15 Aprile 2020

“Vivo nel centro del nervo solare, intanto tiro a scomparire”: pubblicate Dario Villa, il poeta che svela l’ipocrisia dei poeti (e ha tradotto magnificamente Blake)!

Così, improvvisamente, come una lince che pensavi estinta, mi assale Dario Villa. Sfogliavo il volume delle Opere di William Blake (Guanda, 1984), specie di breviario dei giorni dispari, Vala o I quattro Zoa:

Nei Torchi vi è però lamento, terrore & disperazione.
Abbandonati dai loro Elementi essi svaniscono & non sono più,
Non sono più che un desiderio d’Essere, un distratto, divorante desiderio
Desiderante come il verme affamato & la tomba spalancata.
S’immergono negli Elementi; gli Elementi li espellono
O consumano altrove i loro ombrosi sembianti…

Sbatto, dopo il rito, nella pagina che censisce i traduttori. Roberto Sanesi ha curato e tradotto quasi tutto; Giuseppe Conte ha reso i Songs of Innocence e of Experience. Dario Villa ha raffinato Vala, Jerusalem, la scelta delle lettere, For the Sexes, e i Poems from the Pickering Manuscript. Eccolo, Villa, dalla foresta della memoria, mi sbrana.

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Dario Villa, puro ispirato, bestia sacra, Orfeo col papillon, dandy gnostico, è tutto in quella foto scattata da Antonio Ria. Seduto di sbieco, con il gomito destro sul ciglio della sedia al fianco; maglia con scollo a V, camicia, nobiltà felina; guarda a bocca semiaperta qualcosa, di lato, sul fondo, al di là, forse una rissa d’angeli; nella mano impugna, visibile, una carta, strappata, ha scritto l’ennesima poesia, credo, sul palato del caso. Nato a Milano nel 1953, morto giovane, a 42 anni, Dario Villa mi fu donato da Girolamo Melis, maestro di gioie inquiete. Amava frequentarlo, se lo portava con sé nei consigli d’amministrazioni di pluridotati capi d’impresa. Villa, il poeta, che villeggiava tra la verità e il frainteso, portava scompiglio nel consiglio – cioè, il destino dove è la stasi del profitto. Che genio.

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Da assoluto ispirato, non era adatto alla dissolvenza – quella che avvolge un po’ tutti i poeti, oggi –, preferì la sparizione. Trentenne, esordì con la placca Lupsus in fabula (1984), lo riconobbero – col Mondello opera prima – e lui si decimò, dandosi alla macchia. Era stato scoperto, lince rara, ancora, nel volume Poesia Uno edito da Guanda, era il 1980: tra un pezzo di Giovanni Giudici, un frammento di Mario Luzi, una silloge di Vittorio Sereni e un’altra di Valentino Zeichen, nel fatidico “Quaderno collettivo”, ultimo dell’alfabeto (V come Villa) c’era lui, Dario Villa – insieme a quell’altro carismatico del linguaggio, Alessandro Ceni. Poi, si disperse, nel gorgo di plaquette introvabili. Sul ciglio del morire, nel 1995, per Marsilio, Abiti insolubili. L’aveva voluto Giovanni Raboni, che firmò, nel 2001, l’intro a una meritevole raccolta di Tutte le poesie 1971-1994 di Villa: “Credo che pochissimi poeti italiani, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso, siano stati così costantemente, oserei dire così insistentemente frequentati dalla grazia come l’autore di questo libro”. Nessuno diede credito a quel credo: di Villa non c’è traccia tra le nostre macerie editoriali, né nelle antologie di pregio. D’altronde – e anche qui Raboni azzecca – “è come se fosse, la sua poesia, sempre un passo avanti, sempre un po’ altrove, un po’ oltre rispetto a se stessa o, per essere precisi, al sentimento… della propria contemporaneità”. Tanto oltre – ma non è, da sempre, sempre così, oltre, la poesia? – da svagare nell’invisibile.

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In effetti, presupponendo tutto, profeta di mondi ulteriori, in un numero di Poesia del dicembre 1988, Villa si chiedeva: “Che altro fare? Chiudere il beccuccio o continuare a sbrodolare acidi e dolcificanti sul risaputo e sull’inattingibile? Perpetrare una folle ancorché splendida rimessa in gioco dell’essere (già decretato irrilevante da una certa carenza di finalità evidenti) e quindi anche della letteratura (che è l’essere che si commenta) protraendo il calcolo e l’azzardo fino alla coincidenza per saturazione col proprio esaurito motore? Tirare avanti e fottersene, continuando a danzare in un teatro che è sempre più spopolato, tanto il pubblico ha altro a cui pensare? Rimane da vedere se la funzione critica sia sufficiente alla poesia per proseguire in quell’immenso divorzio dalle proprie ragioni originarie che sembra (sembra a me, oggi) faute de mieux l’unica strada percorribile senza vergogna”.

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È uno di quei poeti che inchiodano l’ipocrisia dei poeti di mezzo – la poesia, si sa, mezze misure non ha –, i burocrati del letterario, gli amministratori del bel verso, un poeta-ferita, Dario Villa, una ferita aperta.

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Di lui, in effetti, qualcosa resta. Le frattaglie. Brandelli di William Blake, Un uomo solo di Christopher Isherwood, tradotto per Guanda nel 1981, ora in catalogo Adelphi. Stop. Segugio degli insoliti, Dario Villa ha tradotto Basil Bunting, poeta modernista amico di Pound – a lui è dedicata Guide to Kulchur –, e David Gascoyne, surrealista inglese – frequentava Dylan Thomas, Henry Miller, Salvador Dalí –, che fan parte di un canone altro, altrui, scostante, scansato in Italia. Per Mondadori, Villa ha tradotto, nel 1992, L’elefante di Richard Rayner (coetaneo di Villa, vive a Los Angeles, da un suo libro Mika Kaurismäki ha tratto L.A. Without a Map) e nel 1994 Vindication di Frances Sherwood (che con quel libro fu finalista al National Book Award). Entrambi i libri sono affogati nell’oblio, frutto di lavori sporadici, per cavare quattrini.

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Come i poeti autentici, disadatti, nati in altri astri, Dario Villa si occupava dell’opera senza occuparsi del suo esito, della comunicazione, della pubblicazione, del pubblico. Lo installai, tra altri quotati – Cristina Campo, Giovanni Testori, Turoldo, Massimo Ferretti, Emanuel Carnevali, Scipione… – in una antologia, Maledetti italiani, stampata da il Saggiatore nel 2007 (presto maledetta, poco di moda). Scrissi, con enfasi, di una “impudica scommessa col regno dei morti”. Mi pareva che il genio di Villa fosse lampante, attesi ristampe della sua opera – le attendo ancora, sbaglio monocolo, il mio monologo è stantio, come sempre. Sostanzialmente nessuno si è occupato di lui; Marco Merlin lo ha installato tra i Poeti nel limbo (Interlinea, 2004): “Villa abita una letteratura di secondo grado, condannata a incistarsi nella contemporaneità come un anacronismo: appena si aderisce all’immagine che essa può restituirci, avvertiamo lo scacco esistenziale, qui lambito per mezzo degli scatti ironici di chi è consapevole che la verità è prossima al nonsense, che il reale va a braccetto con l’assurdo, che il soggetto è uno specchio, in sé vuoto, che ospita quanto lo attraversa”.

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Nell’edizione Marsilio, Raboni parlava, a proposito di Villa, di “postmoderno” – lo preferii quando scrisse che era un “visitatore angelico”. Se è postmoderno lo è come il protagonista di un romanzo di Philip K. Dick, uno che sfigura i replicanti, un predicatore tratto da Valis. D’altronde, nella sua poesia, sotto la cute dell’affabulazione, dell’imbambolamento linguistico, del gioco di prestigio retorico – armato, però, per sottrarre ogni retorica alla retorica – leggo la fame aforistica, il flash del visionario, l’estro sapienziale, il Sinai al posto del Pirellone. Ecco una antologia di versi fulminanti.

(siamo un’ombra del caso
procediamo da cause sconosciute
precipitiamo come nebulose
in un fuoco di rose)

*

– bestie stratificate urgono sotto,
divorate da inutili secondi,
braccate dalla coda, il muso muto
e chiuso, somigliante ad altro, all’ombra
di una parvenza, a un morso,
a un lupo, al vuoto:
il cuore occluso, roso da vertigini
che durano un minuto, come i secoli

*

vivo nel centro del nervo solare
e sono io per gli altri, altro per me:
intanto tiro a scomparire: spiro:
e la voglia di vivere vivacchia:

*

cade al fondo di un sogno e si desta
in un arabesco di simboli

o sono mosche? il mondo è fuoco
bianco, vuoto, quadrato:
l’io che si conta (una testa tramonta
tra le frasche)

*

sarà il solito dio che tiene il mondo
nel fazzoletto come fosse un nodo
e martella impazzito sul mio chiodo
(è appesa a me la sua memoria corta)

*

non c’è un’anima
nemmeno un cane sull’argine d’ombra
sciacallo psicopompo
che li traghetti esperto delle brume
oltre il battito cieco
che li ha portati fino a questa sponda
– ha soltanto una sponda questo limbo

*

è pianto inane,
umidità sprecata,
è nulla aggiunto al nulla
piantato nell’eterna aridità,
ché dilaga soltanto per i vivi
e insolentisce gli ossi che dilava:
viene giù per i morti e non li tocca,
folle diluvio di formule cupe

*

i corpi a morsi si scardinano
gli occhi bruciano al buio
i sogni penetrano nella carne
i corpi rotolano come troni rovesciati

*

Amo altri poeti – alcuni fino a cucirmi le labbra con una forchetta – ma non ho segnato, scarabocchiato, graffiato nessun libro di poesie come quello di Villa. Ogni verso è uno scisma contro la correttezza poetica, un pozzo – no, non c’è acqua, ma il magma buio, l’attrazione della caduta, ed è quello che vogliamo, volare. (d.b.)

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