La Poesia è e sarà sempre associata alla giovinezza, alla fioritura della vita, alla sua prima e incontaminata stagione di entusiasmi in cui ogni cosa reca impresso il suggello della scoperta.
Si è poeti solo preservando quel nucleo, schermandolo dalle insidie della vita, mantenendo accesa quella fiammella destinata a non spegnersi mai.
Il poeta laureato è un poeta imborghesito, addomesticato, che ha perso la sua vocazione più profonda.
La poesia si nutre dell’ombra, delle atmosfere riposte ed arcane, mai dei clamori e della mondanità ed è cosa talmente intima che andrebbe solamente riletta tra sé e sé, in una mormorazione interiore.
Nulla è più insopportabile della poesia ‘esibita’, teatralizzata, affidata alla retorica impostata degli attori teatrali o, peggio ancora, alle baracconate modaiole dei ‘poetry slams’ che tanto danno oggi le arrecano.
Julien Green compose in età molto avanzata alcuni medaglioni biografici di poeti dedicati a John Donne e a Coleridge e li pubblicò, quasi centenario, col titolo di Jeunesse immortelle.Questi medaglioni avrebbero dovuto essere seguiti da altri profili, consacrati a titani come Novalis o Hölderlin, se la morte non avesse interrotto la sua opera. In questi profili, colpevolmente inediti in Italia, Green paragona i poeti a “terre di calore”, la cui giovinezza si irradia in loro sino alla fine.
John Donne, il più grande dei metafisici inglesi, si gettava a capofitto nelle letture come fossero state passioni amorose, con una gioia dello spirito comparabile solo al tripudio dei sensi. La sua gioia di sapere si riverberava nelle profondità della sua lirica come delle sue prose sacre. Green lo definisce epigrammaticamente come un allucinato della carne che vuole possedere l’invisibile e in pochissime righe racchiude lo spirito della sua opera meglio di cumuli e cumuli di compilazioni accademiche buone solo per prendere polvere.
ll mondo appare a John Donne come un grande cimitero, destinato al naufragio di tutte le speranze terrestri. Le metafore sino ad allora inaudite della lirica di Donne spezzano la convenzionalità dell’epoca elisabettiana e racchiudono il senso di questo vibrante messaggio spirituale destinato a perpetuarsi nei secoli in una lunga tradizione poetica che approda sino al correlativo oggettivo di Thomas S. Eliot.
A fare da pendant alla parabola di Donne è, secoli dopo, in pieno Romanticismo, Samuel Taylor Coleridge, anch’egli animato da un giovanile furore letterario, da una voracità di onniscienza che lo portava a triturare e assimilare qualsiasi ambito del sapere. Il cosmo transitava nella mente del giovane Coleridge, spirito universale, il più universale, quanto ad ampiezza di orizzonti conoscitivi almeno, dei grandi romantici inglesi.
Green ripercorre il rapporto con Southey e il progetto della “Pantisocrazia”, da compiersi in un’utopica colonia egualitaria da impiantare in America. In un’era imbevuta di grandi chimere utopiche, Coleridge e Southey vagheggiarono una comunità improntata al totale egualitarismo, in cui tutti avrebbero governato allo stesso modo, e ipotizzarono di stabilirla nel rurale Kentucky o sulle sponde del Susquehanna. L’America esercitava sui giovani poeti inglesi la fascinazione straordinaria del paese giovane, incorrotto, dagli spazi immensi ed in parte ancora inesplorati, e ad alimentare tale mitologia concorreva la prosa ammaliante dello Chateaubriand di Atala e di René.
Superfluo dire che la colonia utopica di Coleridge e Southey non si realizzò mai ma qualcosa di tale fantasticheria alimentò nondimeno la successiva esperienza letteraria di Coleridge, esperienza che avrà il suo culmine nella Ballata del vecchio marinaio, uno dei vertici assoluti della lirica di ogni tempo.
Green ritiene questo misterioso capolavoro scritto, quasi, dallo spirito dell’Inghilterra stessa: il poeta è in qualche misura solo una mano predestinata. Come tanti altri grandi capidopera la Ballata passò inizialmente inosservata se non addirittura osteggiata, venendo compresa nella sua abbagliante bellezza solo in seguito, a conferma di come la rivincita dei poeti sia talora postuma, rischiarata dal sole pallido dei morti. Coleridge trascorse la sua intera esistenza senza mutare dall’adolescente che aveva letto tutto, divorato tutto. Egli incarnò con raro splendore il modello dell’adolescenza perfetta che è il dono dei veri poeti.
“Le jeune homme en lui n’a jamais cessé d’exister, avec toutes ses velleités et tous ses reves”.
Egli, a dire di Green, attraversò l’intera esistenza simile ad un angelo ferito in cui la bellezza della gioventù non era svanita, ma, seppur offuscata, ritornava per lampi e illuminazioni.
“Mais qu’est notre saison humaine, en regard du ciel étoilé contemplé a neuf ans dans un pré du Devonshire et gardé à jamais au fond d’ un coeur d’enfant ?”.
Viene da pensare all’antica e serena meraviglia del Fanciullino pascoliano, a quella voce nascosta che alberga in ognuno di noi e “mette il nome a tutto ciò che vede e sente”.