08 Gennaio 2021

“Oltre l’illusione dell’unico mondo”. Saggio sulla poesia di Francesca Ricchi

Sul verso che apre I passi della vita, CartaCanta editore, di Francesca Ricchi, nella prima sezione della raccolta, Nascita, “Oltre l’illusione dell’unico mondo…”, dopo aver finito la lettura siamo quasi costretti a tornare, come se solo ora comprendessimo che annunciava e rendeva possibile un evento: l’inspiegabile, l’immotivato momento iniziale di un mutamento, una chiamata senza giustificazioni e che presupponeva l’esistenza di una parola non detta, ma implicita, che precedeva e dava senso a ciò che avevamo appena finito di leggere: d’improvviso: accogliendo il significato che a questa espressione attribuisce il grande Sestov: “Come sono preziosi questo d’improvviso e come sa utilizzarli poco la filosofia, sia per una insufficienza dei suoi metodi tradizionali, sia per la paura che essa sente di fronte all’io irrazionale”. Cioè l’io che devia dalle vie del comune sapere, e si trova appunto davanti a una verità ignorata o dimenticata, che non è in nostro potere ricordare, ma è una verità che lo cambia.

Questo improvviso è infatti l’apertura di una visione e la visione è profezia, non come anticipazione a cui deleghiamo senza timore la scienza, o distopie inevitabilmente attardate perché prevedibili e dunque immanenti ( cosa di più obsoleto della fine, per corruzione morale e intellettuale, da quando siamo nell’età del ferro esiodea, esplicitata dalle impietose parole di Ovidio “irruppe ogni empietà; si persero lealtà, sincerità e pudore, e al posto loro prevalsero frodi e inganni, insidie, violenza e smania infame di possedere”?), qui, riprendiamo, la profezia o visione è qualcosa che da sempre è in atto, qualcosa che svela il presente, l’unico vero mistero che ci appartenga, cioè la nostra vita. La visione che è possibile in ognuno di noi come Dante insegna: “Io non Enea, io non Paulo sono” e trascende le vie del comune sapere per riscoprire ciò che abbiamo dimenticato o smarrito, ciò che l’evidenza ci nasconde.

Sono entrato brutalmente in res, ma una breve premessa è ora necessaria. Oggi è difficile trovare una poesia così visionaria e concettualmente densa come quella di Francesca Ricchi, che ci dona una raccolta sorprendente e felicemente inattuale. Una visione dotata di una immaginazione capace di reggersi sulla logica del paradosso, della compresenza di opposti, una sfida con la ragione che non viene semplicemente messa da parte, in quanto impoetica, ma affrontata nel suo stesso statuto di verità indiscutibile, perché è un pensare anch’esso, ma senza logica, che non vuol dire senza verità. Ora però sul tema della visione bisognerà intenderci. Visione non è l’esasperato analogismo senza pretese che si giustifica con la sincerità, con l’attimo colto al balzo con intuizione spirituale, mistica iperuranica o quello che si voglia, incapace sempre di donare una conoscenza. La visione è costruire un mondo e la visionarietà di Ricchi è sfidare la creazione stessa, quella divina o metafisica o forse unirle, inseguendone l’unità. Dove dunque la differenza? Il vecchio ammonimento dei due amici non è del tutto datato: “però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rìmano stoltamente”.

Anche noi ne conosciamo, ma non vale metterli alle strette, il primato dell’opinione e del gusto personale e dunque ingiudicabile avrebbero il sopravvento, e l’obiezione di Guido sarebbe derisa, dai poeti al passo con i tempi: “Nel profferer, che cade ’n barbarismo,/ difetto di saver ti dà cagione”, visto che proprio quel difetto oggi è pregio e garanzia di autenticità.

Ovviamente non si tratta più di considerare la poesia come ornato della prosa a cui i versi potrebbero sempre tornare (una posizione di giovanile intransigenza che lo stesso Dante supererò), ma la responsabilità di spiegare, giustificare è sempre valida. Si dirà: certo buttiamo via tutta la poesia moderna! Bisogna dire decisamente: no! perché anche le più astruse poesie moderne si giustificano, quando sono tali, al loro interno, nella tenuta del testo intorno a un grumo di pensiero, un oggetto di salvezza attorno ai quali cresce un mondo, un vaticinio di quanto è già accaduto e riportato in vita fingendosi futuro. Quando ciò riesce quel mondo si confronta inevitabilmente con la vita, il mondo reale, si pone di fronte ad esso in una distanza che permette di dare voce nuova all’esistenza, e non si chiude in se stessa, nella convenzionalità del linguaggio o nella assoluta intransitività dei versi.

Invece la tenuta concettuale del lavoro di Ricchi è serratissima e più svolge la sua sfida con la realtà più diventa furente, ponendosi sempre sull’orlo di un abisso, ma questo abisso è ciò che la giustifica, ciò da cui prende la parola, perché esclude la presenza del nulla, anzi la sua poesia è un continuo lottare contro il nulla che vorrebbe inghiottirla. Elude la diatriba tra poesia e pensiero, perché l’immaginazione trasporta le parole in una nuova dimensione che potremmo anche definire visione, visione di un luogo e non una astrazione. Crea un luogo/evento visionario, e lo crea perché già esiste, non nasce da una allucinazione privata: il mondo è l’istante in cui entriamo perdendo qualcosa e il compito di fare i conti con un passato che già è in noi, come le stelle “su di noi scroscianti /da dove nella pelle siano penetrate /consci che ci sono sempre state /resta il mistero /in un pulsare dei conti col passato”.   Allora capiamo che la visionarietà ingenua quanto arrogante del solipsismo che in quanto tale accoglie consensi, perché non interessa nessuno, è un futile baluginio, una superbia o umiltà diabolica, che non cambia chi scrive o chi legge, perché in fondo lascia prevalere la inevitabile evidenza del mondo eludendo di principio il confronto. Insomma, una pausa innocente.

Francesca Ricchi ha invece compreso che ciò che più conta, è quello non possiamo dominare, quello che non nasce da noi stessi, ma ciò che esiste e precede ogni nostro discorso e non vuole spiegazioni ma solo partecipazione, appropriazione fisica sarebbe più giusto dire per la sua poesia, superando il distacco altrimenti infinito con ciò che è solo reale, come l’inessenziale affacciarsi a una finestra che non porta a nessuna verità. “La luna ci ricorda soltanto chi siamo/ e chi siamo ci impedisce la luna”. Questa distanza, è lo sguardo che vede il nulla che è nelle azioni, nel mondo che ci circonda, nell’evidenza che non vuole nascondere il niente che lo sorregge. Allora la biografia, gli eventi, sono costretti a dire di non essere soluzioni e qui scatta la rabbia, l’abbandono di ogni dimostrazione, violenta nel suo svolgersi perché vuole possedere l’essenziale, e per farlo ci vuole un corpo, “diamoci appuntamento dentro di me /forse già morti /pur di farci sinceramente entrare / non fu la strada del ristorante /o la terza panchina del parco la soluzione /ora che tutto è dissolto /proprio là potremmo incontrarci /in quel famoso /mai più”.

Se c’è una potenziale ripetizione sarà di un evento nuovamente unico, uguale e diverso, il mai più si potrà ripetere sfidando ogni logica, ogni dato evidente, ogni strada percorsa o l’esistenza reale, immutabile, la terza del parco, della panchina che ci ha ospitato.

I tre tempi che scandiscono la raccolta: Nascita, Apocalisse, La prima morte, non disegnano un cerchio o un eterno ritorno, ma stabiliscono una temporalità non cronologica, di cui ignoriamo la durata, è impossibile stabilirlo, scorre su binari che non illudono di partenze e arrivi, di presente e di passato, o di relitti di vita quotidiana ricordati o smarriti, insomma di tutto ciò che se si disponesse in una storia farebbe prevalere il sentimentalismo o una cronaca sentimentale; qui la temporalità può essere una vita, una notte, un istante: altre tempi scorrono accanto al nostro, infuriano, assediando il ritmo naturale o le nostre precarie e impaurite misurazioni del tempo che passa.

Nella raccolta assistiamo al confronto tra un io e un tu, al diventare un noi che si separa e unisce, un canto d’amore che fa pensare a una prosecuzione o a il non detto nel Cantico dei cantici, dove il gioco erotico diventa una lotta,  dove l’attesa è compiuta, i corpi si sono conosciuti e l’amore non può sciogliersi in canti di gioia, in allusioni, ma accettare le nudità, le mancanze, non attendere nulla dal futuro, nella volontà di voler essere qualcosa che si può ripetere, in ogni attimo che ci appartiene, e vive e muore ogni volta nel presente, e tanto più è pieno e realizzato, tanto più è contemporaneamente vuoto. Una pienezza che deve svuotarsi mentre avviene per non lasciare spazio all’insinuarsi del nulla, del gesto ripetuto solo per una ostinata disperazione. È un cantico in cui l’amore è una furia necessaria, rende carnale l’unione e il distacco, benedetti dall’agonismo che diventa possibilità di essere uno e l’altro, un noi scisso che resta unito aggrappandosi alla non ragione del mondo, alla sfida portata al mondo, fosse pure quello ristretto di una stanza, di un bagno, di una cassapanca, di ciò che si intravede da una finestra.

Ad avvolgerci e portarci dentro è certo la sintassi, da cui prendono misura i versi che si susseguono per sofferte lacerazioni, ferite lasciate a se stesse nella paratassi o inarcature che spezzano il fiato, perché il proposito non è cercare delle argomentazioni, ma trovare le parole nuove, e un loro disporsi che eviti le necessarie conseguenze cui portano le congiunzioni o il richiamare un significato noto, un oggetto conosciuto, devono essere parole che abbiano insieme il presente e il passato, sfuggano da definizioni univoche seguendo ripetizioni che le mutano, impediscono al mondo di stare fermo anche se chiuso tra le mura di una stanza. Passiamo dai flutti dell’essere, grotte e stelle a oggetti quotidiani, stravolti nella loro evidenza, immutabile e sempre diversa scenografia di un evento che, proprio perché potrebbe ridursi a un’ora, un risveglio o un’insonnia, si pone fuori del tempo, anzi è strappato fuori del tempo; anche nei momenti in cui si placa, la possibile felicità deve trattenere se stessa con forza, o abbandonarsi con strappi dolorosi: la rabbia, la lotta non ammettono pause.

Se la sintassi ha una consequenzialità e pare spesso una prigione, è perché si pone sul limite di quanto si può articolare, in un sentire che deve rifiutare l’illusione facile di essere inediti e invece non lo si è; se si vuole esserlo deve portare alla rabbia o al cedimento, alla frenesia o alla pacificazione, movimenti che non sono in contraddizione, ma si compenetrano, sino a quasi prendere uno le caratteristiche dell’altro. Questa lotta è l’aspetto decisivo della raccolta, il nuovo non è novità, non è illuminazione indescrivibile, estasi privilegiata: è sostenere il peso della vita vissuta e da vivere, tenute in quasi ossimorica compresenza, senza sicurezze, perché tutto può essere insieme diverso e nuovo, ripetibile o irripetibile, se si accetta di rimanere sull’orlo di un abisso: questo il prezzo da pagare per evitare il nulla, il grande divoratore di ogni senso, parola, istante della nostra vita.

Un nulla sconfitto dall’appartenere al corpo, come venisse assorbito dal suo metabolismo, per questo bisogna farlo entrare, offrirgli un grembo, una nascita, affinché diventi altro da sé e non sia la distruzione di tutto. Questo pare essere il compito che Ricchi affida alla poesia, spettatrice muta di quanto accade, perché nel dialogo tra io e tu è anche la lotta per la scrittura: “L’anima palpita in clandestinità /e il luogo in cui si cela /batte a un ritmo sconosciuto /si può cercare soltanto in poesia”.

Dopo la separazione da un principio, dal noi iniziale, l’uscita da una protettiva grotta, che ha trasmesso tutto ma non ha insegnato niente, c’è un mostro da sconfiggere, l’illusione ricordata di essere inediti; questo è l’ennesimo trucco per far sì che quel che ci appare si possa vedere con schemi prefissati, già pronti, e vengono incontro preparando la gabbia che subito ci imprigionerà nella indiscutibile autorità della evidenza, del sentire comune, che presto riaffermerà le sue leggi. Ma la nascita per Ricchi non è ingenuità o innocenza ritrovata in quell’attimo che in fondo viene benevolmente concesso a tutti, pur che poi lo si dimentichi, la nascita di cui scrive Ricchi si porta dentro la conoscenza del mondo e la sua smemoratezza, è uno sfuggire alla verità illusoria di vedere un nuovo mondo con vecchi schemi, anzi questa intoccabile verità è il mostro da cui dobbiamo distogliere lo sguardo, e le difformità sono quello cui non dobbiamo rinunciare, perché ci rende irripetibili senza che l’esperienza diventi quella di un tutti generalizzabile, ignorando gli aspetti accidentali della nostra vita, quelli che per noi sono più importanti, come invece il mostro vorrebbe. “Tramite le mie difformità/ potremmo incontrarci altrove /tondi in un totale  /senza crepe e fratture del reale /sfuggendo il terrore /del mostro da guardare /sfuggire al terrore che incute”.

E attenzione alla parola impero, che ricorre all’inizio e alla fine della raccolta e non è che un sinonimo del mostro appena letto. Prima occorrenza: “accettare /che a imporsi è un impero /schemi di ripetuti eventi”, al termine: “alla fine/ le nostre stime crollano come ogni impero/ i giudizi tacciono/ non c’è bisogno di contenere”.

Così l’Apocalisse, seconda sezione del libro, non è una fine dei tempi, ma un evento che coglie in vita, un giudizio eternamente presente, non bisogna dormire, direbbe Pascal, nessuno sa il momento finale di ogni nostra giornata, perché la fine, lasciata la ragione ai suoi inganni, non è al termine di un percorso, ma in ogni imprevedibile istante, non è la conclusione di qualcosa, ma un inizio, sovvertendo ogni logica.

E infatti si sopravvive alla apocalisse, si entra in nuovo tempo, quello de La prima fine, la sezione conclusiva; se è la prima, dunque ne seguiranno altre, anzi, la fine sarà inserire nel tempo della vita il suo contrario, il tempo della conclusione, rinviare la morte (cosa altro possiamo fare se non arrivarci senza cedere al niente, alle tentazioni quotidiane della disperazione?), sfidare sempre di nuovo ciò che ci acceca e terrorizza, ci paralizza: la sparizione.

Sarà mia privata ossessione di vedere nelle tappe ternarie un richiamo alla Commedia, ma in fondo anche Dante, in procinto ormai di vedere l’ultimo segreto, non chiede di essere protetto per quando tornerà tra i vivi, nel suo tempo, dove nulla di ciò che gli è accaduto è una garanzia di salvezza? Non sa che può ancora perdersi nel mondo illusorio in cui dovrà vivere? che la selva oscura non si supera mai definitivamente finché siamo nella nostra vita e ci attira come una sirena?

Torniamo alla raccolta, così si chiude la seconda sezione, Apocalisse: “Siamo sopravvissuti all’apocalisse/ dimoriamo su uno scoglio a picco/ insieme alla morte/ fra i flussi ripuliti dal sangue /Nel vorticare delle nuove trasparenze /si rifletta soltanto /se sia il caso di ricomporsi/ in una nuova sfida/ di umanità”. E qui restiamo sorpresi: ci suona nuovo quel si rifletta impersonale, il noi presente solo tre versi prima dilegua e con lui anche la connessa diade io/tu, questo si per la prima volta non indica un abbandono, un disfarsi delle cose o il loro violento stravolgere se stesse, costantemente presente nei versi, bastino due esempi, per i quali non serve sapere il soggetto: si dibatte afono, si fa strappo e incendio. Qui invece troviamo un’improvvisa scomparsa dei corpi, un riflettere, ma non è un intervallo astratto, un recupero del pensiero, perché è sospeso in un vuoto, lo scoglio a picco, non è un giudicare o un comprendere, oppure soppesare i pro e contro, ma la negazione di tutto ciò, la ragione non guarda se stessa in una sorta di liberazione, ma si confonde con il vorticare delle nuove trasparenze, intravede  ciò che la supera e la stordisce.

Con questo stordimento entriamo nella sezione finale, La prima fine. I corpi si ritrovano ora vicini ora lontani, ma come ormai fossero indivisibili, per questo se affiora un rimando a di ciò che è stato, non diventa mai elegia, come fossero compenetrati anche se non si toccano, come se anche la distanza si annullasse “se ti tocco è per amore /e può darsi che la ragione vada uccisa… se manchi e l’amore /chiede accoglienza fra le gambe /nel respiro /e in ogni benedizione, scomparsa e ritrovata”. Di nuovo gli estremi si uniscono, inseparabili, anche “nel movimento stanco /sempre quello /a cercarti dove sa che non sei/ eppure dove insiste a cercare”. Si possono finalmente ricordare (o anticipare? Le due ipotesi sono forse entrambe valide) i momenti sfuggiti, sapere che una mancanza può essere colmata perché si perdono i criteri delle misure, delle divisioni in spai e tempi non più inviolabili: il mostro, il volto di Medusa del mondo circostante può essere sconfitto: “non smettere di alternarsi /dove non sono cose /non sono mezzi /e finiscono perfino le domande /nella pazzia /di scomparire insieme”. 

Questa pazzia, che è l’unica sapienza non spenta e cinica della nostra vita, ci lascia nell’attesa di una parola che abbiamo detto essere implicita all’inizio di questo viaggio: d’improvviso. Un improvviso che non appartiene alla biografia dell’io o del tu, che non ha insegnato nessuna strada ripetibile, ma ha fatto comprendere che il tempo e lo spazio non sono immutabili, l’impero può essere sconfitto, le priorità capovolte, perché come affermava Kierkegaard, bisogna lottare per il possibile. Un compito che è la sola profezia che possa essere ancora detta.

Paolo Del Colle

*In copertina: John Martin, The Great Day Of His Wrath, 1851

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