23 Luglio 2024

“Non ho conosciuto nessun poeta più poeta di lui”. Per Franco Costabile

Nei vicoli di Sambiase, una delle tre circoscrizioni che compongono Lamezia Terme, si gioca a pallone. Quattro bambini si sfidano, uno si chiama Zaccaria, come il profeta biblico, il visionario – “Ebbi una visione, era notte: uomo su rosso destriero, tra i mirti in una valle d’abisso; dietro a lui, altri rossi destrieri e bianchi sauri” – che parla al popolo in esilio, “disperso ai quattro venti del cielo”. Mi unisco al gioco, rubo la palla, come un assatanato, i bambini si appendono alle mie enciclopediche gambe. Qualche adulto nelle case, piccole tane di pietra, guarda, sorride. Zaccaria, svelaci cosa sarà di noi…

Di fronte ai bambini: la casa di Franco Costabile, il poeta nato qui cento anni fa, nel tardo agosto del 1924. Una signora ci spalanca la corte che ha ispirato a Costabile una delle poesie più note, Mio cortile:

“…Tutto ho perduto, e ormai giace la sera.
Né la sera qualcosa può mai dire
più di quanto io e te ci siamo detti.
Se ci fosse una stella o un marciapiede
più di quelli che Dio ha stabiliti
non ha nulla da dire la mia sera,
la mia sera sepolta alle tue pietre.
E certamente una ragione esiste
se c’è un raggio di luna e il fiume scorre,
se la radio ora suona ed uno è solo,
ma la sera del mondo non sa dire,
perché il mondo è più triste dei tuoi spazi
e se nell’alba sbianca, ho già paura”.

La poesia è stata pubblicata nel novembre del 1951 su “La Fiera Letteraria”: Costabile aveva 27 anni, si era trasferito a Roma da tempo, inserendosi con naturalezza nel clima culturale dell’epoca. Eppure, chi ricorda, oggi, Franco Costabile, chi ne ha raccolto il lilgnaggio?

*

Qualche ora prima, Elisa Longo ha accompagnato un drappello di amici al cimitero di Sambiase. Insieme al cortile, specie di contrapposto specchio, è il cimitero il luogo cardine della vita dolente e lirica di Costabile. La cappella intitolata al “Cavaliere Gambardella” conserva sbiadita memoria del poeta: qualche fotografia, l’austero canto dell’incuria. All’esterno, una lapide, con la frase istoriata da Giuseppe Ungaretti:

“Con questo cuore troppo cantastorie… dicevi ponendo una rosa nel bicchiere, e la rosa s’è spenta a poco a poco come il tuo cuore. Si è spenta per cantare una storia tragica per sempre”.

Ungaretti era stato l’insegnante di letteratura di Costabile, a Roma; i due si erano saldati in una amicizia onnipossente, filiale. Elisa ha comprato due rose, le mette nel bicchiere ai piedi della lapide. È un gesto che, per candore, sconfina nella ferocia, come inchiodarsi al muro. La rosa nel bicchiere è il titolo della più nota raccolta del poeta, edita da Nanni Canesi, a Roma, nel 1961. La poesia omonima è, in sostanza, un inno alla Calabria:

“Un arancio
il tuo cuore,
succo d’aurora.
Calabria,
rosa nel bicchiere”.  

Il libro fu segnalato al “Viareggio”, al “Cittadella” e al “Crotone”, premio di primaria importanza, che pochi anni prima, nel ’59, era andato a Pier Paolo Pasolini, per Una vita violenta. In un articolo pubblicato in un numero speciale de “La Provincia di Catanzaro” (Anno III, numeri 5-6, 1985), Antonio Iacopetta scrive del dialogo mancato tra Costabile e Pasolini:

“Costabile non ha scritto in dialetto. Probabilmente a Pasolini questo era sembrato un tradimento, un atteggiamento piccolo-borghese. Ora, Pasolini in tante cose diventava ottuso e fanatico. Poteva anche essere tenero e dolce, si sa… Vorrei però che ci si convincesse che la lingua usata da Costabile nelle poesie di La rosa nel bicchiere non è la solita lingua italiana. Apparentemente lo è. Invece, è tutta terremotata dentro… Anche lui è un eversore rispetto alla norma linguistica”.

Fu in contatto, invece, con Elio Vittorini e con Vittorio Sereni; fu amico di Giorgio Caproni. Il testo di Caproni ricalcato in calce all’articolo è di immedicabile bellezza. Caproni salda la grandezza del poeta alla sua bontà, alla sua illimitata generosità. All’incanto dei fragili e degli schiacciati. Il poeta potrà anche essere un uomo vile, agli occhi dei distratti, ma preparerà sempre, per gli altri, per i lettori, per gli amici, per tutti, perfino per i detrattori, uno spazio di bontà. Questo rapporto tra il bene e la poesia commuove; un bene che non ha a che fare con il ‘bene comune’ né con il ‘benessere’: è il bene che sguaina la spada, che mozza la testa al drago.

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I vicoli di Sambiase sono costellati da mattonelle con le poesie di Costabile. Non conoscevo Costabile prima che me ne parlasse Elisa – il rischio è quello di costringere il poeta a una dimensione ‘locale’, da loculo. Che paradosso: Costabile è il poeta della terra e del popolo per antonomasia, eppure, ha scritto da Roma, la capitale-polipo, viscosa e brutale, ha scritto, cioè, con gli occhi arsi dalla malinconia e dal malessere – ha scritto da un suo esilio, solo. Si scrive sempre per gente immaginaria.

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Sorprende, di Costabile, la potatura di ogni legame. Il padre che se ne va in Tunisia quando lui è bambino; la moglie che si allontana dal poeta, dopo aver trovato lavoro a Brera, Milano, che porta con sé le figlie. L’amata madre che muore in quello stesso anno, il 1964, dopo lunga malattia. Sembra un poeta senza futuro e senza passato, Costabile, fuori tempo, in vuoto d’amore, con le labbra di cuoio, senza petali: i più prossimi parenti si disinteressano della sua opera. Può esistere un contrappasso più duro? I rari successi – Sette piaghe d’Italia, il testo collettivo edito da Nuova Accademia che accoglie suoi testi assieme a quelli di Leonardo Sciascia, Andrea Zanzotto, Dante Troisi, Domenico Rea – lo colgono distratto, in un altrove del dolore.

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Finché alcuni uomini si raccolgono attorno alla tomba di un poeta negletto, dimenticato, il mondo è salvo, l’uomo è giustificato.

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Giovanni Mazzei ci porta nei luoghi di Costabile: la sua enfasi fa sconfinare la venerazione nella giusta battaglia, in una rabbia bianca. Di Costabile, Giovanni sa tutto: ogni frammento perduto, ogni pietra. Dopo anni di lotte, un compimento: Rubbettino, l’editore di Soveria Mannelli, ha pubblicato come La rosa nel bicchiere, “tutte le poesie” di Costabile. Giovanni ha curato la sezione delle Poesie disperse e la nota biografica; ad Aldo Nove l’onere del testo introduttivo. Il riverbero di qualche refuso, emendabile – Canto degli ultimi emigranti invece de Il canto dei nuovi emigranti – non ulcera l’opera, necessaria. In una lassa, Aldo Nove centra il ‘caso’ Costabile, la ragione del disinteresse, decennale, della critica ‘d’ufficio’ nei riguardi del suo lavoro lirico:

“L’ansia classificatrice dell’entomologo della poesia trova in Franco Costabile un oggetto di difficile classificazione e questo va tutto a suo vantaggio. Costabile non si è mai ‘costruito’ in un’immagine di poeta. Non ha inseguito nessuna corrente o moda che non fosse la sua urgenza del dire. E già questo ci spinge ad amarlo”.

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Dopo aver letto Il canto dei nuovi emigranti, stretto tra litania e inno di guerra (“Noi/ ce ne siamo/ già andati…/Dai figli/ appena nati/ inchiodati nella madia/ calati/ dalle frane/ dell’Aspro Monte/ dei nostri pensieri”), Mario Giacomelli si fa convincere ad andare in Calabria. Fotografa Cutro, Badolato, Pentedattilo… regala centinaia di scatti alla Provincia, che, per famelico fato, vanno smarrite. Il lavoro ha una testimonianza bibliografica: Il canto dei nuovi emigranti di Franco Costabile e Mario Giacomelli, stampato nel 1989 da Jaca Book. Fortunosamente ritrovate, un mannello di fotografie, straordinarie, sono ora in una mostra permanente, Camera oscura, presso il Mabos, Museo d’Arte del Bosco della Sila. Il bianco-e-nero di Giacomelli è allucinato: i volti abbaiano, le vesti ti arrivano al collo come una scure. Camera oscura è una casa nel bosco: l’arcaico si mescola all’arcano, qui, memoria di quando gli uomini erano betulle, imbestiata bellezza.

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Il passaggio di una intervista a Mario Giacomelli fa intendere, con micidiale esattezza, il rapporto tra vita e morte, tra pieno e vuoto, tra baratro e ricchezza che abita la Calabria:

“Poi ho voluto passare per il cimitero. Qui ho trovato ogni loculo argento lucido, pulito. Poi i fiori, ho pensato “saranno di plastica” e invece mi sono avvicinato, li ho toccati, ed erano freschi. E ho pensato: c’abbiamo messo mezza giornata per arrivare qui e non abbiamo incontrato una persona, sembrava tutto fermo, tutto morto, e invece c’è vita. E allora sentivo che c’era qualcosa di strano. Queste montagne con questi buchi enormi… io cominciavo a vedere nei buchi le persone, nell’immaginazione, perché: dove erano queste persone? E allora è nato dentro di me qualcosa come di misterioso, come magico, come tragico, come qualcosa che non sapevo decifrare. Attraverso le foto vedi queste case che stanno già perdendo qualcosa, ti accorgi che la muratura e le case stesse stanno quasi per divenire pietra, cioè divenire montagna, sopraffatte. Il paese si sta sgretolando. Anche questa luce che ho messo in questa immagine, dà l’idea del sole che sta corrodendo i buchi delle case, e invece c’è la luna nella notte, e hanno il sapore della morte”.

Fotografia, teurgia: fotografia come gesto di chi porta la luce, di chi afferra il tuono. Le fotografie di Giacomelli sono epigrafiche.

L’intervista la ha realizzata, anni fa, Ettore Castagna. Musicista, antropologo – tra i suoi dischi: Eremìa – ha, tra l’altro, tradotto alcune canzoni di Leonard Cohen in calabrese. Di sera, nella Sila, Castagna improvvisa un concerto: canzoni che smuovono antichi spettri, canzoni con i sonagli e le baccanti al seguito, bellissime – ne segno una: Dimenticanza.

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Franco Costabile sceglie di morire in aprile, il mese più crudele, a Roma, nel 1965. Si era sposato con ‘Mariuccia’, Maria Armao, nel 1953; avevano due figlie, già l’ho detto, forse. Si uccide con il gas. Ne grida, su “L’Europa letteraria” da lui diretta, Giancarlo Vigorelli: “Franco Costabile, il 14 aprile, si è suicidato. È spaventoso dirlo, più spaventoso tacerlo, perché il suo, purtroppo, fu in tutto e perdutamente un suicidio di protesta”. Cosa si intenda di protesta, i posteri lo diranno. “L’ammanco era nel suo cuore”, si potrebbe dire, come scrisse Vittorio Sereni in Intervista a un suicida. Allo stigma che accompagna il poeta – figura inerme, inutile ai fini ‘sociali’ – si legò quello dell’esilio dalla terra avita, lo scandalo del suicidio, del padre che lascia prive di paterna protezione le figlie.

Storie di padri potati, di parole putative lasciate sole.

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In un articolo del 1984, “Tutta la verità su Franco Costabile”, Antonio Iacopetta avvicina la dolente vita del poeta calabrese a quella di altri conterranei: Lorenzo Calogero su tutti, poi Michele Rio e Domenico Zappone. “Tutti e quattro sono poeti e, pure, calabresi. Sta di fatto che non si conobbero di persona e, comunque, ognuno di loro, seguì un proprio itinerario poetico”. Sequela del dolore, muto grido del suicida, che rischia di insidiare la poesia di quei luoghi nel dominio della prefica e del vestito a lutto.

In particolare, però, è d’interesse il legame tra Costabile e Calogero: sembrano appartenere a mondi del linguaggio contrapposti, di equivalente, solidale solitudine. Calogero turba il linguaggio, ne fa emergere la lebbra e il sole, con compulsivo genio; Costabile è assertivo, ha una lucidità regale, apodittica. Calogero costruisce nebulose in perpetuo moto; Costabile opera per immagini prime, statiche. Entrambi, subiscono la rimozione, li si dice a denti stretti, come una chiacchiera, un malocchio.

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Nei pressi della casa di Costabile, un vicolo oltre, dicono abitasse l’ultima magara. Praticava l’arte che slega e quella che coagula: convalidava fatti con la fattura, sanava i febbricitanti, dava ristoro al dio del desiderio, rabboniva il dio della vendetta. Avere lumi sullo spettro di Costabile, questo gli andava chiesto: se ora è lupo o fiore, foglia o effimera; se va libero e ringhia sotto i portoni, se giace imprigionato in un amuleto; se ha pace.

***

Affrontava la vita totalmente

Franco Costabile, nei limiti e forse oltre i limiti dell’umano, era un angelo.

Non ho conosciuto nessun poeta, in questo senso, più poeta di lui.

Dopo anni e anni di fraterna amicizia, continuava a chiamarmi – guardandomi con un sorriso estatico e donandomi tutto se stesso in quel sorriso – “Signor Giorgio”.

Questa sua “venerazione”, che mi faceva arrossire di vergogna poiché mi faceva sentire intera la mia pochezza, non ci fu mai verso di strappargliela dal cuore. Ma non era certo in lui un atavico segno di servilismo verso il barone. Era il segno della tua totale dedizione agli altri, e soprattutto della sua anima indifesa.

Tutto il suo sdegno, che era tanto, e diciamo pure tutta la sua forza d’urto contro i soprusi patiti per millenni dalla sua gente, li esauriva sino in fondo nei propri versi, secchi e taglienti a volte come coltelli.

Per sé, a scudo della propria persona, non gliene restava traccia.

Affrontava la vita totalmente, con piena confidenza e inerme.

Era un crociato senza armatura, o armato soltanto del suo amore per il prossimo; ed era fatale che la vita e il prossimo lo schiacciassero.

Gli mancava, per poter resistere al malanimo e al disamore, quella che in gergo sportivo si chiama la grinta.

Della sua morte siamo colpevoli tutti.

Anch’io.

Né vale recitare il mea culpa.

Prima di venirmi a trovare, discreto com’era, mi chiedeva ogni volta “il permesso” con una telefonata. Quel tragico aprile (tanto per usare una frase da cronaca nera) e proprio alla vigilia della sua scomparsa, fui io a telefonargli.  

Ero impressionato dal suo silenzio, insolitamente lungo.

“Vieni domani”, gli dissi.

E per la prima volta sentii nella sua voce un’esitazione.

“Domani… Be’, farò di tutto, forse sì, verrò”.

Aveva invece un altro appuntamento, che all’ultimo istante non volle disdire.

Con la morte.

E l’indomani, invece di lui, mi arrivò “la notizia”…

È una poesia agra e dolcissima a un tempo, la sua, e che proprio per esser così legata alla storia e alla geografia della terra d’origine, riuscirà sempre a dire una parola valida per tutti.

Una poesia che oggi piacerebbe soprattutto, ne sono certo, ai giovani, se avessero modo di conoscerla. Il perché di questa validità e vitalità la spiegheranno i critici. Io non sono un critico.

E quanto al triste anniversario, ho anch’io una proposta da fare: si ascolti per prima la voce di Franco:

Stamattina, amici,
vorrei che sventolasse la bandiera:
nessun anniversario: è primavera.

Si può essere più Franco Costabile di così? Più tesi alla gioia degli altri, dimenticando la propria, di così?

Giorgio Caproni

(1977)

*In copertina: una fotografia di Mario Giacomelli tratta dal ciclo “Il canto dei nuovi emigranti”

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