17 Aprile 2019

5 anni fa ci lasciava Gabriel García Márquez, lo scrittore che amava donne (“L’unica cosa che si potrebbe tentare per salvare l’umanità del XXI secolo è che le donne assumano la guida del mondo”) e dittatori. Quasi quasi preferiamo Bolaño

Cinque anni fa ci lasciava Gabriel García Márquez. Premio Romulo Gallegos, la massima onorificenza della letteratura in lingua spagnola nel cono Sur, nel 1972. Premio Nobel nel 1982. Lo ricordiamo con le sue luci e le sue ombre.

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Disse al Time che già nel 1992 si preoccupava del nuovo Millennio: “L’unica cosa davvero nuova che si potrebbe tentare per salvare l’umanità del XXI secolo è che le donne assumano la guida del mondo. Non credo che un sesso sia superiore o inferiore all’altro. Credo che siano diversi, con distanze biologiche insuperabili, ma l’egemonia maschile ha sprecato la sua occasione in diecimila anni”. Punto: sta tutto registrato nelle sue confidenze diventate libro ingiallito, Mondadori anno di grazia 2003: A ruota libera. Stupisce questa apertura di García Márquez, o no? Ma i suoi romanzi non sono pervasi di erotismo in salsa forte, a tratti ripetitiva, sempre maschile? Certo. E allora? Questo non gli impediva di essere scrittore delicato: come conferma la confessione al Time.

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García Márquez ebbe il vizietto dell’immaturità che porta a macinare libri dove bisognerebbe farli sparire. Ci ha consegnato una carrellata di volumi, tre quattro tomi, i quali ripigliano tutti i suoi articoli di cronaca locale e mondiale dal buco della serratura, dalla sua Colombia. A onore e gloria. Leggendo il periodista giovane e allora ignoto degli anni Sessanta apprendiamo cose carine, come ad esempio le tecniche usate dai veneziani del popolo per vendere i cappelli da gondoliere ai Nordamericani. Dopo mezzo secolo, il pueblo veneziano è sempre lì, non sostituibile né da cinesi né da altri. Segno di una arretratezza italiana, sintomo del fatto osservato dal giornalista e reso in certo modo ‘eterno’. Oppure. Per venire agli anni Ottanta. Il pezzo in memoria di Cortázar è notevole perché letto oggi pare voglia dire una cosa soltanto: Cortázar era bellissimo.

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Sui romanzi di García Márquez non serve dire. Già si diffonderanno al riguardo gli esegeti del Bello, gli edulcoratori professionisti degli inserti domenicali. Basterà richiamare in controluce la vera ombra di García Márquez. Non mi riferisco all’appoggio indefesso al regime bananiero di Cuba che oggi produce quel che produce: uno svuotamento della sua gioventù in Europa, non più negli USA, e che protrae la schiavitù di un popolo magnifico, naturale, ma cresciuto – nei fatti – in una gabbia dorata. La gioventù cubana che ci circonda ha le onde negli occhi ma è illusa sulle bontà del nostro Occidente, molto più illusa di quanto fosse l’ex sovietico che varcava a cortina negli anni Novanta: fine del pippone.

Il cruccio che si dipinge sul mio sorriso ogni volta che rido di gioia se leggo García Márquez non è Cuba, non è questa cecità. Perché qui dimostrò coerenza: non ripudiò le sue vedute, sostenne come un gesuita ‘fino a effusione di sangue’ – fino a che Vargas Llosa gli ruppe lo zigomo con un cazzotto, fuori dal cinema. Anche se i nostri politici delle Lettere italiani vi diranno che dietro alla prodezza di Vargas Llosa c’era una questione di cuori, non ci credete! Il diverbio tra i due era sempre e solo: difendere Cuba oppure no.

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Gabriel García Márquez insieme a Fidel Castro

E perciò qual è la noia che ci reca Marquez? Semplice. Secondo voi oggi dove sta il più bel casino-casotto del Sudamerica? Di dove sono le donne che si rendono schiave a prezzi stracciati in Brasile, pur di portare dei soldi alle famiglie quando le vedranno? Non l’avete indovinato? Ve lo dico, il Venezuela. Lo stesso Paese che nutrì il boom letterario del cono Sur, premiando alla prima edizione del Romulo Gallegos Vargas Llosa (1967, il libro era La casa verde) e poi García Márquez al secondo round (1972, coi Cent’anni di solitudine). Immaginate questa sfilza di premiati che hanno fatto epoca: Fuentes nel ’77 con Terra nostra. Javier Marias nel ’95 per Domani nella battaglia pensa a me – d’accordo, Marias è mainstream ma il titolo è bellissimo – e poi nel ’99 Bolaño con Detective selvaggi. A guardare da lontano tutta la serie di vincitori al Romulo, alcuni romanzi non tengono ma i titoli iniettano calore e audacia: Palinuro del MessicoCani del ParadisoBianco notturnoTrittico dell’infamia (per venire all’ultimo premiato nel 2015, perché dal 2017 il Romulo Gallegos è sospeso fino a data imprecisata: ringraziamo Maduro, il suo predecessore ‘imperiale’ Chavez e García Márquez che ci spiega che no, va-là-mica-è-un-tiranno-è-solo-un-guardiano-del-formaggio.

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Il testo sepolto e criminoso di García Márquez è qui. Lo scrittore racconta tutto disinvolto di un’intervista a Chavez appena scampato all’attentato e non ancora diventato ‘presidente’. Cecità a oltranza. Come firmare carta bianca a un malavitoso. Senza penarsi, come dicono i francesi, di capire se poi quegli attentatori non presentassero altre istanze, oltre all’odio armato. Ma va bene, volemosebbene, nei salotti dell’Esquilino che credono ancora alla ghiandola pineale di Cartesio per spiegare le emozioni segrete, García Márquez fa sempre effetto ‘amico mio’. Del resto, uno come lui scriveva tranquillo, nel resoconto dell’intervista a Chavez, che quella “fu una buona esperienza da reporter a riposo, mano a mano che mi raccontava la sua vita, scoprivo una personalità che non corrispondeva affatto all’immagine di tiranno che ci eravamo formati attraverso i media. Era un altro Chavez. Quale dei due era quello reale?”.

Già. Perché complicarsi la vita? E complichiamola, una volta tanto, rimandando gli aficionados di Pangea a leggere due coi controca**i passati vivi attraverso il Nazismo, due giganti come Strauss e Kojeve: due colossi a dibattito nel libro Adelphi Sulla tirannide. Del resto, o accettiamo la lingua comune che il tiranno europeo è lo stesso del tiranno ovunque, anche al Cono Sur. Oppure facciamo solo letteratura. A voi la scelta.

Francamente per capire la durezza delle dittature simil-naziste laggiù basterebbe un passo da questo poema di Roberto Bolaño tuttora non tradotto in italiano. Peccato: è la trama stringata in versi rapidi del romanzo con cui vinse il Romulo Gallegos. A voi un assaggio: “E dopo aver lavorato / Uscivamo a passeggiare / Per le strade del Perù: / Tra le ronde militari,  / Venditori disoccupati, / Squadrando / Le colline / Coi fuochi di / Sendero Luminoso, / Ma non vedemmo nulla. / L’oscurità che circondava / I centri urbani /Era totale. / Questo era come una scia di vapore / Che uscisse dritta / Dalla Seconda guerra mondiale / Diceva Pancho riverso / Sul retro del furgoncino. / Diceva: filamenti / Di generali nazisti come / Reichenau o Model / In fuga in ispirito / Involontariamente /Verso le terre vergini / Dell’America latina: / Un hinterland di spettri / E fantasmi. / La nostra casa / Collocata dentro la geometria / Di crimini impossibili. / E di notte uscivamo / Per cabaret: / Le prostitute dolci sedicenni / Discendenti di quegli uomini coraggiosi / Della guerra del Pacifico / Amavano ascoltarci parlare / Come mitragliatrici”.

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Ma qui le strade si biforcano e si insabbiano. Bolaño è del 1953 e i colonnelli cileni che ha visto gli hanno cancellato fin da giovane le nebbioline dell’utopia rossa. García Márquez si è speso, si è battuto come un leone. Credo che la sua produzione torrenziale e giornalistica avesse questo valore di ribadimento fideistico. Ma quanto ci addolora che un’altra letteratura oggi non sia premiata in Venezuela? E Non trovi voce. Basta capire questa nota di Bolaño quando nessuno se lo filava per intendere che vale più il chiodo nella scarpa del vivo, la sabbia che pesta, dei tomi kitsch fatti di pezzi geneticamente falliti perché ideologo-giornalistici. Eccola (è riportata sia nell’edizione spagnola che in quella inglese del quaderno poetico): “LA MIA CARRIERA LETTERARIA. Rifuti da Anagrama, Grijalbo, Planeta, sicuramente anche da Alfaguara. Mondadori. Un no da Muchnik, Seix Barral, Destino… tutti gli editori… tutti i lettori… tutti gli agenti di vendita… sotto il ponte, mentre piove, un’opportunità dorata di guardarmi in faccia: come un serpente al Polo Nord, ma scrivendo. Scrivendo poesie nella terra degli idioti. Scrivendo con mio figlio sulle ginocchia. Scrivendo finché non cala la notte col tuono di mille demoni. I demoni mi porteranno all’inferno, scrivendo. (Ottobre 1990)”.

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Non che Bolaño fosse un divo. Aveva un modo di farsi raggirare da donne e amanti che García Márquez ne avrebbe riso alla morte – Gabo che dichiarava agli schizzinosi di Paris Review di odiare far l’amore coi calzini ancora addosso.

Andrea Bianchi

Gruppo MAGOG