21 Marzo 2020

“Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Salvatore Toma, l’anarchico spirituale che sognò di diventare bestia

Quando morirò
io mi sentirò bene lo stesso
e fresco e semplice
come una volta.
Quando il colpo alla tempia
mi ucciderà
io starò ancora più bene
conserverò sempre
il mio odore selvaggio
e sfiderò il vento
con l’identico stile
di questa sera d’inverno.
Starò sempre e bene comunque.
Anche da morto
io sarò un ribelle
uno strano tipo
giacché non c’è altro modo
oltre la morte
di curare i rimorsi i dispiaceri
la noia dei soprusi
le bruttezze le violenze
i capogiri della vita.
Mi sentirò bene anche da morto
e puro e semplice e ribelle.

Salvatore Toma

Canzone notturna, da Canzoniere della morte, Einaudi, 1999

*

C’è una tensione inedita in Salvatore Toma; una tensione, dico, che non si riscontra in tutta la poesia italiana del Novecento; una tensione che oscilla tra una violenta ribellione verbale, addirittura un nutrito odio verso il genere umano, e una onirica pace che si scopre solo a contatto con la natura. Toma era di Maglie, un paese del Salento, e di quella porzione di Puglia conservava nel corpo il rosso della terra che nutre i suoi ulivi e i suoi vitigni – nel sangue un incendio senza pace. Si deve guardare a questo poeta – che fu isolato come pochi altri, che nulla fece per promuovere i suoi versi (nonostante gli attestati di stima di critici come Oreste Macrì e Maria Corti), che scelse, salvo una breve permanenza romana, di restare esiliato nella sua stessa terra d’origine – come a un anarchico non di natura politica ma spirituale. Ma la sua anarchia, se così vogliamo chiamarla, era una ricerca profondissima, perché drammatica, solitaria, disperata, di una purezza che pareva riconoscere solo in sogno. Da qui un ossessivo ripetersi di liriche dedicate alla morte, quasi un tentativo di seduzione. Ma la morte, nella poesia di Toma, non va presa né come metafora né tanto meno come simbolo. La morte è per lui sempre un mezzo, un mezzo anche espressivo, per riuscire a non dimenticare mai quel fine ultimo e definitivo che è appunto la purezza. Allora, se la morte è un mezzo, questa funziona anche come possibilità di oblio. Ma cosa vuole obliare Toma se non «i rimorsi i dispiaceri/ la noia dei soprusi/ le bruttezze le violenze/ i capogiri della vita»? Toma dà spesso in escandescenza, mette sul palcoscenico il proprio odio; un odio tutto rivolto al genere umano. È questo il punto. Se l’odio non si focalizza su qualcuno in particolare ma sul genere umano tutto, questo significa che il genere umano è messo sotto accusa per qualcosa di ancestrale, per qualcosa non tanto di compiuto ma di cui è macchiato suo malgrado. È da uno stato di colpa che Toma vuole liberarsi, quella colpa è la sua più grande disperazione, perché è una colpa che sa abitare anche in lui. Quella purezza sognata per mezzo della morte, Toma può trovarla solo nel regno animale. Se con tanta forza e determinazione difende gli animali – porci, agnelli, cani, cavalli, conigli, anatre, galli, ma pure falchi e lumache –, questo accade perché in loro Toma riconosce quello che il genere umano ha perduto. E se, come in un’altra poesia, tra le più ispirate dell’intero suo Canzoniere, sogna un paradiso, il regno in cui tutto è già purificato perché ogni colpa sarà obliata, chi lo abita sono ancora gli animali. In definitiva viene da pensare che Toma stesso, con la sua poesia selvatica e selvaggia («conserverò sempre/ il mio odore selvaggio»), per mezzo della morte, desiderasse ardentemente essere lui stesso animale. Non, come qualcuno ha scritto, un ritorno al primitivo (sia pure linguistico), ma proprio una volontà feroce di strappare via da sé l’irremovibile, la colpa ineludibile. Fino a divenire pura anima.

Andrea Caterini

*

Carmelo Bene, Antonio Verri, Salvatore Toma, Claudia Ruggeri: tutti scrittori salentini; e tutti, sia pure in modo diverso, “maledetti”, rapiti dal demone artistico. Salvatore Toma è poeta che deve la sua emersione da una pressoché totale invisibilità alla filologa Maria Corti, che con il Salento ha sempre intrattenuto un rapporto intimo e speciale. Fu lei, nel 1999, a curare il fortunato Canzoniere della morte, che è sicuramente una delle testimonianze più folgoranti della poesia “sommersa” del Sud. Salvatore Toma ci risulta a questa distanza una creatura ribelle, selvaggia, senza grandi mediazioni culturali. La sua breve esistenza si svolse tutta a stretto contatto con la natura, ma anche in aperto contrasto con il mondo degli uomini – tutte le verità di Toma nascono da un contatto assiduo con la natura e da una distanza rabbiosa dagli uomini, che sentì ostili, minacciosi. Il grande sogno di Toma fu quello di sciogliere la condizione umana all’interno della condizione naturale. In ogni suo verso si sente questo impulso a farsi natura, di essere assimilato e assunto nella pace del mondo vegetale. Tanto sentì insopportabile la condizione umana che preferì vivere da creature selvaggia, in continua osservazione di alberi e animali, e in perenne ascolto di una verità più grande rispetto a quella, fallace, degli uomini. Fu la “purezza” la sua più grande visione. E questa “purezza”, che visse come visione ma anche come vocazione morale, egli la trovò massimamente dispiegata nella morte, ovvero nel luogo più distante dalle miserie umane. Per Toma la morte non era il luogo della pausa del dolore, della fuga dalle passioni, della pace per i soccombenti, bensì un luogo puro, il Luogo Puro per definizione, dove essere finalmente nella purificazione della pace e lontano dai “capogiri” della vita e delle sue violenze – un Luogo dove finalmente essere “come prima”, evidente allusione a una inconsapevole memoria edenica. Questa poesia è chiaramente una sfida: una sfida a chi non lo accetta, a chi vorrebbe cambiarlo, a chi non lo riconosce come poeta. È come se dicesse: se pure morissi, nulla cambierebbe della mia purezza; anzi, non avrebbe limite il mio benessere, la mia libertà di essere “uno strano tipo” (non pochi versi di Toma hanno un’immediatezza brutale, da parlato senza mediazioni letterarie), un uomo, insomma, “e puro e semplice e ribelle”. Dunque la morte, per Toma, è sì Luogo Puro, ma anche strumento di lotta, “arma” da puntare alla tempia di chi vorrebbe umiliarlo coi soprusi e con le violenze. In questa poesia è chiaro come la morte da umiliazione estrema diventi momento estremo della dignità. Questo è davvero un vertice della poesia e dell’umanità: considerare la morte come luogo di sottrazione al male, come una possibilità di vita pur di non piegarsi al male, pur di non entrare nell’inferno del dolore terreno. Sono certo che Toma morì – non sappiamo se suicida oppure no – vedendo davanti a sé un paradiso di alberi, fiori, erbe, animali; e sono certo che vi andò incontro con impeto, in fretta, dolce e furioso com’era, di corsa verso la sua terra promessa.

Andrea Di Consoli

 

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