24 Maggio 2022

“Il poeta è il luogo in cui le forze del tempo tendono a equilibrarsi”. Su arte & regola

Progresso è una parola che non ha ampiezza, non ha oriente, è priva fondale: si realizza nella contraddizione. Secondo Arthur Rimbaud, il poeta è “un moltiplicatore di progresso” se riesce a “farsi veggente… mediante un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi”, tentando la propria anima, sprofondando “nell’ignoto” (così a Paul Demeny, nel 1871, nella fatidica “Lettera del Veggente”). In questo caso, progresso è una parola che significa una profondità, che implica lo smarrimento.

Verso dove progredisce un artista, un poeta; in quale direzione si perde? Diremmo, dappertutto, da tutte le parti, appena cerchi di afferrarlo, puf, non c’è più.

Fino al secolo scorso, le scelte di un artista sono condizionate dalla propria ricerca spirituale: comprendono tutto l’arco dell’esistente, non c’è scisma: l’arte supera l’artista perché egli vi muore. Carlo Fornara, il discepolo di Giovanni Segantini, opta per il divisionismo perché “a differenza di tanti ismi che si succedono in una ridda vertiginosa… non è una moda effimera”, è “una rivelazione” che “ha portato nell’arte un elemento che è la fonte stessa della vita universale: la luce” (19 febbraio 1952, ad Amedeo Catapano). Scipione, il grande pittore della “Scuola romana”, scrive nel suo diario che “Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto… Bisogna entrare in un voto, indossare un voto” (14 marzo 1932).

La dinamica dei contrasti è chiara, da subito: ricerca rispetto a moda; ritmo rispetto a frenesia; voto in contrasto al mondo, al mondano, al modaiolo; luce contro le tenebre. L’arte è una scelta, una lotta. Per l’artista la tecnica è alchemica, il gesto artistico – in virtù di ciò che evoca in chi osserva, legge, pratica – è magia: “Imparare la Magia, le arti magiche; farle imparare ai figli, non i diplomi… Perché chi ci protegge? Chi ci difende? La religione? L’autorità? La scienza?”, scrive Ceronetti in uno dei micidiali Pensieri del tè (Adelphi, 1987).

Lungo il secolo, l’artista si manifesta attraverso manifesti e riviste, è vero: vuole essere visto e rivisto, che ci si accorga di lui, vuole denunciare un fatto o annunciare una nuova idea; vuole cambiare il mondo coinvolgendo le forze della Storia. Soprattutto, si nasconde tra i meandri di associazioni diversamente esoteriche. Stefan George fonda il “Kreis”, il proprio circolo di adepti; Henry de Montherlant, dopo la Grande Guerra, decorato di ferite, fonda “L’Ordre”, un ordine militare e letterario, che si rifà alla cavalleria medioevale e ai samurai giapponesi, retto da una specie di “moralità naturale”: “rettitudine, fierezza, coraggio, sapienza, quindi fedeltà, rispetto della parola data, padronanza di sé, disinteresse, sobrietà”. In Russia, Nikolaj Gumilëv, il marito di Anna Achmatova, fonda, nel 1911 la “Gilda dei Poeti”, che emana un movimento estetico, l’acmeismo – cui appartiene, tra gli altri, Osip Mandel’štam – legato a una nuova visione del mondo a “una più esatta cognizione dei rapporti tra soggetto e oggetto” (come scrive Gumilëv).

L’arte è lo strumento da raffinare per la propria ricerca: il poeta agisce nascosto, al di là del torpore della fama, della cagnara del comprensibile. A un pubblico indistinto, spesso, preferisce una stretta platea di adepti: ad ogni modo, anche quando urla in mezzo a una piazza, il poeta deve sempre essere scovato, inseguito.

René Char molla il Surrealismo – così scrive ad Antonin Artaud – “a causa del settarismo cretino dei suoi apostoli”: durante la Seconda guerra, come “Capitaine Alexandre”, guiderà una banda di resistenti, con il piglio di un re – i suoi Fogli d’Ipnos, stampati da Albert Camus nella collana diretta per Gallimard – hanno il passo di una ‘regola’, di un regolamento di conti. D’altronde, René Daumal frequenta i circoli di Gurdjeff e lì precisa la poetica narrata nel Monte Analogo; William Butler Yeats – poeta esoterista, visionario, già maestro di miti irlandesi – si accompagna, negli anni Trenta, a un guru induista, Shri Purohit Swami, di cui introduce The Autobiography of an Indian Monk (1932) e grazie a cui traduce The Ten Principal Upanishads (1938): l’ammirazione verso la poesia sapienziale di Tagore è condivisa con Saint-John Perse, che ne descrive in questo modo la tenuta, la tensione: “La sua poesia è senza età e senza dimora, affascinata dall’eterno, cerca l’origine familiare dell’umano e la riva d’argilla dove si spoglia la notte dell’uomo” (1961). Affascina l’icona del poeta-guru, del sapiente che si esprime in versi più che quella – già usurata – del poeta in assetto di battaglia, o ai vertici della ‘politica’.

Ad Ascona, sul Monte Verità, si riunivano teosofi, naturisti, pensatori irriverenti, da Jung a Hermann Hesse, da Isadora Duncan a D.H. Lawrence; l’opera di Ezra Pound si costituisce come una poetica della ‘via’: il poeta non indottrina e non indovina, indica (“Collo sparire della bellezza numismatica coincide la corruzione dei governi”).

L’arte reagisce all’anonimato della città con la comunità, al dominio dell’anagrafe con i nomi rituali, al regno della statistica e della misura con l’opera unica, la parola inafferrabile, l’indefettibile sprezzo verso il proprio tempo, troppo piccolo. Eppure, il poeta eleva a cattedrale una sedia, si accorge, senza sfarzo, del minimo moto dell’universo, vive il privilegio della povertà.  

L’arte, dunque, si configura come regola: bisogna vincere il mondo senza farsi avvincere dal mondano, esulare dall’ordine imposto, burocratico, dando un nuovo ordine al tempo (l’arte ridona una liturgia all’io, senza scadere nel religioso); uscire dal canonizzato restando nell’orbita del canto. Il singolo si esige perché parte di un gruppo di pari, dove ciascuno dell’altro conosce il segreto. Proprio in virtù della regola l’artista è il grande irregolare, inadempiente a ogni nomenclatura: egli obbedisce al vero, al proprio, che non si ripete e non si condiziona.   

“Il poeta non può respingere nulla via da sé. Egli è il luogo in cui le forze del tempo tendono a equilibrarsi”, scrive Hugo von Hofmannsthal, già discepolo di Stefan George. Purché ci sia un legame, questo si può recidere: come un libro d’ore, l’arte non educa, non diverte, non è la sovversione dei vili, ma preghiera incessante, isolamento, esercizio continuo, formula incantatoria.

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