Come si sa, il romanzo moderno nasce da un naufragio. L’autore di Robinson Crusoe è lo stesso che in Mere Nature Delineated, nel 1726, racconta la storia di “Peter the Wild Boy”, un ragazzo ‘selvaggio’ ritrovato nei boschi intorno ad Hamelin, in Germania. Questa specie di Kaspar Hauser che metteva in crisi i riti dell’educazione illuminista e i miti del buon selvaggio, fece fortuna presso la corte di Giorgio I – finché i reali non si annoiarono del mostro, ricacciandolo presso qualche educatore di vaglia. Se Robinson Crusoe naufraga in un’isola venezuelana, “Peter the Wild Boy” – il prototipo di Peter Pan – naufraga nel mondo degli uomini civilizzati: per entrambi si tratta pur sempre di sopravvivere.
A ritroso, possiamo dire che il primo “romanzo europeo” – così lo definiva T.E. Lawrence – nasce intorno a un naufragio. È ai Feaci che Odisseo, dopo essere fortunosamente approdato nella loro fausta terra, racconta le sue imprese, ai limiti del meraviglioso (ah, l’arte incantatoria del narratore…); da lì comincia il suo ritorno ad Itaca.
Se il gioco ci piace, dovremmo dire che anche la letteratura americana nasce dal naufragio del suo più importante esponente, Herman Melville, che capisce di essere scrittore – e non baleniere – in un atollo polinesiano. Certo, in quel caso più che di naufragio dovremmo parlare di diserzione: i primi tre romanzi di Melville, Typee, Omoo, Mardi, sono ambientati “nei mari del sud”; il più importante, Moby Dick – che termina con un naufragio –, gli procurerà un autentico naufragio dalle patrie lettere. D’altronde, il più enigmatico tra i testi di Shakespeare, La tempesta, ha per sfondo un’isola e per pretesto un naufragio. Se poi allargassimo lo spettro dando al naufragio una tenuta esistenziale, per così dire, dovremmo riempire una biblioteca: il naufragio ha affinità con il mito della caduta, ha proprietà di monito. Alcuni scrittori naufragano nel proprio io; si ritiene che debbano naufragare nel linguaggio. William Goldin intorno a un naufragio ha ideato il romanzo che disintegra le residue utopie sul bene sociale, sulla società materna, sulla bontà innata nell’uomo: Il Signore delle Mosche. Oggi, alieni dal mito come dal decoro, il naufragio è diventato show: zaffate di star spediti nell’isola ‘deserta’, seminudi, a far finta di vivere.
Il tutto per dire che Daniel Albizzati – statura svedese, domicilio romano – scrivendo Il naufragio (Fazi, 2022) s’installa in una sequela, in una costellazione di stelle prime. Lo fa consapevolmente. Il suo eroe è un ragazzo diseducato, che naufraga su un’isola piena di putredine e spazzatura, con un container che rigurgita libri, solo rifornimento mentale.
“Imprigionato su quest’isola come Edmond Dantès, esiliato come il Prospero di Shakespeare, come Napoleone, come Filottete, un Diogene di Sinope che ha sostituito la botte con un container, e questo sole mi ha stancato… Sono passati così tanti giorni, infiniti mesi… Che resisto a fare? Perché non mi arrendo e basta? Perché non mi rassegno una volta per tutte al destino del più disperato dei naufraghi?”.
La struttura del libro è suggestiva. Il lettore legge il diario del naufrago, dal “Giorno 1” al “Giorno 1248”, scoperto casualmente da “un’équipe di ricercatori a bordo della nave internazionale Sea Hurricane di Greenpeace”. L’ultima parte – si parte da “Carne” per arrivare ad “Anima”, in una sorta di scansione gnostica dei capitoli o “stagioni” – è quella più suggestiva ed esoterica: sono le estreme agnizioni del naufrago (“finalmente vedo dietro le quinte della realtà adesso è tutto chiaro e una simile nitidezza è possibile grazie a una consapevolezza sensoriale allargata”), una specie di flusso di coscienza dove i giorni sono ormai annientati, ammutinati, ammutoliti:
“sono un corpo celeste sono una stella, la temperatura continua a crescere brucio e mi espando”.
Alcune note, poste da chi, nel gioco fittizio ordito dal libro, edita i quaderni del naufrago, orientano la lettura. Del protagonista, Vadim, ovviamente, nulla è dato sapere – “a oggi, il corpo del naufrago non è mai stato ritrovato” – perché in lui sia rispecchiato anche il lettore, inconsapevole naufrago.
Al netto del candore morale – l’evoluzione interiore, la meditazione, la lettura come crescita spirituale o chissà –, che non fa letteratura, il libro non è privo di un balsamico dolore – “Mi sono provocato varie ferite per non sentire le grida della mia coscienza, mortificandomi la carne come un Ignazio di Loyola: frustate sulla schiena, bastonate sulla testa, tagli profondi con frammenti di vetro, il fuoco che mi ha sciolto la pelle delle mani. Non volevo sentire l’eco dei miei sbagli, e così ogni ferita, ustione, morso che mi sono inflitto, paragonato al resto, non era che un sollievo per me” – e la buona novella è non di rado arginata (per fortuna) dalla buona scrittura. Soprattutto, Daniel Albizzati sa costruire scenari, ha la mente romanzesca di chi ragiona per temi e non per toni o per tomi – è il poeta a farsi affascinare dal suono della frase, dalla musicalità dei dettagli: per questo, di solito, i poeti riescono cattivi scrittori in prosa, affaticati da troppe leziosità –, soprattutto, rifugge dalle mode. Ha l’estro del visionario, Albizzati, perciò ha scelto la via difficile: studia, legge, scrive ogni singolo giorno, con la costanza del liutaio, come fanno quelli che prendono il sogno, destriero col muso da drago, capriccioso, per i capelli, senza timore di avvelenarsi, di farsi male. Crede nella letteratura, Albizzati – per questo, è destinato a naufragare nell’attuale contesto editoriale. Non vincerà lo Strega, per inseguire il suo capolavoro – ed è questo, a noi meri lettori, a entusiasmarci: a volte c’è più gioia nel gesto, nell’intenzione, nella voracità che nella scrittura.