Il paradiso all’ombra delle spade. Per la poesia di Andrea Margiotta
Poesia
Valentino Fossati
La prima volta, ho incontrato Charles Simic nel 1994: gli avevano dedicato un numero della “Harvard Review”. Avevo scritto un saggio che si concentrava su alcune delle sue poesie, così mi invitarono all’incontro: a cena gli capitai di fianco. Mentre stavamo mangiando, una piccola formica nera cominciò a camminare sulla tovaglia bianca. Simic ne era ipnotizzato. Entrambi ci chiedemmo se la formica fosse riuscita ad arrivare all’altro lato del tavolo: all’improvviso, un cameriere la spazzò via. Simic si è messo quasi a piangere – più tardi, seppi che le formiche erano i suoi insetti preferiti. La compassione di Simic per le creature più piccole, per “l’immensità del particolare”, come ha scritto Czesław Miłosz. Il 21 novembre scorso ho intervistato Simic via Zoom, dopo diversi tentativi falliti di incontrarlo a Strafford, nel New Hampshire, dove viveva. Avremmo dovuto perfezionare insieme la conversazione, ma Simic è stato ricoverato poco dopo. Non riesco a pensare a un altro poeta contemporaneo che abbia scritto con arguzia, sprezzatura e compassione tanto sbalorditive. Mi mancherà profondamente. (Chard deNiord)
Hai scritto molto di recente?
Non faccio altro.
Il tuo nuovo libro ha un titolo inquietante, “No Land In Sight”. Anche se non ci sono riferimenti espliciti alla politica o all’attualità, il titolo pare implicare un mondo perduto…
Non sono pessimista. Mi pare semplicemente che tutto sia incasinato, che tutto sia fottuto.
Una poesia, “Could That Be Me?”, riassume il tuo stile schietto, tragicomico. “Una sveglia/ senza lancette/ il ticchettio fastidioso/ della discarica”. La discarica è una metafora?
No. La discarica è a cinque minuti da casa mia. Ci sono stato per molto tempo. All’inizio, era soltanto un posto pieno di immondizia. Poi è diventato un luogo più complesso. Mi sono affezionato a quella vecchia discarica dove molti, molti anni fa ho trovato una grande sveglia, che ticchettava allegramente.
Le illuminazioni liriche sembrano folgorarti spesso. Ti è capitato spesso di fermarti sul ciglio di una strada, a scrivere qualcosa?
Una volta, in New Hampshire, sulla I-93. Stavo andando a Boston. Mi sono fermato sul bordo della strada. Non avevo nulla con cui scrivere. Stavo pensando: dov’è la mia penna? Poi ho alzato lo sguardo. Un poliziotto. Posso aiutarla? Mi ha detto qualcosa del genere. Ridevo. Certo che può… ma non so se ne è in grado…
E poi… ti ha dato una penna?
Mi ha detto, deve andare avanti. Ma lo ha detto amichevolmente.
Hai scritto molte poesie sull’arte di scrivere poesie. Tra l’altro, hai usato questa definizione: “La poesia è sempre un concerto di gatti sotto la finestra della stanza in cui viene scritta la versione ufficiale della realtà”. Cosa significa?
Mettiamola così. Ho una gatta che ha venticinque anni. È nera, si lamenta. Entra in camera e mi dice, sei ancora qui? La poesia è una scena comica in cui tu, chiunque tu sia, pretendi di avere il controllo, mentre in realtà sei in balia di cose completamente fuori dalla tua presa. Ma pretendi di averne il controllo. Siamo degli idioti.
Tu e la tua famiglia siete immigrati dalla Jugoslavia a New York nel 1954. Avevi sedici anni, hai detto che Hitler e Stalin sono stati i tuoi “agenti di viaggio”. Pur mutando contesto culturale, non hai mai perso la passione per il folklore slavo.
Non so se la mia passione sia così costante. Dovrei spiegare qualcosa su dove sono cresciuto. Belgrado era una città moderna. Andavi al cinema, ascoltavi il jazz. Modernità. Poi scoppia la guerra: 6 aprile 1941. Le bombe hanno colpito il palazzo di fronte a quello in cui abitavo. Fuoco. Volo dal letto al pavimento. I miei dormono nella stanza a fianco. Edificio di quattro piani. Mia madre mi solleva dal pavimento e corre giù per le scale. Quel giorno è ancora molto vivido in me. Corriamo per le scale. Corriamo in strada. Guerra. Bombe ovunque. Inizia tutto così. La mia guerra, la mia vita.
Gli americani attaccano Belgrado nel 1944…
Sì. Gli americani, i nostri alleati, ci bombardano. Abbiamo applaudito. Eravamo felici quando colpivano qualcosa. Era una guerra impossibile da immaginare. Tutto era nel caos. Eppure, ero un bambino, non del tutto consapevole dell’orrore, di quanto fosse spaventoso ciò che mi circondava. Io e i miei amici ci siamo divertiti molto. Il che suona folle. Mia madre raccontava spesso questa storia ai nostri vicini e parenti, a significare quanto fossi cretino. Era il 9 maggio del 1945. La guerra è finita. Stavo giocando per strada. Salgo al quarto piano a bere un sorso d’acqua, per poi ridiscendere a giocare. La radio ad alto volume. La gente è felice. La guerra è finita, è finita!, urlano. E io ho risposto, così è finito il mio divertimento.
Andavi a scuola?
No, appunto. Niente scuola. Una volta, a New York, durante una qualche festa, molto tempo fa, mi metto a parlare con una donna polacca, un po’ più grande di me. Era cresciuta a Varsavia durante la guerra. Si era divertita moltissimo durante la guerra. Chinandosi verso di me, sorridendo, mi ha detto, niente scuola, a quel tempo…
Hai vinto il Pulitzer con un libro di prose poetiche, “The World Doesn’t End”. In un testo sui poemi in prosa hai scritto, “Sembrano prose ma si comportano come poesie perché, nonostante tutto, sono trappole per la nostra immaginazione”.
Come la memoria.
C’è qualcosa nella prosa poetica che ti sembra più attraente?
Mentire. Inventare. Questo mi attrae. Mi piacciono i bugiardi meravigliosi, come Emily Dickinson. Mi piace chi inventa piccole cose deliziose.
Se avessi la possibilità di trascorrere qualche ora con Emily Dickinson, nel suo salotto, o passeggiando per Amherst, cosa le chiederesti?
Non lo so. Forse se vuole bere qualcosa. Non potrei diventare amico di una persona così. Era troppo strana, Emily. E poi aveva paura di passeggiare. Aveva paura dei serpenti.
Potremmo dire che la poesia emerge dall’inconscio?
Può darsi, ma non credo, come i surrealisti, che l’inconscio detti le cose alla coscienza. No. La poesia è solo ciò che accade. La poesia è un miracolo. Penso ad alcuni versi che ho scritto, lungo l’arco della mia vita. E mi dico: li ho scritti davvero io? Sono accaduti. Semplicemente.
Hai un taccuino per annotare storie, aneddoti, versi?
Certo, te lo mostro. Sono soltanto frammenti. Qui scrivo di sant’Agostino che non riesce a spiegarsi perché Dio abbia creato le mosche. Qui, ad esempio, scrivo: “Qualcosa mi parla!”.
“Qualcosa mi parla!”, qualcosa scatta…
Così nascono le mie poesie brevi.
Perché scrivi poesie brevi?
Mi annoio presto. Una volta ho scritto una poesia che andava avanti per sessanta pagine. Era una poesia sull’Inquisizione. Per fortuna non esiste più. Una poesia stupida, orrenda, che imitava Pound. Grazie a Dio l’ho buttata via.
Oltre alla poesia, nel corso degli anni hai scritto anche di critica, sulla “New York Review of Books”. Come sei riuscito a bilanciare critica e poesia?
Per bisogno di soldi. Mi piaceva scrivere in prosa. Litigavo sempre con qualcuno, e questo è importante.
È sempre stato interessante leggere i tuoi saggi, privi di spacconerie, di cazzate.
Ogni tanto, però, un po’ di cazzate sono necessarie.
**
Il vento è finito
Mia picciola barca
abbi cura di te,
non c’è
terra in vista.
*
Il miraggio
Come un cartone animato in cui un uomo,
nel deserto, cade in ginocchio, morto di sete,
e d’improvviso vede davanti a sé
una pozza fresca e qualche palma,
così, una volta, su un treno verso Chicago
ho visto una montagna innevata:
sapevo perfettamente che non esisteva,
ma continuai a fissarla, e vidi
un prato verde con le pecore al pascolo,
finché nuvole di fumo nero
annodate sopra le enormi acciaierie
non hanno nascosto quella bella visione.
Charles Simic
*Tra i grandi poeti del nostro tempo, Charles Simic è morto il 9 gennaio del 2023. Qui si traduce larga parte di una intervista realizzata da Chard deNiord per la “Paris Review” e un paio di poesie da “No Land in Sight” (Knopf, 2022)