Mentre mi arrabatto tra un libro e l’altro ‒ cercando di distrarmi il meno possibile fra mille letture; tentando piuttosto di portarne a termine almeno una ‒ torna alla memoria una parola esile quanto umiliante: «esilio». Che poi, se vogliamo, con l’umiliazione non ha niente da spartire.
Si guarda spesso all’esilio come a una condanna. Se concretamente, nella realtà, lo è; a ben vedere, risalterebbe, semmai, un errore di prospettiva.
Di solito si soffre quando capiamo di esser stati allontanati da qualcosa alla quale tenevamo grandemente. Se si esce dal seminato e si seminano idee originali quanto avulse dall’abituale contesto, il rischio che si corre è quello della censura, dello sgambetto, oppure di un allontanamento coatto. Quanti poeti (troppi!) nella Storia hanno dovuto abbandonare la propria patria, perché smarriti con l’inganno, traditi dalla ferocia del potere. Ciò accade tutt’ora, sebbene non ce ne si accorga. Ed accade ad ogni latitudine, tra un meridiano e l’altro del mondo, come in una banale città di periferia. Questa volta ‒ come si usa dire ‒ è proprio il caso di far di tutta l’erba un fascio, e di guardare al macro come al micro. Poiché ogni essere umano è degno di vivere appieno la propria vita. E se un’impossibilità dovesse irrompere improvvisa a scombinare i piani più sereni e pacati, non è giusto che il silenzio (nel tempo) cancelli le speranze riposte in ogni nostro avvenire.
Ma a ben guardare, è proprio quando i conti non tornano, che inizia la vera partita nel grande gioco del mondo. Questo succede persino ai poeti. A volte, accade. E se capita, esplodono crisi che avranno (un giorno) le debite conseguenze, e sproporzionate sproporzioni.
Dunque l’esilio non è un pianto, ma il tassello di un mosaico tutto da inventare. L’esilio (vero o presunto) nel quale ti ci hanno mandato, non è nient’altro che l’attraversamento dello specchio. Si entra, per intenderci, in una dimensione altra. E quando lo si intuisce, inizia la rivoluzione. Una volta seccata l’ultima lacrima, sarà tempo di sovvertire il vecchio mondo, stando nell’altro. Giacché si è immensi, quando si splende e cade. Se qualcuno ha creduto di allontanarti, contrariamente dovrà ricredersi. E se gli errori (veri o presunti) si pagano, arriverà il momento di scontare pure l’arroganza che ha spinto a questa ingiusta decisione.
Un poeta in esilio è un vulcano. Mai il suo silenzio farà così tanto rumore. Egli onora se stesso urlando al vento i versi di un nuovo poema. S’infittisce nei boschi dei libri, ululando alla luna; serpeggiando al sibilare di nuovi sogni nei temporali del sapere. Un poeta in esilio riscuote ogni notte la riscossa del riscatto. Si è ingaggiata una battaglia inferocita, e nessuno potrà più fermarlo. Attenzione, non si sta parlando di vendetta, ma del puro invincibile esprimersi di un ‘io’ che fu castrato (in precedenza) dall’inopportuna inappetenza di una comunità alla quale si era innocentemente affidato.
È dallo sguardo, che puoi capire con quanta umiltà ferita egli ora si appresta a scrivere parole di fuoco che incendieranno la vanità di ogni interesse di partito. È da quegli occhi forti, che bisognerà temere fulminei assalti. D’accordo, nessuno è intoccabile. Qui tuttavia si parla di essere, di esistere, di dire come la si pensa al mondo intero. Guardare dunque un poeta dal suo esilio, dev’essere qualcosa che sta all’opposto del marginale. Chi avrà la fortuna di poterlo fare, si troverà a un bivio. E deciderà di per se stesso se ascoltarlo o girare gli occhi da un’altra parte. La Storia d’altronde ce lo insegna: mandate un uomo in esilio, ed egli vi sovvertirà il mondo. Non crediate che serva chissà cosa. Non serve molto. Bastano dell’inchiostro e un taccuino. Occorre un cuore ferito, rapito dall’inganno. Occorre quindi un poeta ‒ parola dimenticata. Bisogna fidarsi dell’audacia di qualcuno, venuto prima di noi, che ha scritto: Honore, ô Prince, ton exil!
Giorgio Anelli
*In copertina: Caspar David Friedrich, Tramonto, 1810; 1835