“Non fare il folle, mio cuore”. Ezra Pound tra Rimbaud e l’antico Egitto
Politica culturale
La prima volta mi dava del lei – “Mi perdoni il disturbo. Ho una proposta da farle per Pangea…” –, era spavaldo e umile, di intelligenza raddoppiata, sorrideva. Sorrideva anche se ci parlavamo solo per mail. Gabriele Galloni mi è stato donato da Matteo Fais, era il principio del 2018, Pangea era appena nata, la facevo in un capannone semivuoto con sguardo su case sfatte e campi di metallo. Mi venivano a trovare solo i piccioni. L’idea di Galloni era difficile, commossa, stupefacente. Intervistava i malati terminali. Quelli che avevano voglia di parlare della vita, della morte. La rubrica si intitolava “Cronache della fine” ed è una delle cose più candide e brutali che abbia pubblicato su questa rivista. Gabriele era attirato dalla morte come chi cammini sul bordo di una piscina vuota, profondissima, per tuffatori. Ancora di più, lo attraevano le storie disarticolate, deformi degli uomini. Forse pensava ai re taumaturghi, a quello cui basta toccare il lembo della veste per tornare sani. Da “Cronache dalla fine” volevamo trarre un libro, poi piagato tra le promesse parziali.
Per Pangea Gabriele Galloni ha scritto molto (qui un primo archivio dei suoi articoli), il rapporto con la rivista ha coinciso con la sua nascita ed esplosione come poeta: nel 2018 pubblica In che luce cadranno e Creatura breve, l’anno dopo L’estate del mondo e Sonno giapponese. Nell’ultima pagina di quest’ultimo libro è scritto: “Qualcuno propose all’uomo di suicidarsi. Non un suicidio appariscente, no, ma un addio dimesso, senza pretese; un suicidio unplugged… L’uomo valutò l’ipotesi. Il suicidio come conferma definitiva, inevitabile approdo della sua condizione. L’uomo trovò il suicidio un’ipotesi fattibile… Eppure, pensò ancora l’uomo, qualcuno avrebbe potuto interpretare il suo suicidio come un tentativo patetico di ravvivare l’immagine di sé – quindi una specie di slancio vitale, proprio quando di slanci vitali la vita sociale dell’uomo era digiuna. Qualche minuto per mettere a fuoco la questione e la faccenda si ridusse a: il suicidio è a posteriori una conferma o una smentita? E una conferma equivale a una pubblica resa? E una smentita, invece?”. La morte sottrae: non giustifica, non esalta, non esime dal pianto né dallo spietato, perché tutto, infine, sbiadisce; riporta l’opera dell’uomo allo zero e allo zenit. È un monito per chi resta, che deve ingegnarsi a setacciare i morti, a snidarli, a parlare con loro.
Gabriele Galloni, nelle fotografie, ha la bellezza degli immortali. Mi ricordava, per certi modi, Ryunosuke Akutagawa, il grande scrittore giapponese che scrisse la sua morte prima di compierla. Era elegante, narciso, nel quotidiano eccesso. “Un giorno i mostri mi divoreranno, ne sono certo. A furia di scavare troverò la pace. Ma non avrò da rimproverarmi niente”, mi ha scritto Gabriele, un giorno. Tra noi c’era una distanza incolmabile – le feritoie della vita, gli incontri tardivi, ciò che è fatto e non ha replica – ma una presenza pronta. Un giorno, l’anno scorso, mi propone una “idea clamorosa” (così l’oggetto della mail): voleva intervistare Tommaso Paradiso, interrogarlo su La Repubblica di Platone; insieme ad Antonio Veneziani ha curato, per Pangea, una caustica rubrica di poeti di oggi (dove è pubblica anche la fatidica Olimpia Buonpastore). Gli era piaciuto che avessi titolato un suo articolo, uno degli ultimi, “Confessioni di un poeta che ha rinnegato tutto, tranne l’ombra”. Ho appuntato, tra i nostri scambi, questa frase, che mi pare esemplare: “Io voglio raccontare il rimosso, l’Abisso; voglio calarmi in ogni pozzo dell’anima. Scoprire l’Antartide nera”. Non ci siamo mai incontrati, molte volte mi ha proposto un incontro. Forse non lo voleva davvero, perché in una vita non possiamo mangiare tutto. È arte, anche, eludere gli interrogativi e lasciare gli altri, tutti, nel pieno della domanda, con l’ago negli occhi. (d.b.)
***
In una intervista a Ilaria Palomba, pubblicata su Pangea il 25 giugno 2019, Gabriele delinea la sua poetica in un lunare manifesto del “Gallonismo”:
Ecco un esauriente manifesto del Gallonismo:
1) Attrazione per il mondo al di là – o sotterraneo. Per il rimosso, il tabù, il limite. Il morire, la ritualità del morire; la Morte. I morti (of course). La civiltà dei defunti, l’architettura funeraria.
2) Ossessione per l’estate. L’estate delle piccole cittadine costiere del Lazio – Torvaianica, San Lorenzo, Nettuno, S. Marinella e via dicendo. Le notti estive, il lungomare; sic transit gloria mundi.
3) Il culto (questo sì tutto intimista) della memoria, del particolare elevato a universale.
4) Una sessualità obliqua, inclassificabile, che sia veicolo di qualcos’altro; non un fine, ma un mezzo espressivo – o un semplice incidente. Tipo voi.
*
È in questa vita un’altra vita nuova
e in questo corpo un altro corpo ancora.
Mi segui fino al bagnasciuga e indietro; affiora
a pelo d’acqua una bottiglia vuota.
È notte, ma la spiaggia è affollatissima;
così che mi è difficile ascoltarti.
Raggiungiamo le dune. C’è un sentiero
dietro il canneto; porta
alla vecchia fabbrica di sapone.
La luce dei falò qui non arriva –
e nemmeno una voce.
Ho tredici anni. E della voce adesso
saprò tutto quello che c’è da sapere; da fare.
Ché in questa vita è un’altra vita nuova
e in ogni corpo un altro corpo ancora.
Gabriele Galloni
*La fotografia di Gabriele Galloni in copertina è tratta da qui