabinetto, è scaturita la sua poesia. Questo è storicamente accertato. In quella tenebra era riuscito a scrivere dei versi sublimi, in piedi su uno sgabello a cercare un rivolo di luce; e quando potè rifugiarsi in un monastero amico, sempre a Toledo, alle monache che lo videro apparire come un fantasma cominciò a recitare una poesia che sarebbe divenuta Il Cantico spirituale. Ancor prima della prigionia era stato relegato in una torretta, la Torrecilla, e lì aveva subito attentati e tentativi di minarne la credibilità con lo stesso metodo che ho trovato in episodi di circa 400 anni dopo, quando i Martiri di Barbastro, nella Spagna del 1936, furono tentati da giovani prostitute fatte entrare apposta nel salone in cui erano tenuti. Una scena pressoché simile. Insomma, la tentazione della carne come via per distruggere la fama di un uomo santo. Nella Spagna della controriforma la parola, il giuramento, si prendeva molto, molto seriamente. Gli spunti romanzeschi non mancano, ebbe una vita intensa sino alla fine quando fu tradito da un frate che voleva far carriera e messo da parte “come uno straccio” dal nuovo generale degli Scalzi. Finì a morire quasi dimenticato, in sofferenze atroci per la cancrena di una gamba. E quella “notte oscura” che cantava sollevò sospetti. Credo che la vita di una persona, per quanto inattingibile, possa essere resa soltanto da biografie che si fanno, in certi momenti, romanzo. Penso alle belle biografie che Carolly Erickson ha dedicato ai regnanti francesi, inglesi e russi di varie dinastie o alla biografia che Benedetta Craveri scrisse su Madame du Deffand. La biografia è un genere che incrocia la storia con il romanzo: in fondo può essere un vero romanzo storico. Ricordo un libro che mi affascinò anni fa, scritto dallo storico Alain Corbin, Storia di uno sconosciuto, del 2001: raccontava la vita di un artigiano specializzato nel costruire zoccoli. La sfida dello storico consisteva nel raccontare la vita di uno sconosciuto, un uomo qualunque, che non si era distinto per niente. Ma Corbin ne ha tratto una biografia che è anche romanzo; che suscita l’ambiente, gli odori, i gusti, il cibo, il modo di vestire e di vivere di un uomo di vari secoli fa. Rievocare è narrare, narrare significa riportare ai sensi interni ciò che altri vissero. I biografi Erickson, Craveri, Corbin o la Serena Vitale del Bottone di Puśkin sono andati alla scuola di Alexander Dumas. Poi, certo, le note sono necessarie in questo tipo di lavori perché garantiscono che non si sta inventando, non si alterano i dati storici. Giovanni non è stato un avventuriero come Ignazio di Loyola e difatti, su quest’ultimo, Garcia Villoslada potè imbastire una celebre biografia di dimensioni monumentali. Riguardo a Giovanni, la sfida è difficile perché bisogna vagliare ogni singola notizia che viene talvolta da una fonte unica. E le notizie sono anche molto parche e raccontano, talvolta, episodi apparentemente minimi, quasi enigmatici.
La poesia di Giovanni pare consustanziale alla sua vita…
“Consustanziale” esprime molto bene la questione. Giovanni visse nella poesia perché non sapeva esprimersi in altro modo in certi momenti. È uno di quei santi che si chiusero, in certi momenti della vita, nel silenzio assoluto e la sua afasia era rotta soltanto dalla pratica poetica, dal verso. Emergeva da estasi e stati contemplativi attorno ai quali, secondo i contemporanei, accadevano fatti strani: luci, rumori. Ci sono episodi, visti da molti testimoni, persino ostili a Giovanni, che non trovano spiegazione se non vogliamo pensare a una menzogna collettiva. Lui però sosteneva che per esprimere ciò che gli premeva non poteva che usare i versi, perché la parola razionale non bastava. È una poesia particolare, la sua, perché piegata all’esigenza di spiegare stati estatici o “unitivi”. Il Cantico spirituale, La notte oscura, La fiamma d’amor viva, Benché sia notte, Il pastorello nascono da questa esigenza: spiegare la teologia mistica partendo dalla propria esperienza. C’è un nucleo di poesie che personalmente trovo bellissime e che hanno influito nella storia della poesia spagnola, perché Giovanni fu uno dei versificatori più aggiornati del suo tempo ed è stato molto studiato. Conosceva molto bene la tradizione dei petrarcheschi, l’arte nuevo di Garcilaso de la Vega (1539-1616), riprese i modelli strofici di Bernardo Tasso e altri italiani e francesi. Lesse molto, era colto, e insegnava. Quando veniva chiamato da Teresa per aiutarla nelle fondazioni, allora diventava architetto e muratore, falegname e tappezziere. Costruì da solo persino un acquedotto. Una specie di Gaudì in piccolo.
Ci sintetizzi la cifra della grandezza di quei versi. Come si saldano in una vita che fu anche una “notte oscura”, una tenebra?
Per varie ragioni – la maggior parte della vita la trascorse isolato in luoghi disabitati – elaborò molto personalmente i modelli poetici del suo tempo e i modelli biblici. Conosceva anche la poesia popolare delle strade del suo tempo, perché veniva dal popolo: i villancicos, in particolare, ballate popolari cantabili. Fuse il tutto alla fede e alle esperienze inesprimibili che viveva, concentrando il suo dettato attorno a immagini o “simboli” tesi, potenti, elementari: il fuoco, la fiamma, la notte, il vento, l’alba, la fonte, il mormorio delle fronde, l’acqua che scorre, il paesaggio di colline che si perdono nell’alba, il fiume, il monte. E attorno a questi, imbastì poesie originalissime che sono praticamente intraducibili. Questo è vero per tutti i poeti, in vario grado, ma per lui in modo particolare. Di traduzioni ne sono state fatte tante, più o meno felici. Nel libro riporto una traduzione ma ho preferito che ci fosse, evidenziato, il testo originale. Ai versi tradotti viene a mancare il suono, la materia, le sillabe, le assonanze, le rime interne che si rincorrono anche a distanza e che costruiscono un senso al dettato poetico che la traduzione perde. In più, a Giovanni, viene imputato il fatto che egli faccia poesia religiosa ovvero che traduca “à lo divino” soggetti profani interpretati secondo la teologia. C’è poi la parte meno felice della sua produzione, le Romanze. Queste, pur contenendo strofe interessanti e paradossali, sono poesia di tema religioso e per questo risultano meno interessanti perché catechetiche. Ma gioielli come Oltre un amoroso slancio o Vivo senza vivere in me assolvono alla loro funzione religiosa (Giovanni usava i versi come direttore spirituali, e diversi dei suoi figli spirituali furono canonizzati) e vanno anche oltre. Nei secoli si è sviluppato un impressionante dibattito fra i letterati spagnoli sul modo di “maneggiare” i versi sanjuanisti. Nel Siglo de Oro spagnolo Giovanni ha un posto suo, è un poeta originale che aveva osato tessere una sorta di libera parafrasi del Cantico dei Cantici. E poi ci sarebbe anche la prosa, in commento alla poesia. Ne ho scritto molto, la trovo una splendida parafrasi alla poesia, ma è una parafrasi e appunto ripete in prosa ciò che la poesia, più sinteticamente, esprime con il verso. Per questo, la prosa di Giovanni, soprattutto i tre grandi trattati che hanno lo stesso titolo delle poesie maggiori, Cantico spirituale, Fiamma d’amor vivo e Salita al monte Carmelo, sono chiamate “il magnifico fallimento”.