“Donna con cui vivrò…”. La vita totale di Paul Eluard. Una poesia
Poesia
Giorgio Anelli
Il cuore non è mai al sicuro e dunque,
fosse pure in silenzio, non vantarti
della vittoria o dell’indifferenza.
Rendi comunque onore a ciò che hai amato
anche quando ti sembra di non amarlo più.
Te ne stai lì tranquilla? Ti senti soddisfatta?
Potresti finalmente dopo anni
d’ingloriosa incertezza, di smanie e umiliazioni,
rovesciare le parti, essere tu
che umili e che comandi? No, non farlo,
fingi piuttosto, fingi l’amore che sentivi
vero, fingi perfettamente e vinci
la natura. L’amore stanco
forse è l’unico perfetto.
Patrizia Cavalli
da Datura, Einaudi, 2013
*
Fin dal suo esordio poetico, nel 1974, Le mie poesie non salveranno il mondo, che rovesciava un titolo di Elsa Morante uscito qualche anno prima (Il mondo salvato dai ragazzini), Patrizia Cavalli si presentava come un poeta dalla chiarezza assoluta. Ma era già allora una chiarezza enigmatica. Si potrebbero usare parole come “semplicità”, “quotidiano”, “diario” se non fosse che dietro quella semplice quotidianità diaristica si nasconde un pensiero filosofico; o, detta meglio, l’inequivocabilità di una filosofia. Si tratta specificamente di una filosofia in continua tensione tra corpo e lingua, quasi che la lingua cercasse una concretezza, una matericità nel suo stesso edificarsi come espressione. Ma cosa può dire la lingua di un corpo? Come può pronunciare la sua stessa vita, una vita che però, a guardare bene, sfugge continuamente di mano? Ecco, quello che percepiamo leggendo la Cavalli è che anche il corpo – la sua vita – non è mai dato per assodato. Al contrario, a ogni verso pare quasi se ne dichiari l’assenza o l’inafferrabilità («Corpo mio non fuggire», dice un verso da Le mie poesie non salveranno il mondo). Anche quando la Cavalli scrive poesie amorose, è sempre di un’assenza che sta parlando, tanto da farci supporre che il soggetto a cui si rivolge non sia altri che lo stesso io che ci sfugge ma col quale ci sembra si sia condiviso qualcosa – fosse anche, questo qualcosa, un’esperienza o un desiderio di comunione. Allora, pare quasi che la Cavalli cerchi un ordine e un senso alla dissipazione; un ordine a un’assenza di unità e di centro. Dichiarare, attraverso la poesia, un essere come esserci in assenza o, appunto, nella dissipazione – ed è quasi sempre la digressione che spiega linguisticamente questa impossibilità, questa assenza, questa perdita del centro di un discorso, di una vita unitaria e condivisa che si è spezzata (e si legga una poesia dalla prima raccolta: «Quante tentazioni attraverso/ nel percorso tra la camera/ e la cucina, tra la cucina/ e il cesso […]/ Così dimentico sempre/ l’idea principale, mi perdo/ per strada, mi scompongo/ giorno per giorno ed è vano/ tentare qualsiasi ritorno»). Quando allora scorriamo i versi di questa lirica di Datura, che è la più recente raccolta della Cavalli, comprendiamo pure che il tono non è più filosoficamente ironico come agli inizi; che quella frattura dell’io, quell’assenza da se stessi è divenuta tanto radicale da sentirne anche la stanchezza. Ma perché «L’amore stanco» dovrebbe essere «l’unico perfetto»? Forse, in quella stanchezza, non c’è alcuna cinica accettazione. La Cavalli parla di fingere di amare anche quando si è smesso di amare. Se quella finzione serve a rivivere ciò che un tempo si sentiva come vero, questo significa che la finzione è anche ciò che sostanzia l’assenza. Ho idea che la Cavalli abbia trovato in quella stanchezza d’amore l’idea di una perfezione espressiva – quella in cui la lingua e il corpo, nella finzione, possono riunire ciò che è inderogabilmente separato.
Andrea Caterini
*
A mio avviso la parola chiave per capire la poesia di Patrizia Cavalli è “esperienza”. Non per tutti l’esperienza scava dentro allo stesso modo. C’è chi dimentica in fretta, chi ne fa tesoro, chi si lascia sfiorare e chi, invece, si fa segnare in profondità dal vissuto. La poetessa più affine alla Cavalli è, secondo me, Wislawa Szymborska, anche se a distanziarla da essa è una sorta di disincanto ispido, di scostante cinismo. L’intelligenza della Cavalli è tutta esperienziale: è un’intelligenza che va subito al dunque, che non si perde in ragionamenti ampollosi o in accensioni liriche troppo solenni. Conosce bene la vita, la Cavalli, e quanto più la conosce tanto più la poesia perde “l’aura”. Le sue poesie sono concise, chiare, concrete – sono poesie ad altezza umana. Il loro stile e il loro lessico non alludono a nessun altrove, a nessuna poetica aulica. La poetessa è, molto semplicemente, una testimone di se stessa. La gamma sentimentale della sua poesia è molto ampia – dal sentimento accorato all’ironia più canzonatoria –, ma a prevalere è sempre una profonda consapevolezza su come vanno le cose del mondo. La poesia della Cavalli io la vedo come una donna che fa l’amore senza mai chiudere gli occhi. Anche nell’abbandono più evidente l’occhio rimane sempre vigile sui dettagli più terreni, più umani, più prosaici. Si sente che questa poetessa ha molto vissuto, perché solo chi ha molto vissuto è distante dall’atto poetico come atto religioso. Ricordo una sua poesia di Sempre aperto teatro, una bellissima raccolta del 1999: «O amori – veri o falsi / siate amori, muovetevi felici / nel vuoto che vi offro». Cos’è quel vuoto? È, secondo me, lo spazio della disponibilità, della vita che va vissuta “felicemente” (con leggerezza) anche quando non è apicale, anche quando non è entusiasmante, quando è un po’ farlocca. La poesia della Cavalli è tutta d’occasione e d’amore, ed esprime non già il punto in cui ha origine il sentimento, ma “la morale” al termine di un’esperienza sentimentale. È una poesia anche didattica, secondo me, sia pure involontariamente, perché spesso racconta le concrete meccaniche dei rapporti, degli amori, dei desideri e delle finzioni. In questa poesia tratta da Datura la poesia diventa ironica e sottilmente cinica esortazione didattica – totalmente anti-romantica, quasi provocatoria, per quanto è “pragmatica”. È un colpo secco all’idea romantica della passione e della vendetta amorosa. I versi finali sono consigli di grande esperienza di vita: «L’amore stanco / è forse l’unico perfetto». Tuttavia il vertice di questa poesia non è alla fine, dove prevale, appunto, “l’esperienza” (fingere, per quieto vivere, l’amore, consapevoli che solo quando la passione è svanita l’amore può diventare durata), un disincanto beffardo e stanco. No, il vertice è all’inizio; è lì, nei primi versi, un’accensione morale quasi buttata lì con la mano sinistra. Scrive la Cavalli: «Rendi comunque onore a ciò che hai amato». Quindi non è solo vero che in fondo un amore vale l’altro o, più precisamente, che tutti gli amori fanno sempre la stessa fine. Questo è solo il succo del discorso, quello più concreto, che più immediatamente colpisce. L’intuizione vera è che bisogna rendere onore a ciò che si è amato. Che poi significa accettarsi, dare dignità a ogni cosa di sé, anche ai fallimenti e alle cadute. Occhio, dunque: mentre la Cavalli minimizza e fa la cinica, qua e là assesta dei colpi che tolgono il fiato per quanto sanno riscattare tutti i nostri fallimenti e tutti i nostri sbagli.
Andrea Di Consoli
*In copertina: Patrizia Cavalli in un ritratto fotografico di Philip Lorca diCorcia, fine anni Ottanta
**“Mentre tutto cade” ha raccontato una poesia di: