Il poeta laureato è un poeta imborghesito. La vera poesia è per sempre giovane
Politica culturale
Alessio Magaddino
Nel settembre del 1820, John Keats, ventiquattrenne, insieme al suo amico Joseph Severn, pittore, lasciò l’Inghilterra e si diresse a Roma, nella speranza che il clima potesse alleviare i suoi sempre più gravi sintomi di tubercolosi. Quando la nave su cui era a bordo, la Maria Crowther, raggiunse Napoli, all’alba del 21 ottobre, gli furono imposti dieci imprevisti giorni di limbo; la nave venne bloccata nel porto, in quarantena. Sulla terraferma si temeva che i passeggeri potessero diffondere l’epidemia di tifo, scoppiata a Londra. Keats soffriva per l’aria malsana e di indigestione e intanto guardava il porto brulicante, le piccole navi in competizione con quelle più grandi per avere spazio. Ascoltava il trambusto di Napoli, l’eco di canzoni remote, conversazioni, risate che si infrangevano l’una sull’altra. E, come in seguito scrisse all’amico Charles Armitage Brown il 30 novembre, “ho raccolto più giochi di parole in una settimana, in una sorta di disperazione, che in un anno di vita”. In quarantena, Keats scrisse una lettera alla madre della sua fidanzata Fanny Brawne, affidandole anche un breve messaggio per Fanny; sarebbero state le sue ultime parole per lei. E, dopo aver lasciato la nave ed essersi avventurato a Napoli, scrisse a Brown, (che oltretutto era vicino di casa dei Brawne, a Wentworth Place, a Hampstead): lo tormentava ancora il pensiero di Fanny. Keats morì nel febbraio del 1821, senza mai far ritorno in Inghilterra.
*
24 ottobre 1820
Mia cara Mrs. Brawne,
poche parole per dirvi del tragitto che abbiamo compiuto e della situazione in cui ci troviamo e, per via della quarantena, poche dovranno essere, poiché le nostre lettere rischiano di essere aperte ai fini della fumigazione presso l’ufficio sanitario. Dobbiamo rimanere nell’imbarcazione per dieci giorni e al momento siamo serrati tra file di navi. L’aria marina mi ha dato beneficio nella stessa misura in cui il clima burrascoso, l’inospitale sistemazione e i cattivi pasti mi hanno danneggiato. Così che le mie condizioni sono rimaste le medesime di prima. Portate il mio amore a Fanny e ditele che, se fossi in buona salute, potrei riempire un fascicolo di pagine con le descrizioni di questo porto di Napoli – tuttavia mi sembra un sogno – ogni uomo in grado di remare la sua barca e di camminare e di parlare, mi pare una creatura diversa da me. Io non mi sento al mondo. È una sventura per me che una delle passeggere sia una giovane in consunzione – la sua imprudenza mi tormenta molto – la coscienza della sua sofferenza, i rossori sul suo volto, tutti i suoi penosi sintomi mi angustiano – non sarebbe stato così se non fossi stato malato. Severn è davvero un buon amico, ma i suoi nervi sono troppo saldi per essere compromessi dalla malattia altrui – ricordo che Rice mi aveva logorato allo stesso modo nell’isola di Wight – mi sentirò molto sollevato quando la donna scomparirà dalla mia vista. È impossibile descrivere esattamente lo stato di salute in cui mi trovo, in questo momento soffro molto di indigestione, tanto che mi è doloroso anche scrivere questa lettera.
Desidero sempre che mi crediate un poco più grave di quanto sia e poiché non ho un’indole ottimista, è possibile che vi riesca. Se non mi ristabilirò, il vostro rammarico sarà alleviato, se mi salverò, la vostra gioia raddoppiata. Non oso pensare a Fanny. Il mio pensiero non ha osato posarsi su di lei. L’unico conforto che ho avuto è stato, per ore e ore, il pensiero di avere il coltello che ella mi ha donato riposto in una custodia d’argento, i capelli in un medaglione e il taccuino in una retina dorata. Mostratele questo. Non oso dire di più. Tuttavia non dovete credere che io sia tanto malato quanto appare da questa lettera, poiché se mai qualcuno sia nato senza la facoltà di sperare, sono io.
Severn sta scrivendo a Haslam, e l’ho appena pregato di chiedergli di comunicarvi la sua opinione sulla mia salute. Oh, quello che vi racconterei del golfo di Napoli, se solo potessi ancora una volta sentirmi un cittadino di questo mondo – sento che uno spirito nel mio cervello con piacere si dilungherebbe – Oh, che pena avere un intelletto steccato! Ancora il mio amore a Fanny – dite a Tootts che vorrei mandarle un cestino di uva – e a Sam che qui con una lenza catturano pesciolini che sembrano acciughe, li pescano con forti strattoni. Ricordatemi a Mr. e Mrs, Dilke – dite a Brown che a Portsmouth gli ho scritto una lettera che non ho inviato poiché dubito che la vedrebbe mai. Il vostro sincero e affezionato,
John Keats
*
1 novembre 1820
Mio caro Brown,
ieri siamo usciti dalla quarantena, durante la quale la mia salute è stata danneggiata dall’aria malsana e dalla cabina opprimente, più che dall’intero tragitto. L’aria fresca mi ha rianimato un poco e spero di stare sufficientemente bene stamani così da riuscire a scrivervi con calma una breve lettera – se tale la posso chiamare, in cui ho timore di parlare di ciò su cui dovrei dilungarmi con gaudio. Mi sono a tal punto inoltrato, che devo procedere un poco – forse potrebbe alleviare il carico di dolore che mi opprime. La convinzione che non la vedrò mai più mi porterà alla morte. Mio caro Brown, sarebbe dovuta essere mia quando ero in salute e così non mi sarei ammalato. Posso sopportare di morire – non posso sopportare di lasciarla. Oh Dio! Dio! Dio! Ogni oggetto nel mio baule che mi ricorda di lei mi trafigge come una lancia. La fodera di seta che ha applicato al mio berretto da viaggio mi ustiona la testa. La mia immaginazione è orribilmente vivida riguardo a lei – la vedo – la sento. Non c’è niente al mondo interessante al punto da distogliere il mio pensiero da lei per un momento. È stato così quando mi trovavo in Inghilterra; non posso ricordare, senza rabbrividire, il periodo in cui ero prigioniero da Hunt e tenevo lo sguardo fisso su Hampstead tutto il giorno. Allora potevo almeno sperare di rivederla – Ora! – Oh, se potessi essere sepolto accanto alla sua casa! Ho paura di scriverle – di ricevere una lettera da lei – vedere la sua calligrafia mi spezzerebbe il cuore – persino sentire parlare di lei, vedere scritto il suo nome, sarebbe più di quanto potrei sopportare.
Mio caro Brown, cosa posso fare? Dove cercare conforto o sollievo? Se anche avessi una speranza di guarire, sarei ucciso dalla passione. Per l’appunto, da quando sono malato, anche quando ero a casa tua e a Kentish Town, questa febbre non hai mai cessato di logorarmi. Quando mi scriverai, e lo farai immediatamente, invia la lettera a Roma (fermoposta) – e se lei sta bene ed è felice, fa’ un segno +, se no -.
Ricordami a tutti. Mi sforzerò di sopportare la mia infelicità con pazienza. Una persona nel mio stato di salute non dovrebbe avere così tanta infelicità da sopportare. Scrivi un messaggio a mia sorella e dille che hai avuto mie notizie. Severn è in ottima salute. Se stessi meglio, ti esorterei a raggiungermi a Roma. Temo che non ci sia nessuno in grado di darmi alcun conforto. Hai qualche notizia di George? Oh, se solo la buona sorte si fosse mai posata su di me o sui miei fratelli! – Allora forse avrei di che sperare, ma l’angoscia è divenuta per me un’abitudine.
Mio caro Brown, per me, sii suo difensore per sempre. Non riesco a dire una sola parola su Napoli, non mi sento affatto coinvolto nelle migliaia di novità attorno a me. Ho paura di scriverle – vorrei che lei sapesse che non l’ho dimenticata. Oh, Brown, ho carboni ardenti nel petto – mi sorprende che il cuore umano sia in grado di contenere e sopportare così tanta sofferenza. Sono destinato a questa fine? Che Dio la benedica, e che benedica sua madre, mia sorella, e George e sua moglie, e te e tutti!
Il tuo sempre affezionato amico,
John Keats
*Le “Letter from Quarantine” di John Keats sono state selezionate da “Lapham’s Quarterly”, la traduzione italiana è di Valentina Gambino
**In copertina: Joseph Severn, “Ritratto di John Keats”, 1821