22 Marzo 2020

“Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Antonella Anedda e l'attenzione microscopica di Vermeer

Solo la nudità alla fine ci raggiunge
esatta come la luna crescente nei capelli.
Esiste una gioia nella reticenza
e un riparo perfino in questo spazio
che ha un inizio e una fine.
Non voglio scrivere un’elegia della vecchiaia,
solo dire che spingere le braccia dentro il freddo
è una prova che ha il senso di trovare il verbo in una frase.

Senti come guadagni la via del corridoio.
Non è scontato il passo col respiro.
Conta i mattoni pensando ai ciottoli di fiume
all’acqua che ti fasciava il piede
ricorda quanta tenacia c’è voluta a decifrare
le mappe dentro alle parole.

Antonella Anedda

Spazio dell’invecchiare, da Salva con nome, Mondadori, 2012

*

Non sarà un caso che Antonella Anedda si sia laureata in Storia dell’Arte anziché in Letteratura. Non è un caso che la sua poesia sia tanto attenta ai dettegli, che poi vuol dire anche alle singole parole. In fondo, penso che il dettaglio sia proprio la chiave per comprenderla (un suo libro particolarmente riuscito si intitola La vita dei dettagli, e guarda caso erano prose saggistiche dedicate proprio a “particolari” di opere d’arte). Se fosse un pittore, però, non la si immaginerebbe avere una solennità rinascimentale, piuttosto potremmo associarla all’attenzione microscopica di un Vermeer. Ma se dicessimo però che le poesie di Anedda nascono da una illuminazione che rende evidenti i significati, sarebbe una riduzione, come supporre che la sua sia una poesia istintiva. Penso invece al contrario che quel dettaglio che si diceva sia il restringimento del raggio visivo su qualcosa – diciamo pure una situazione comune di vita. Un restringimento che vale quanto un fascio di luce che se concentra l’obiettivo, lascia che tutto intorno resti sfocato, come in ombra, o in un riverbero. Un riverbero che però crea intorno a quello stesso dettaglio un’atmosfera in cui la situazione inquadrata pare sia vissuta come in sogno. «Senti come guadagni la via del corridoio./ Non è scontato il passo col respiro». Antonella Anedda racconta la precarietà di noi esseri umani – e in specifico del nostro corpo e della nostra parola – alla quale il poeta non si oppone ma vi si assoggetta con umiltà; un’umiltà che però non teme di affacciarsi alla vertigine. Una vertigine vissuta sempre in una verticalità ma priva di esibizionismo, sempre dentro una misura di raffinatezza espressiva che in certi casi potrebbe apparire anche manierista, se non si avvertisse urgente a ogni verso un dolore di vivere che appare inequivocabile, «Esiste una gioia nella reticenza/ e un riparo perfino in questo spazio/ che ha un inizio e una fine». Lo «spazio» di vita che inizia e finisce è anche quello in cui la parola non può dire tutto. Quella parola, «reticenza», non afferma solo di un sottrarsi, di porre col silenzio un’opposizione e un respingimento della morte. Legandosi alla parola «gioia» dimostra come è la stessa espressione a suggerirci che le parole tutto non possono dire. Ma si tratta di un suggerimento a cui si è arrivati, che è costato fatica comprendere, «ricorda quanta tenacia c’è voluta a decifrare/ le mappe dentro alle parole». E sono versi, questi ultimi due finali, che ci rimandano al primo del componimento, «Solo la nudità alla fine ci raggiunge». Cosa voglio dire? Che Anedda ha focalizzato immediatamente l’attenzione su quel dettaglio, «la nudità» che «alla fine ci raggiunge», facendocelo apparire come un’immagine definita e definitiva. Ciò che viene dopo, che succede a quell’immagine, a quel dettaglio che svela già l’essenziale, è la memoria di un travaglio, è la vita rivissuta in un riverbero – la stessa vita che con fatica ci ha portati a far emergere quella rivelazione: che la morte, se nuda ci «raggiunge», vuol dire che l’avevamo dietro, che si nascondeva già nella nostra ricerca, nella nostra vita, in quel riverbero che è tutto quanto abbiamo.

Andrea Caterini

*

Della poesia di Antonella Anedda mi hanno sempre colpito alcune cose. La prima è la vocazione sapienziale, un saper afferrare verità ora minime ora grandi – spesso su temi quali la morte, il tempo, la storia – con un dire che non appena si fa sentenzioso immediatamente dopo sfuma in un’aria fascinosa, indefinita, ammaliante. Verità anche dure, anche annichilite, ma immediatamente piegate a una dolcezza sognante, a una mitigazione del significato attraverso un significante più allusivo, e perciò meno stringente – vorrei dire materno. A versi più immediatamente assertivi seguono sempre versi più indeterminati, quasi enigmatici, e questo crea un effetto spaesante, perché smarrisce improvvisamente il lettore che pensava di tenere in mano “la cosa”. Ho la sensazione che la Anedda sia spaventata dal suo stesso sguardo, che è anzitutto realistico, e che l’enigma sia quasi una sorta di dispositivo di sicurezza per non soccombere stilisticamente al realismo, e psicologicamente al nichilismo. La seconda cosa che mi colpisce della sua poesia è la capacità di cogliere verità nei gesti quotidiani; o, meglio, il suo saper vedere le verità “incarnate” finanche nei luoghi, negli oggetti, nei gesti più intimi e umili della vita di tutti i giorni. Potremmo definire questo suo scrivere come un crepuscolarismo sapienziale o, a parti invertite, come un orfismo domestico, pseudo-colloquiale. Anche quando coglie una verità più astratta o assoluta, la Anedda ha sempre bisogno di ancorarla a un “qui” rassicurante e protettivo. È come se di fronte a certe verità sentisse il bisogno da un lato di proteggersi, dall’altro di mitigare il senso di colpa – il senso di colpa per la frontalità, che sempre, inevitabilmente, è cruenta, impudica, spietata. Il terzo e ultimo aspetto che mi ha sempre impressionato ha a che fare con un altro stridore ancora, con un ulteriore elemento dissonante e spaesante. È evidente che la Anedda ha dimestichezza con un modo di pensare tipico della saggistica filosofica più suggestiva e verticale (penso, non so bene perché, a Blanchot); ma è altrettanto evidente che in lei sono ancora attive memorie culturali ancestrali, pre-razionali, che probabilmente rimangono in vita per funzionalità stilistica, e per rendere, ripeto, meno frontale le immagini della verità. In questa poesia, nel mentre afferma la “nudità” – ovvero una verità esposta – è chiaro il tentativo di coprirsi, fosse anche solo per non prendere troppo freddo, visto che la Anedda è una poetessa che sa “spingere le braccia dentro il freddo”. A rendere tutto così sensuale e accogliente è, alla fine, quella che qui viene definita gioia della reticenza, perché sempre, nella poesia della Anedda, si parte dalla verità e si approda allo smarrimento. Però è anche come se aggiungere enigmi alle “mappe dentro alle parole” smarrisse e confondesse la stessa verità, che risulta come soggiogata e imbambolata da una musica suadente e seduttiva. Infatti quando penso alla Anedda io penso sempre a Shahrazàd.

Andrea Di Consoli

*In copertina: Antonella Anedda in un ritratto fotografico di Dino Ignani

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