12 Aprile 2020

“Walden” è il libro del nostro tempo: insegna il valore della solitudine, l’amore per i boschi, un modo per varcare il dolore

Sarà stato tre anni fa. Era uscita una nuova biografia di Henry David Thoreu, lo scrittore di Walden, reso pop da L’attimo fuggente (“andai nei boschi… perché volevo vivere profondamente e succhiare tutto il midollo della vita”). Scrissi un articolo. Mi rispose, quel giorno, Piero Sanavio. Solo un cretino può scrivere di Walden senza citarmi. Mi arrabbiai. Aveva ragione lui. Insomma, Piero Sanavio, quello che andò a trovare in carcere Pound e filmò Gombrowicz nell’ultimo anno della sua vita terrena (qui scoprite chi è) ha curato le Opere scelte di HDT nel 1958, per Neri Pozzi, ha realizzato una versione di Walden che dura tuttora, in catalogo Bur. Aveva capito l’importanza – per certi versi maggiore di Moby Dick e di Foglie d’erba – di quel libro sgangherato e lirico, lucido e romantico, contemplativo e ribelle, al di là dei generi. Il libro decisivo per capire il mondo americano (“l’irriducibile, caustico individualismo yankee”, scriveva Sanavio), in cui sono previsti Hemingway e Kerouac – era il libro preferito da Robert Frost. Insomma, è un libro ‘sacro’, dove la visione estetica – gettarsi tra i boschi – coincide con quella etica – non pagare le tasse a un paese che si ritiene imperialista e ingiusto, ingiurioso. “Per Thoreau, penetrare nei boschi oltre che rispondere a un’inclinazione personale era anche un viaggio agli inferi, una discesa (ed è l’opera a testimoniarlo) nel territorio delle Madri per afferrare Euridice, trascinarla dall’‘eterno’ al presente”, scrive ancora Sanavio. Il libro fu un fallimento – HDT, l’utopista, tornò a occuparsi dell’azienda di matite del padre, la sua fama è sostanzialmente postuma, morì, da asceta, a 44 anni, tubercolosi –, cioè un prodigio, una perla che ha fondato il futuro. “Non è una persona facile. Di fronte a lui ci si vergogna di avere soldi, di possedere due cappotti, persino di avere scritto un libro che sarà letto da molti”, disse di lui Hawthorne. Tra l’altro, il libro insegna come costruirsi una capanna nel bosco. Non male. Sul “Washington Post” Ron Charles lo ha eletto il romanzo del nostro tempo. (d.b.)

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Nel 1845 un timido giovane di nome Henry David Thoreau andò “nei boschi perché desideravo vivere profondamente”. Usando vecchie assi trovate in una baracca poco distante, lui e alcuni amici costruirono una piccola capanna vicino a Walden Pond, a Concord, Massachusetts. Deciso a spezzare l’incantesimo del blocco dello scrittore, rimase lì più di due anni, per “succhiare tutto il midollo della vita”.
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Non fu sempre solo durante questo periodo, farebbe notare qualche cavilloso liceale. Ma l’esperimento di Thoreau, immortalato in Walden. Vita nei boschi, è diventato la più famosa rappresentazione di distanziamento sociale.

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Da quando gli Stati Uniti sono in quarantena per il coronavirus, decine di milioni di persone stanno sperimentando qualcosa di simile al ritiro di Thoreau, ma con una migliore connessione a internet. I giorni accumulati in settimane, e poi in mesi, renderanno sicuramente il peso della reclusione sempre più opprimente. Thoreau lo ha vissuto prima di noi. Ha imparato che può esserci appagamento nella solitudine, così come ci può essere solitudine nella compagnia.

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Certo, se lo pensiamo un puritano sulla ventina che occupa abusivamente la proprietà di Ralph Waldo Emerson, Thoreau pare l’ultimo tizio al mondo con cui vorreste passare la quarantena. Scrive: “Spesso gli uomini mi dicono: ‘Penso che ti senta solo laggiù, e che vorresti essere più vicino alla gente’”. “Perché mai dovrei sentirmi solo?” chiede. “Il nostro pianeta non è nella Via Lattea?”. Ok. Se lo dici tu. Ma considerato nel contesto della vita di Thoreau, Walden è un libro più potente e molto più empatico di quanto la sua raccolta di aforismi metafisici suggerirebbe.

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Nel 1842, appena qualche anno prima di recarsi nei boschi, l’adorato fratello di Thoreau, John, si tagliò con un rasoio. Non esistevano cure o vaccini contro l’infezione dal tetano, che si insediò rapidamente e lo uccise. John aveva 27 anni. Morì in agonia tra le braccia di Thoreau. A sole due settimane da questa tragedia, Emerson perse il figlio di cinque anni, Waldo, a causa della scarlattina. Avendo soggiornato in casa di Emerson, Thoreau aveva giocato con il bambino e gli aveva costruito giocattoli di legno. Le due perdite furono devastanti.

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Il diario di Thoreau, un vasto compendio di riflessioni quasi quotidiane che conta più di due milioni di parole, si interrompe bruscamente per tre settimane, in corrispondenza dell’indicibile periodo di lutto. Non appena riprende in mano il diario, scrive: “Sono come una piuma che fluttua nell’atmosfera; da ogni parte la profondità è imperscrutabile. Mi sembra che anni si siano ammassati nello scorso mese”.

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È comune considerare Walden una guida che ispira a una vita naturale o, cinicamente, ridurlo a una serie di dichiarazioni moraliste. Provate invece a leggerlo come un memoriale del lutto. Le sue attestazioni parlano con una tale potenza della eredita, non solo dei nostri cari, ma della vita per come la conosciamo. Walden custodisce le memorie di un uomo che lotta e implora di tornare alla luce del giorno nell’unico modo che conosce. La cabina presso il lago non fu un rifiuto arrogante della società, bensì una cella e un santuario, un luogo di tortura e sollievo.

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“Ho molta compagnia nella mia casa; specialmente la mattina, quando non ci sono visitatori”. Thoreau scrive nel capitolo intitolato Solitudine. “Non sono più solo del tuffolo del lago, che ride a voce così alta, o dello stesso Lago Walden. […] Non sono più solo di un barbasso o di un dente di leone nel pascolo, di una foglia di fagiolo, di un’acetosa, di una mosca cavallina, o di un calabrone. Non sono più solo del Mill Brook, il Ruscello del mulino, di una banderuola segnavento, della stella polare, del vento del sud, di una pioggia di aprile, del disgelo di gennaio o del primo ragno in una casa nuova”. Potete sentirci vanterie bucoliche. Io ci sento un tentativo di opporsi alla disperazione da parte di un uomo, che incide su carta frasi talmente belle da rigenerare la mente. In Walden non c’è scritto, ma Thoreau non passò tutto il tempo a osservare funghi velenosi e ad ascoltare il canto degli uccelli, durante i due anni che trascorse al lago. Scrisse anche il suo primo libro, Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack, che racconta di un viaggio in barca che fece con il fratello scomparso.

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La quarantena per il coronavirus mi riporta indietro di quasi trent’anni, a quando nacque la mia prima figlia con una paralisi cerebrale, dopo un parto terrificante. Rimanemmo per dieci interminabili giorni nel reparto di terapia intensiva neonatale, poi i dottori ci augurarono buona fortuna e ci mandarono a casa. Io e mia moglie avevamo una ventina d’anni, cercavamo di dare un senso a quello che ci era successo e temevamo per il futuro della nostra bambina. Vivevamo in una casetta in uno sperduto villaggio sul fiume Mississippi. Alternavamo scatti di ottimismo a terrore. Ero cresciuto in un periodo in cui parole come “divorzio” e “cancro” si sussurravano appena. Gli unici bambini con disabilità che avessi mai visto erano quelli nelle lacrimose pubblicità per le raccolte fondi di Jerry Lewis. Non conoscevo un linguaggio capace di esprimere quello che ci era capitato. Non sapendo come comportarci, io e mia moglie ci rintanammo in quella casetta e decidemmo di non vedere praticamente più nessuno, convinti che isolarsi sarebbe stato più facile di dover sopportare le false moine degli altri verso nostra figlia. La solitudine fu talmente forte che pensavo di morirne. Quando incontravamo altre persone eravamo tutti sorrisi e astratto ottimismo. Vivevamo nella Via Lattea.

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Anni dopo, in un attimo di assoluto candore, un amico ci ha confessato: “Avevo l’impressione che qualcosa non andasse, quindi non mi sono fatto sentire”. Non ce la siamo presa, abbiamo capito perfettamente cosa intendesse. La solitudine altrui a volte sembra talmente sacrosanta, orgogliosa e serrata. Chi oserebbe disturbare? Ora però, ogni volta che io e mia moglie esitiamo a intrometterci nell’isolamento di qualcuno che soffre, ci ricordiamo a vicenda di quella crudele incertezza. Reclusi da soli o ammucchiati insieme negli appartamenti, in molti devono affrontare una solitudine insopportabile, ma asintomatica, ansia e dolore. Rispondete al telefono. Trovate il tempo per una videochiamata. Thoreau una volta domandò: “Che tipo di spazio è quello che separa un uomo dai suoi simili e lo rende solitario?”. È solo lo spazio che tolleriamo. Intromettetevi. Deliberatamente.

Ron Charles

*Il testo, pubblico su “Washington Post”, è tradotto da Valentina Gambino (le citazioni tratte da “Walden. Vita nei boschi” sono riportate nella traduzione di Salvatore Proietti, per l’edizione di Feltrinelli)

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