“Per le stanze luminose”. Herman Bang, lo scrittore dell’attimo e del dettaglio
Letterature
Silvano Calzini
Due novembri e un centinaio di pagine fa, cominciai a leggere Tolstoj con una donna che volevo sposare. Abbiamo scelto Guerra e pace, che ora pare una metafora e una profezia, nella traduzione di una coppia di sposi, Richard Peaver e Larissa Volokhonskij, sommando al danno la beffa. Siamo stati ispirati dalla produzione di Broadway, Natasha, Pierre & The Great Comet of 1812, scritta da Dave Malloy, l’adattamento del quinto libro del secondo tomo di quel romanzo. L’avevamo visto – abbiamo pianto. Anche questo, ora, pare profetico, in qualche modo biblico.
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Abbiamo chiuso alla seconda lite – ho promesso a me stesso che avrei finito il libro da solo. Ci ho tentato. Mi sentivo come Pierre, lo sconsolato conte Pierre Bezuchov, isolato nelle sue stanze con nient’altro che i libri come compagnia. “Qui, a casa, solo, bevo e leggo, leggo e bevo e bevo e leggo, e mi riempio la mente di marciume, mentre il mio cuore è vuoto”, canta Pierre nel secondo atto di The Great Comet. Ora, due anni dopo, alzo bandiera bianca, ammetto la sconfitta per mano dei nemici: memoria, tempo, Guerra e pace.
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Tutto sommato, ho superato il primo tomo di quattro, quindi i miei pensieri sul romanzo dovrebbero essere presi per quel che valgono. Come questo. Non avrebbe dovuto intitolarsi semplicemente “Guerra” il romanzo di Tolstoj, oppure “Guerra e guerra”, seguendo lo scrittore ungherese László Krasznahorkai? Il libro si sviluppa intorno a due ambientazioni fondamentali: il fronte dell’invasione francese in Russia e Mosca, ancora intatta. La pace, tuttavia, non è affatto pacifica, fitta com’è di tensioni, amori tragici, tradimenti, cuori spezzati. Anche l’amore, pare dirci Tolstoj, è un campo di battaglia che logora i guerrieri che vi sono coinvolti. Alla fine, come in una canzone di Leonard Cohen, comandante stanco di sfiancanti battaglie d’amore, ci viene da dire: “Vorrei che potessimo firmare un trattato. Non m’importa di prendere quella maledetta collina. Sono stanco, sono sempre in guerra. Vorrei che potessimo firmare un trattato tra il tuo amore e il mio”.
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Un paio di mesi e un paio di multe in biblioteca dopo l’inizio del nostro progetto di lettura, la donna che pensavo di sposare ha comprato due copie tascabili, uguali, di Guerra e pace come regalo per il mio compleanno. Sotto il titolo, sopra gli auguri di compleanno, una frase che ora sa di epitaffio, una battuta di Natasha, “Tu, io, nessun altro”. Conteneva una promessa la cui ironia – la contessa Natasha Rostava non sposerà il suo amato, Andrej Bolkonskij – non mi sfugge.
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La poesia, luogo di rifugio dall’assalto emotivo, grotta isolata in cui edificare la mia solitudine, fu altrettanto devastante. Dovrei leggere Guerra e pace, mi dissi, mentre scorrevo irrequieto tra i miei scaffali. Una sera, ho preso una delle raccolte che preferisco, The Wild Iris di Louise Glück. Mi sono bloccato su una poesia, Vespers: Parusia. Era come se la Glück mi pigliasse a calci sui denti:
Cerco di riconquistarti,
questo è il punto
della scrittura.
Ma te ne sei andato per sempre,
come nei romanzi russi, dicendo
poche parole che non ricordo –
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Provai a riconquistarla. Questo è il senso della scrittura, almeno al principio. Leggendo Tolstoj stavo adempiendo una promessa che lei non voleva mantenere. Il nostro amore se n’era andato per sempre, come nei romanzi russi. Pensai che avrebbe ucciso la mia scrittura – uccise, piuttosto, quella lettura.
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Ho visto la donna che pensavo di sposare lo scorso autunno, a Broadway, davano Oklahoma! New York è grande ma in fondo è una piccola città, proprio come Mosca, e più la abiti più diventa piccola. La incontrai, pareva la scena drammatica degna di un romanzo russo, per lo meno di un racconto di Cechov. Era seduta in diagonale rispetto a me, era con il nuovo corteggiatore, era impossibile non vederla, nel furore del nuovo amore. Vedevo Oklahoma! e pensavo a Tolstoj. Quanto sarebbe stato facile sfidare a duello il nuovo corteggiatore, come aveva fatto Pierre con Fëdor Dolochov.
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Quando sono tornato a casa dallo spettacolo, ho cercato la mia copia di Guerra e pace dallo scaffale, per la prima volta da più di un anno. La costa è intatta, i fogli sono rovinati dall’acqua. L’avevo preso per leggerlo in metropolitana mentre cavalcavo verso il primo appuntamento che ho osato tentare dopo mesi passati solo a casa, a bere, leggere e bere. Pioveva a dirotto. Credevo che lo zaino lo avrebbe protetto. Nel libro c’era ancora la poesia della Glück, che ho stampato e usavo come segnalibro. La poesia faceva ancora l’effetto di un calcio in faccia. Ho letto l’altra strofa:
Eri un niente,
sei mutato, in fretta,
in un’immagine, in un odore –
sei ovunque, fonte
di saggezza e di angoscia.
Ho piegato la poesia, l’ho rimessa nel libro e ho messo il libro in fondo allo scaffale, in alto, dietro un’altra fila di libri, nascosto. Non riesco ancora a mollarlo, per questo lo nascondo. Un giorno forse riuscirò a liberarmene. A liberarmi di tutto. Nel frattempo, penso che passero all’Idiota.
John H. Maher
*Il testo è stato pubblicato in origine qui; in copertina: Audrey Hepburn è Natasha nel “Guerra e pace” di King Vidor, 1956