Nel 1965, per l’editore Lerici, Ferdinando Camon pubblica Il mestiere di poeta. Il libro, dedicato “Alla memoria di Corrado Govoni”, morto quell’anno, in ottobre, raccoglie una serie di incontri-interviste con i massimi poeti del tempo, da Montale a Zanzotto, da Ungaretti a Quasimodo, Pasolini, Caproni, Luzi. Il libro, in verità, è presentato come una raccolta di “autoritratti critici”; o meglio, come esplicitato in quarta, una “serie di conversazioni critiche sui rapporti tra poesia e conoscenza, poesia e storia, in cui vengono rivissute le tappe del procedere morale e civile della società… captato fin nei suoi minimi scatti dalla sofferente ‘attenzione’ del poeta”. Tutte parole, vien da dire, derise dall’oggi: conoscenza, morale, sofferente, attenzione… Oggi, per lo più, il poeta inscena se stesso in un clima di sostanziale, allucinata indifferenza.
Interessante: l’intervistatore non è un ritrattista, non ci rattrista con il suo giornalistico ego – fa opera chirurgica: permette al poeta l’autoritratto.
Per lo più, il libro insegna l’arte, serafica e piena di serpi, dell’intervista. Camon, con sobria prepotenza, incalza dov’è da incalzare, sfiora con leale spudoratezza, alterna franchezza e cavalleria. Per un po’ – fino agli anni Novanta – il libro è stato ristampato; ora non risulta nei cataloghi. Peccato. È difficile, in altri repertori, sentir risuonare con la stessa nitidezza la voce dei poeti. Altra sorte – per un generico frainteso legato al ‘genere’, credo – hanno avuto le “Conversazioni critiche” intrattenute da Camon con i grandi scrittori italiani – Bassani, Calvino, Moravia, Cassola, Volponi, Pasolini… –: intitolato Il mestiere di scrittore, uscito in forma definitiva per Garzanti nel 1973, il testo è stato riedito nel 2019 dalle Edizioni di Storia e Letteratura.
I due libri mi fanno pensare al genio della maestria. Lo scrittore in boccio va a scegliersi i maestri: li studia, se ne fa incantare, si scatena – suona al citofono della loro casa. Li pretende. Perché insegnino, bisogna inseguirli i maestri – il resto sono le scuole di scrittura a pagamento. Inseguire il maestro fino a rischiare il rifiuto – leggendario quello subito da Mario Materassi, dopo un lungo viaggio fino alla soglia della casa di William Faulkner, nella contea di Marshall, Mississippi: lo scrittore aprì la porta, la zanzariera intonò il suo volto a quello di una volpe, richiuse la porta, sciaguattando da dov’era giunto.
Il resto, lo denuncia il libro. Mestiere. Allo stesso tempo: ministero e “attività di carattere prevalentemente manuale e appresa, in genere, con la pratica e il tirocinio” (Treccani). Dunque: gesticolio per aggiogare gli invisibili regni (i gesti alfabetici del ministro) e lavoro di mano, di falegnameria. Apprendere per apprendistato: l’arte è una consegna. Insomma: poesia non scende dall’alto da languide Muse; devi affinare l’ascia, lavorare di fatica. Poesia come si fabbrica una seggiola; un tavolo.
E poi, a sfogliare tra le etimologie: “Vale pure Uopo, Bisogno, Necessità”.
Quando esce Il mestiere di poeta, Camon, trentenne, nato da contadina gente, studi a Padova, non ha ancora pubblicato un libro. Il primo romanzo è del 1970, s’intitola Il quinto stato; il primo libro in versi esce nel 1973, s’intitola Liberare l’animale, esce per Garzanti – di quella “scrittura sempre più semplificata e scarnificata, e al tempo stesso avvolta in una sorta di naturale, biblica gravità” scrisse Dario Bellezza, che non risulta tra i poeti interpellati da Camon. Questo a dire della ricerca, a testa alta, che precede gli esordi.
Naturalmente, ogni poeta risponde secondo il suo stile; Camon ne fa trasparire il tono – e i vezzi – in brevi cammei introduttivi, che testimoniano, in albume d’alba, il suo talento narrativo. Così di Montale, per dire:
“nessuna speranza, quest’uomo dal volto corroso, dalla bocca carnosa, rilevata a formare un solco sopra il mento, dal mansueto sguardo azzurro, dice subito, a mo’ d’introduzione, di non aver mai scritto un verso per uscire dalla crisi”.
Ungaretti, a contrario, è Lancillotto dell’eterno: “Naturalmente ogni giorno le cose sono diverse e nuove, ma in ogni giorno è contenuto tutto il passato e tutto il futuro”. Il dialogo più lungo, in generoso divagare, è con Alfonso Gatto. Del poeta – un’edizione di Tutte le poesie data 2017, via Mondadori – si dice che “non sa guidare l’auto, e quindi ha sempre bisogno della moglie che piloti la Volkswagen, o del taxi”, che fuma, che incontra spesso, a Roma, Moravia. Dal lungo confronto estraggo la porzione che più mi ha colpito:
“L’uomo è educato a scegliere quello che più gli conviene, in un clima di interesse, in un clima di avere, di avere qualcosa che la poesia non gli darà mai, perché la poesia non dà nulla. La poesia non è complice di interessi e di virtù. E proprio in questo sta la sua natura rivoluzionaria, nel fatto che essa spinge a scegliere quel che non conviene, destituisce l’istituto della conservazione che la natura dell’uomo s’accredita come un istinto. Gli altri sono tutto ciò che non conviene, la causa del nostro amore… La poesia è dell’essere che annienta lo Stato. In questo senso io credo di avere sempre scritto una poesia impervia chiusa all’ospite, ma aperta al nemico”.
Il dialogo più affascinante Camon lo intrattiene con un poeta agli antipodi di Gatto. Con Camillo Sbarbaro la discussione si svolge via lettera, tramite “lungo scambio epistolare”; l’incontro, a Spotorno, è “solo per una stretta di mano”. Del poeta – ritornato di recente in auge editoriale, dalle Poesie e prose inscatolate nei ‘Meridiani’ Mondadori nel 2022 alle “Lettere a Giovanni Descalzo” edite da Ares l’anno scorso; editore per cui, quest’anno, è uscito la biografia di Francesco De Nicola, Camillo Sbarbaro. Scrivere per vivere – si dichiara subito “l’umiltà”, la solitudine “per certi aspetti polemica e sdegnosa”. Nella casa del poeta sono assenti i libri, tranne un catalogo di licheni, edito a Uppsala nel 1952. “I licheni m’interessano come forma negletta – povera? – di vita”, dice Sbarbaro – altri hanno paragonato quell’ossessione lichenologica alla sua poetica. Il poeta gioca a schermarsi: “nessuna conoscenza specifica, solo curiosità piacere visivo, simpatia”; una ventina di nuove specie porta il suo nome. Il poeta di nulla è esperto, tutto esperisce.
Questa povertà, questa intransigenza verso il negletto, informa la vita stessa del poeta:
“Abito con mia sorella (minore di me di un anno) in questa casetta tra caseggiati (che finora ci lasciano un po’ di vista sul paese e sul mare); una casetta che non è facile scovare; priva, non per povertà ma per elezione, d’ogni risorsa moderna: né telefono né radio né televisione e nemmeno elettrodomestici. Scrivere o tentare di scrivere è la mia occupazione”.
Che il significato appropriato di elezione sia proprio questa vita di tutto scabra, del tutto sobria; affinché quel po’ di mare appena intravisto appaia come l’arcangelo, l’azzurro annuncio, acqueo quarto di vivente cielo?
Dice, poi, incalzato, a precisare una sorta di latitanza, di starsene laterali al tempo:
“Ignoro il significato preciso di ‘alienazione’. Certo, non ‘sento gli altri come nemici’; e sono (eccetto nelle crisi depressive) sin troppo comunicativo. Se nei rapporti con la gente non vado molto oltre, è che prevedo, temo la delusione. In questo borgo dove vivo dal ’51, conosco tutti, m’interesso ai casi di tutti, e tutti, pare, mi vogliono bene; non approfondisco, però, lascio che i rapporti rimangano superficiali, di convivenza, perché l’esperienza m’insegna che è saggio fermarsi all’apparenza, accontentarsene”.
Sbarbaro – così dice – non conserva libri, non serba le critiche. C’è una certa grazia nel suo elogio della superficie e dell’apparenza: un mondo d’ombre bordato d’oro, pare. A volte, è bene becchettare in vece di depredare – di un uomo, apprezzare il lago, intuirne i pesci carnivori, magari, ma evitare di tuffarsi. L’amore, ovviamente, è altro: non ci si tuffa, si ascende – perfino a piedi nudi, nella neve. Ma l’amore accade forse una volta, forse due nella vita – il resto, resti beato nella sua lacustre lucentezza, in un balenio di belati.
*In copertina: Odilon Redon, À Edgar Poe (L’oeil, comme un ballon bizarre se dirige vers l’infini), 1882